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Quanti sono i lavoratori precari

La stima del numero dei precari non è semplice. Ma se adottiamo una definizione “operativa”, che includa i lavoratori a termine involontari, i collaboratori con forti indizi di subordinazione e gli individui non più occupati perché hanno concluso un contratto temporaneo e che tuttavia sono ancora sul mercato del lavoro, possiamo calcolare che la precarietà coinvolge in Italia 3.757.000 persone, e una su quattro non è occupata. Con un’incidenza sul totale dell’occupazione del 12,2 per cento.

I buoni risultati sul mercato del lavoro che giungono dalla Rilevazione sulle Forze di lavoro dell’Istat, ed in particolare il calo del tasso di disoccupazione (6,8%, media 2006), sono in larga parte da attribuire all’occupazione a termine, che ha contribuito per il 46% alla crescita dell’occupazione complessiva. Tale crescita, che oggi assume una connotazione positiva, ha però un’altra faccia della medaglia: la precarietà.

Negli ultimi anni la precarietà lavorativa ha coinvolto un numero di lavoratori sempre crescente: da disagio individuale è così divenuta un fenomeno sociale che riguarda non solo il mercato del lavoro dei giovani, ma anche le loro scelte riproduttive, i conseguenti comportamenti economici e le ricadute complessive sugli equilibri previdenziali attuali e futuri. La questione precarietà, pertanto, ha scalato l’agenda politica. Malgrado ciò le sue dimensioni sono quanto mai incerte, tanto che proliferano numeri diversi, che fanno riferimento a concetti e a fonti informative diverse.

Un numero difficile da calcolare

La stima del numero dei lavoratori precari presenta, effettivamente, diverse difficoltà. La prima è di carattere concettuale: la precarietà, pur riferita in generale a uno stato di insicurezza lavorativa, è una condizione sfumata, che coniuga situazioni oggettive con sensazioni individuali. L’associazione che generalmente viene fatta tra precarietà e lavoro temporaneo nelle sue diverse forme contrattuali è una approssimazione che non tiene conto della complessità e delle opportunità dell’attuale mercato del lavoro. Infatti, tale approccio limita l’area della precarietà all’occupazione escludendo quello che potremmo definirethe dark side of the moon”, composto da coloro che non hanno più un lavoro proprio in quanto precari. Invece, è insita in un mercato del lavoro flessibile l’alternanza di periodi di occupazione e periodi di non occupazione. Le persone che in un dato momento sono occupate con contratti temporanei sono precarie esattamente come quelle che in quel momento non sono occupate perché è finito un contratto a termine. Rilevare in una indagine campionaria una persona che generalmente lavora con contratti a termine nel periodo in cui lavora o nel periodo in cui non lavora è una questione puramente accidentale. La stessa persona, se osservata più volte nel corso dell’anno, potrà risultare a volte occupata e a volte disoccupata, ma il suo rapporto col mercato del lavoro è esattamente lo stesso; la sua natura di precario emerge a prescindere dall’essere occupato o meno in un dato istante temporale. Inoltre, la componente non occupata del precariato è forse quella politicamente più rilevante in quanto ha bisogno di sussidi, di contributi figurativi, di ammortizzatori sociali, eccetera.

Una definizione “operativa” di precarietà

Non è nostra intenzione in questo articolo definire i contorni concettuali della precarietà lavorativa né analizzarne le implicazioni sociali. Con un approccio pragmatico, intendiamo invece proporne esclusivamente una definizione “operativa”, che includa a) i lavoratori a termine involontari; b) i collaboratori che presentino forti indizi di subordinazione – siano coordinati e continuativi, a progetto, occasionali, oppure a partita Iva; c) le persone non più occupate perché hanno concluso un contratto temporaneo e che tuttavia sono ancora sul mercato del lavoro.
Una seconda difficoltà nella stima dei precari è la disponibilità di informazione statistica, che si presenta frammentaria e a volte contraddittoria. Riteniamo, tuttavia, che utilizzando in modo integrato le informazioni statistiche desumibili dalla Rilevazione sulle forze di lavoro (Rfl) dell’Istat e della Rilevazione Plus dell’Isfol, e tenendo presente i riferimenti degli archivi amministrativi Inps, si possa finalmente avere un quadro più definito delle dimensioni della precarietà come da noi identificata. (1)

Lavoratori a termine

La più consistente di queste dimensioni è costituita dai lavoratori dipendenti a termine, che nel terzo trimestre 2006 la Rfl stima complessivamente pari a 2.249.000 unità. (2) Per aumentare la precisione della stima ci sembra però opportuno considerare tra i precari solo i 1.979.000 dipendenti a termine involontari, escludendo la piccola parte di lavoratori che hanno accettato di buon grado una occupazione a termine. (3)
La Rfl consente pure di illuminare la faccia oscura della luna del lavoro precario a termine, ovvero i 789mila individui non più occupati ai quali è scaduto un contratto a termine e che sono in cerca di lavoro o sarebbero immediatamente disponibili a lavorare.

Co.co.co, co.co.pro e collaboratori occasionali

La seconda dimensione, probabilmente la più controversa, riguarda la misura delle collaborazioni coordinate e continuative o a progetto. Una prima indicazione ci viene dalla fonte Inps, di natura amministrativa, la quale indica il numero di contribuenti della Gestione separata nel corso del 2005 in 1.475.111. (4) Si tenga presente che è largamente accettata l’idea che solo una parte di questi siano effettivamente soggetti deboli sul mercato del lavoro; eliminando infatti tutti coloro che dispongono di un altro reddito garantito (pensionati e lavoratori per i quali i contratti di collaborazione costituiscono un secondo lavoro), i professionisti e gli amministratori di società, si giunge a stimare il “nucleo duro” dei collaboratori, quello a rischio di precarietà, in circa 800mila unità. Le fonti campionarie danno invece stime inferiori ma tra loro molto vicine: 381mila collaboratori la Rfl, 407mila Plus. (5)
È opportuno chiarire che i collaboratori desunti dalla Rfl, per l’impostazione della rilevazione, sono i soggetti per i quali la collaborazione rappresenta lo “status” esclusivo e l’elemento fondante della condizione lavorativa, i cosiddetti collaboratori puri. (6)
Plus, invece, presenta un’analisi delle condizioni dell’attività lavorativa dei collaboratori e li classifica tra veri autonomi e finti autonomi. Tra i secondi, gerarchicamente, si ordinano coloro che hanno più vincoli di subordinazione rispetto a una batteria di sei quesiti sulla natura del lavoro: la monocommittenza, l’uso di mezzi del datore di lavoro, l’imposizione di un orario di lavoro, l’aver avuto più di un rinnovo, la presenza sul posto di lavoro e, infine, la volontarietà della forma contrattuale. (7) L’indagine Plus, attraverso questi parametri, identifica vari livelli di subordinazione per i finti autonomi, in un range compreso tra 0 e 6. Inoltre attraverso una serie di comparazioni tra questi raggruppamenti e alcune variabili di controllo, principalmente il reddito da lavoro (8), si identificano come para-subordinati coloro che sono esposti in media a più di tre vincoli di subordinazione.
I motivi della discrepanza tra il dato amministrativo e quelli campionari si spiegano essenzialmente attraverso il differente riferimento temporale. L’Inps conta quante persone hanno contribuito, nel corso di un anno, alla Gestione separata. È implicito in questo meccanismo di tipo “contatore” che in ogni momento (ad esempio, a giugno) soltanto alcuni di quegli 800mila contribuenti ha in effetti un contratto in essere, mentre per gli altri il contratto è già terminato (magari a maggio) o deve ancora iniziare (a settembre). In altri termini, se osservate contemporaneamente in un dato momento, le 800mila persone possono trovarsi in situazioni tra loro molto differenti, che comprendono l’essere attualmente precari, il non esserlo ancora e il non esserlo più, ad esempio perché al termine della collaborazione si è ottenuto un contratto a tempo indeterminato, o si è avviata un’attività autonoma, o ci si è ritirati dal lavoro perché non più interessati a lavorare. Ne consegue che la fonte Inps fornisce una sovrastima dell’area del precariato. La Rfl e Plus fotografano invece la condizione occupazionale in un dato istante temporale e ci dicono quante persone in quel momento sono impiegate con contratti di collaborazione. (9) Per questa ragione, a nostro avviso, nell’individuare l’area della precarietà, forniscono una stima più precisa.
Come per i dipendenti a termine, la Rfl consente di individuare i lavoratori precari non più occupati ai quali è scaduto un contratto di collaborazione e che sono in cerca di lavoro o sarebbero immediatamente disponibili a lavorare. La stima è pari a 67mila individui nel terzo trimestre 2006.
Un terzo elemento di precarietà è costituito dalle prestazioni d’opera occasionale. L’aggregato è complessivamente stimato da Plus in circa 200mila unità, sebbene il numero di coloro che presentino più di tre caratteri di subordinazione sia pari a 60mila unità. La Rfl ne stima un numero non molto distante, pari nel terzo trimestre 2006 a 82mila unità.
La Rfl inoltre stima in 54mila le persone non più occupate che, dopo aver concluso un lavoro occasionale, sono alla ricerca di una nuova occupazione o sarebbero immediatamente disponibili a lavorare.

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Le partite Iva

Una componente dell’area della precarietà di cui molto si parla e di cui poco si sa è costituita dal cosiddetto “popolo delle partite Iva”, composto da quelle persone “costrette” ad aprire la partita Iva pur lavorando in condizioni di subordinazione. Nella quantificazione di questo aggregato Plus si rivela una fonte preziosa in quanto sopperisce alla carenza informativa delle altre fonti. Somministrando ai lavoratori autonomi titolari di partite Iva quesiti relativi a vari “indizi” di subordinazione, in maniera analoga a quanto fatto per i collaboratori, si ottiene una stima di 365mila persone che presentano più di tre fattori di subordinazione.
La Rfl, invece, fornisce qualche indicazione, per quanto approssimativa, relativamente a chi ha concluso un rapporto di lavoro parasubordinato con partita Iva. Tra gli ex-professionisti e i lavoratori in proprio, coloro che hanno smesso di lavorare perché è finito un contratto temporaneo ma sono alla ricerca di un nuovo lavoro o sarebbero immediatamente disponibili a lavorare sono 38mila.
Complessivamente l’area della precarietà così individuata coinvolge 3.757.000 individui (tavola 1), tra i quali uno su quattro non è occupato. L’incidenza di tale area sulla platea potenziale di riferimento, costituita da tutti gli occupati e dai non occupati con precedenti esperienze lavorative che mantengono un certo attachment con il mercato del lavoro (complessivamente, secondo la Rfl, 25.613.000 unità) si attesta al 14,7 per cento. L’incidenza dell’occupazione precaria sul totale (23.001.000 unità) è pari al 12,2 per cento, mentre tra coloro che non hanno più un lavoro, ma sono in cerca di una nuova occupazione o sarebbero immediatamente disponibili a lavorare (2.612.000 unità) i precari sono il 36,3 per cento.

 

Tavola 1 – L’area della precarietà e le sue dimensioni.

Forma contrattuale

Status occupazionale

N. di lavoratori

Valori assoluti

Incidenza

%

Dipendenti a termine involontari

(tutte le tipologie contrattuali)

occupati

1.979.000

non più occupati

789.000

Collaboratori coordinati e continuativi e/o a progetto

occupati

394.000§

non più occupati

67.000

Collaboratori occasionali

occupati

71.000§

non più occupati

54.000

Autonomi con partite IVA

occupati

365.000

non più occupati

38.000

Totale lavoratori precari

occupati

2.809.000

12,2♠

non più occupati

948.000

36,3♥

Totale

3.757.000

14,7¨

Fonte: Elaborazioni degli autori su dati ISTAT-RFL e ISFOL-PLUS

Note: (§) valore medio tra RFL e PLUS; (♠) sull’occupazione complessiva; (♥) sulle persone non più occupate ma in cerca di un nuovo lavoro o immediatamente disponibili a lavorare; (¨) sulla platea di riferimento complessiva

 

* L’articolo e le opinioni in esso contenute sono presentate dagli autori a titolo personale e non sono pertanto necessariamente attribuibili ai rispettivi enti di appartenenza, Isfol e Istat.

 

(1) Informazioni relative alle due indagini sono contenute in La rilevazione sulle forze di lavoro: contenuti, metodologie, organizzazione, Istat, Metodi e Norme n. 32, 2006.
E in Plus, Participation Labour Unemployment Survey, Rubettino Editore, 2006, a cura di E. Mandrone e D. Radicchia disponibile anche on line all’indirizzo.
(2) Nel lavoro temporaneo dipendente sono inclusi: i dipendenti a tempo determinato, i Cfl (contratti formazione-lavoro), gli apprendisti (vecchia e nuova forma), i lavoratori interinali, i Cil (contratti inserimento lavorativo) e le più recenti forme contrattuali introdotte dalla Legge 30 (lavoro ripartito, lavoro a chiamata) oltre agli stage, tirocini e pratiche professionali retribuite.
(3) I motivi per cui si è disposti ad accettare volontariamente un lavoro a tempo determinato possono rispecchiare le situazioni più disparate: dagli studenti che lavorano per mantenersi gli studi ai dirigenti d’azienda, dalle casalinghe che lavorano saltuariamente ai pensionati che arrotondano la pensione.
(4) Vedi P. Di Nicola, I. Mingo (a cura di), I lavoratori attivi iscritti alla Gestione separata Inps. Consistenza e caratteristiche. Anno 2005, in Nidil Cgil, 1° Rapporto Osservatorio permanente sul lavoro atipico in Italia, anno 2006, Nuove Identità di lavoro-Cgil, gennaio 2007, pp 11-32 e pp. 57-63.
(5) La rilevazione Plus dalla quale sono desunte le stime qui riportate è stata condotta tra febbraio e aprile 2005.
(6) Vedi M. Albisinni , F. Pintaldi (a cura di), Collaborazioni coordinate e continuative nella rilevazione sulle forze di lavoro. I, II, III e IV trimestre 2004, Istat, Statistiche in breve, marzo 2005.
(7) I primi cinque quesiti sono stati definiti in base all’analisi delle sentenze di trasformazione di contratti di lavoro autonomo in lavoro dipendente desunti dai verbali del giudice del lavoro del tribunale di Torino, uno dei più informatizzati del paese; l’ultimo quesito invece è stato inserito come controllo sulla volontarietà o meno della forma contrattuale.
(8) Limitatamente al dato di fonte Isfol Plus abbiamo verificato che il reddito netto annuo per un lavoratore temporaneo è nettamente inferiore al guadagno di un lavoratore permanente. I dipendenti a termine hanno percepito in media 12.438€ e i collaboratori parasubordinati hanno avuto 10.191€; mentre il dipendente permanente ha avuto 15.342€ e l’autonomo 23.277€, confermando l’ipotesi di redditi (sia rispetto alla media che alla mediana) inferiori per i lavoratori temporanei.
(9) Le informazioni individuali raccolte dalla Rfl sono riferite a una specifica settimana, detta “di riferimento”. Il dato trimestrale è ottenuto come media dei risultati delle settimane che lo compongono e non, secondo il meccanismo di tipo contatore che caratterizza il database Inps, come sommatoria delle persone che nel corso di un trimestre lavorano come collaboratori, anche per pochi giorni.

Il commento agli autori di Riccardo Gatto*

La domanda a cui cercano di rispondere gli autori è: quanti sono i precari?
Fino a oggi mancava una risposta convincente a questo problema perchè chi  lo ha affrontato si trovava impantanato nelle sabbie mobili metodologico-definitorie da dove è impossibile uscire. La triplice natura, economica giuridica sociale, del problema, e i rapidi cambiamenti nel tempo su tutti e tre i fronti, rappresentano un ostacolo probabilmente insormontabile a una soluzione formale.
L’ottica degli autori è invece pragmatica, non si cura degli aspetti formali e punta al problema principale dando, a mio avviso, una risposta convincente.
L’approccio definitorio si affida all’intuizione, mischia le tre nature del problema e offre una definizione implicita ma sufficentemente condivisibile.

L’approccio metodologico lo definirei disinvolto: di nuovo si mescola qualcosa, questa volta dati di origini diverse: due indagini, la Plus dell’Isfol e la Rfl dell’Istat, molto diverse anche se sin dall’inizio i ricercatori Isfol hanno investito molto per rendere la Plus comparabile con la Rfl. Probabilmente il più importante elemento di diversità è il riferimento temporale, e su questo invito gli autori a fare una futura riflessione.

Il principale elemento di novità è l’introduzione del Dark Side of the Moon (DSM), coloro
che erano precari e al momento della rilevazione risultano in cerca di lavoro. Questo aggregato cerca di tener conto della natura propriamente precaria del lavoro precario, per la quale esso può non essere continuativo nel tempo e prevede periodi di  interruzione. Non sono d’accordo con la considerazione che per i DSM  il rapporto col mercato del lavoro è esattamente lo stesso di quello dei precari  “attualmente occupati”, sarebbe lo stesso se tutti i precari vivessero periodi di ricerca di lavoro e se questi periodi fossero più o meno lunghi ugualmente.
Esistono molti lavoratori precari che non passano alcun periodo di disoccupazione o per i quali la durata del periodo è fissata in anticipo (necessarie vacanze contrattuali conseguenza di norme di legge che richiedono che un lavoro temporaneo non sia di fatto a tempo indeterminato).
Proprio perchè il precariato vede diversi gradi di instabilità può diventare interessante un indicatore medio che dica quanto il precariato sia instabile.

Un indicatore di questo tipo è suggerito implicitamente dagli autori: il numero di DSM sul totale dei precari da loro individuato è un numero sempre compreso tra 0 e 1 e dice per un dato istante, quanti precari sono nella fase di non occupazione.
Se valesse totalmente il modello di precariato come trampolino verso il lavoro fisso i periodi di disoccupazione sarebbero brevi e pochi per ogni individuo e questo indice risulterebbe basso, se al contrario valesse esclusivamente il modello per cui il precarato è una trappola e chi ci cade difficilmente riesce a entrare nel mercato del lavoro stabile si osserverebbero molti periodi di disoccupazione per ogni individuo, non necessariamente brevi, e si avrebbe un indice di instabilità del precariato alto.
Inoltre se il lavoro precario fosse utilizzato dalle imprese solo per compensare le oscillazioni cicliche l’indice di instabilità mostrerebbe una dinamica anticiclica, se, al contrario, le imprese utilizzassero il lavoro temporaneo solo perchè meno costoso e non per i vantaggi derivanti dalla flessibilità, la dinamica dell’indice sarebbe meno influenzata dal ciclo.
Ricaviamo dai dati dell’articolo che questo indice, per il 2006, era pari al 25,2%, più di un quarto, a occhio sembra alto ma servirebbero confronti geografici e/o nel tempo per far verificare le considerazioni esposte.

Intanto suggerisco un altro indice: per i collaboratori coordinati e continuativi  e/o a progetto si dice che l’INPS stima il numero in, circa, 800mila, e questi sarebbero quanti, durante un anno di osservazioni, sono transitati nella condizione Co.co.ecc.
Gli autori dicono che se osservassimo un dato istante temporale avremmo un numero di Co.co.ecc pari a 394mila (non considero i DSM in questo caso per non allargare all’indietro l’orizzonte temporale che serve sia istantaneo). Mischiamo ancora un’altra fonte di dati per l’indicatore di occupabilità dei CO.co.ecc.: dato istantaneo su dato annuale, interpretabile in questo modo: di quanti sono stati interessati da collaborazioni durante un anno, quanti in media lavorano in un certo istante temporale?
Se le collaborazioni fossero tutte di durata superiore all’anno questo indice sarebbe vicino all’1, più le durate si accorciano e i periodi di non occupazione si allungano, più questo indice si avvicina allo 0. Indicatori che confrontano dati istantanei e dati su periodi di riferimento più lunghi sono già stati introdotti in letteratura.
Dai dati presentati dagli autori questo indice, per il 2006, era pari al 49,3. A metà strada tra lo 0 e l’1. Anche in questo caso avere a disposizione serie storiche e confronti geografici potrebbe dire molto sulla natura del precariato in Italia.

Ringrazio gli autori per il loro interessantissimo lavoro.

(1) Gatto, Gennari, 2004, “Una analisi del mercato del lavoro italiano basata su indicatori periodali”, Atti del XIX Convegno Nazionale di Economia del Lavoro, AIEL.

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11 commenti

  1. Barbara Appierto

    La confusione non è solo nei numeri, nella loro lettura e interpretazione tra fonti diverse, ma è presente soprattutto nella gestione di queste categorie di lavoratori.
    Le amministrazioni sono incapaci di inserirsi in questo contesto dove il 12% dei lavoratori è precario, non sono in grado di aggiornare le loro politiche ad un mercato del lavoro che non è più lo stesso. Può capitere (come è capitato a me) che per un ufficio al quale si richiede una prestazione, il periodo per maternità, non essendo lavoratrice indeterminato, venga considerato come disoccupazione, ma per l’ufficio disoccupazione no!! forse oltre a interrogarsi su quanti siamo (importantissimo) dovrebbero interrogarsi su come stiamo, come interagiamo in un mercato che è cambiato ma che lo conosce solo chi lo vive, come le amministrazioni locali riescono a “produrre” politiche in grado di interpretarlo.

    • La redazione

      Grazie per il commento, la invitiamo a leggere la pubblicazione PLUS, che trova anche on-line (veda la nota1 del testo) in cui i temi di cui parla sono trattati diffusamente.

  2. Davide

    Ottimo introdurre questi dati nel circolo dell’informazione generale. Troppo spesso il semplice dato del tasso di disoccupazione non coglie la più complessa realtà delle cose. Se non sbaglio uno dei promotori nella ricerca di questi dati fu Amartya Sen che sottolineava gli aspetti sociopsicologici del precariato.
    Un obiettivo ipotetico dovrebbe essere quello di valutare le varie politiche del lavoro con una logica marginalista, analizzando il tasso marginale dei precariati e quello dei tutelati nell’introdurre una certa legislazione. Perchè è chiaro che se il lavoro flessibile “spalma” lo stesso lavoro su più soggetti o, peggio ancora, riduce la tutela a fronte della stessa produttività, non si è raggiunto un obiettivo felice.

  3. Claudio Resentini

    Non andrebbe computato nel novero del lavoro “precario” anche il lavoro a tempo indeterminato “senza contratto”? Da una lettura del questionario che ho trovato sul sito dell’ISTAT risulta che dalla rilevazione dovrebbe essere estrapolabile il dato su chi lavora senza una scadenza precisa ma sulla base di un “accordo verbale” e non di un “contratto scritto” o qualcosa di simile. Di fatto “lavoro nero” che non fornisce nessuna garanzia reale e tangibile di continuità al lavoratore. Se non è precarietà questa… O mi sbaglio? E non è una domanda retorica: mi piacerebbe davvero che qualcuno mi spiegasse questa faccenda e mi sapesse anche dire perchè di questi dati non si parla mai?
    I dati sul lavoro standard (dipendente, full time, a tempo indetrerminato) della rilevazione 2006 sono già sconfortanti così (+0,7%): se da questi dovessimo anche togliere una maggiore quantità di lavoro nero…

  4. paolo barbieri

    Complimenti per il pezzo e per la ricerca Isfol.
    In effetti il tema trattato è interessante quanto controverso, quindi ben vengano lavori empirici seri come il vs.
    Resto però perplesso per la scelta che avete fatto, in cui, sostanzialmente, aggregate dati di stock e di flusso, perchè, ovviamente, ciò porta ad una sovrastima del fenomeno.
    Questo, infatti è uno dei punti ‘ambigui’ del Vs approccio. Dichiarate di dare una stima degli occupati precari (“La stima del numero dei lavoratori precari”) mentre in realtà approssimate una valutazione dell’area della ‘potenziale precarietà occupazionale’ (in effetti non è nemmeno la popolazione a rischio di occupazione precaria), che confonde un po’.
    Credo che la precarietà lavorativa andrebbe analizzata con dati longitudinali “puri”, i soli in grado di dar conto, analiticamente, dei micro-meccanismi che conducono dentro e fuori la precarietà – fra quanti lavorano.

    • La redazione

      Grazie per il commento, siamo d’accordo che un’analisi longitudinale potrebbe contribuire notevolmente a capire meglio la precarietà, specialmente per quanto riguarda
      i percorsi lavorativi (Quanto durano i contratti? Quante volte si cambia lavoro? Quante volte si rimane senza lavoro a alla fine di un contratto?, Quanto tempo passa tra il primo lavoro temporaneo e il primo lavoro stabile?, ecc.).
      D’altro canto, per sapere quanti sono i precari in un certo momento lo strumento più adatto è un’indagine trasversale, che sostanzialmente scatta una fotografia istantanea. Questa è la natura sia della RFL sia di Plus. Dati che abbiamo usato, che sono ricavati da due indagini trasversali, sono pertanto esclusivamente dati di stock. Del resto, è proprio perché siamo d’accordo con lei sull’inopportunità di mischiare dati di natura diversa che consideriamo le stime sulle collaborazioni coordinate e continuative o a progetto che provengono dalle indagini campionarie piuttosto che quelle degli archivi Inps.
      Tenga presente che PLUS ha un disegno longitudinale molto ampio, pari al 60% del campione e quindi presto darà maggiori opportunità di analisi dirette.

  5. gidelfo

    Alle tante tipologie di precari menzionate nell’articolo è importante aggiungere la grande massa di lavoratori impegnati nei servizi esternalizzati attraveerso le cooperative di produzione e lavoro: anche in quest’ambito sono molte le tipologie contrattuali, molti lavoratori sono soci-lavoratori a tempo indeterminato con “collocamento a zero ore” ( cioè durante i periodi in cui l’ente appaltante non richiede il sevizio non si lavora e non si è pagati!!), soluzione flessibile che rende ancor più precaria la condizione di lavoratori che già percepiscono retribuzioni molto basse. Come giustificare le spese sostenute dalla P.A per esternalizzare dei servizi, su cui invece potrebbe avere meggiore possibilità di controllo e maggior qualità del servizio oltre che lavoratori più garantiti e soddisfatti?
    Grazie

    • La redazione

      Grazie per il commento, la molteplicità delle forme contrattuali esistenti insieme agli abusi e alle libere interpretazioni generano una casistica sterminata. I casi limite di cui parsa sicuramente rientrano nel concetto sociale di precarietà, più difficile riuscire a contarli correttamente con rilevazioni campionarie. L’intento provocatorio della seconda parte del nostro lavoro, quella relativa alla identificazione dei precari non occupati mira alla sensibilizzazione verso la questione sociale che la precarietà genera nel nostro paese, in particolare tra i giovani e oltre i dati positivi desunti da indicatori del lavoro forse non così capaci di evocare e misurare la salute del mercato del lavoro odierno rispetto al passato.
      Ricordiamo che la forma scritta non è obbligatoria per i contratti a tempo indeterminato e pertanto non è un indicatore sicuro di lavoro irregolare o precario.

  6. angela padrone

    Ottimo il lavoro, ma ottimo anche l’intervento che si interroga sul lavoro nero. Perché se ne parla poco? Forse perché è una vecchia battaglia persa, che non fa comodo a nessuno tirare fuori. Comunque, secondo l’Istat, il lavoro nero in Italia riguarda oltre 3 milioni e 600 mila persone. Tanti, ma poco “moderni”. Attenzione, quindi, quasi zero.
    Si discute moltissimo invece dei flessibili. La flessibilità, andrebbe detto, a volte è positiva perché dà delle opportunità ai più deboli, a volte certo anche negativa, come è sempre stata. E’ servita comunque a rimettere un po’ in moto un mercato molto rigido. E non è certo nata da una o due leggi, che mi sembra si siano limitate a prenderne atto e a cercare di regolarla. Purtroppo il dibattito è spesso segnato dall’ideologia e dal luogo comune, e questo non fa bene ai giovani e ai lavoratori. Quello che è certo è che tra lavoro nero, lavoro flessibile cattivo, e tanti cattivi lavori a tempo indeterminato, il mercato del lavoro avrebbe bisogno di una bella iniezione di novità e di fiducia. Basti pensare ai (pochi) laureati, pure così poco richiesti dalle aziende.
    Comunque a voi faccio i complimenti. Anch’io mi occupo di questi temi e mi rendo sempre più conto che è dura. Ma bisogna provarci.

  7. antonio p

    Sono stati i milioni di artigiani che hanno fatto grande e ricca l’italia. Il sindacato ha "coniato" il precario per organizzare i "non lavoratori o fannulloni". Avanti così diventeremo tutti poveri, non solo di soldi ma anche d’idee.

  8. Gigio

    Gli ex precari ISFOL che hanno condotto la ricerca sono disoccupati ora? E senza ammortizzatori vero? Ecco la precarieta’! Altro che dibattiti.

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