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Rappresentanti e territori, un legame spezzato

Pluricandidature e posizione in lista possono garantire l’elezione di un candidato. A beneficiarne sono spesso i capi dei partiti e poche altre persone decise dai vertici. Si rompe così il legame tra le realtà locali e chi dovrebbe rappresentarle.

La geografia delle liste

Nella scelta della forza politica da votare nelle elezioni per il rinnovo del Parlamento, gli elettori dovrebbero partire dalla comparazione dei diversi programmi. Non meno importanti sono le liste: alle persone che le compongono è affidata l’illustrazione nella campagna elettorale e poi la loro attuazione, se elette. Meriterebbero, perciò, un esame dettagliato, che però è complesso da svolgere. Qui di seguito si riporta qualche considerazione su alcuni aspetti che emergono dalla valutazione delle liste pubblicate dal Ministero dell’Interno.

Le liste ammesse al voto sono ventitré. Oltre agli otto partiti delle due alleanze, di centrodestra e centrosinistra, sono presenti su tutto il territorio nazionale Italexit per l’Italia, Italia sovrana e popolare, Movimento 5 stelle, Azione-Italia viva e unione popolare con de Magistris. Delle restanti liste, alcune, non espressione di minoranze linguistiche, hanno presentato un numero esiguo di candidati, in pochissimi collegi. Altre non sono riuscite a coprire tutti i collegi plurinominali neanche con il numero minimo dei due candidati (al massimo possono essere quattro) richiesti dalla legge: è il caso di Viva, Mastella con noi europei, Alternativa per l’Italia-No green pass.

La diffusione delle liste non garantisce, ovviamente, di raccogliere a livello nazionale almeno il 3 per cento dei voti, per superare la soglia che consente l’elezione di qualche parlamentare (tant’è che tra le quattro liste “nazionali” citate sopra, solo a Italexit i sondaggi accreditano il superamento dello sbarramento). Ma una presenza sul territorio a macchia di leopardo, con tante zone scoperte, rende certo più arduo raggiungere l’obiettivo della soglia nazionale. L’ambizione di queste liste potrebbe essere, però, il superamento dello sbarramento solo per l’elezione del Senato, dove al riparto dei seggi sono ammesse le liste che, pur non avendo raccolto il 3 per cento a livello nazionale, ottengono almeno il 20 per cento dei voti nella regione. Forse, è il motivo per cui alcune liste sono presenti solo in un numero ristretto di regioni, verosimilmente quelle in cui ritengono di avere una più capillare rete di relazioni e una maggiore forza organizzativa, anche se non è agevole convogliare un quinto dei voti su una sola lista.

Le candidature multiple

La formazione delle liste è sempre un’operazione delicata (per esempio, anche per rispettare l’equilibrio di genere previsto dalla legge) e fonte di tensioni nei partiti. A leggere le cronache politiche, così è stato anche questa volta. La riduzione del numero di rappresentanti della Camera e del Senato a 400 e 200, oltre un terzo in meno degli attuali, ha aiutato alcune forze politiche, a corto di “personale”, e ha reso più difficile la quadratura del cerchio per il segretario di qualche partito pressato tra le richieste di candidature dei parlamentari uscenti e quelle dei dirigenti nazionali e locali che nell’inserimento in lista vedono uno sbocco per il loro impegno.

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Quest’ultimo potrebbe essere il caso del Partito democratico, che per governare le tensioni ha fatto un ricorso moderato, per entrambi i rami del Parlamento, alle candidature multiple sia nei collegi plurinominali sia tra questi ultimi e i collegi uninominali. Il fenomeno è stato contenuto tanto nel numero di soggetti che hanno beneficiato di più di una candidatura quanto nel numero di candidature. Nei collegi plurinominali di Camera e Senato, i pluricandidati sono 14, ognuno con due sole candidature; considerando anche le candidature congiunte nel proporzionale e nell’uninominale diventano 37, ma una sola persona è candidata in tre collegi, due pluri e uno uninominale. Il contributo del Pd al fenomeno delle pluricandidature – nel complesso relativamente diffuso – è limitato. Per darne la dimensione, si consideri che nei collegi plurinominali della Camera le candidature sono circa 2.800, ma i candidati sono poco più di 2.250. Circa 290 di loro occupano 890 posizioni, cioè sono pluricandidati; inoltre 490 candidati nei collegi plurinominali lo sono anche in un collegio uninominale e di essi 370 hanno una sola candidatura nel plurinominale. In definitiva, nelle liste plurinominali per la Camera, tre concorrenti su dieci hanno almeno due candidature; per il Senato il rapporto è lo stesso (Tabella 1).

Le pluricandidature sono lo strumento cui ricorrono i gruppi dirigenti dei partiti per aumentare le probabilità di permanere o entrare in parlamento. Si tratta di una scelta ricorrente nelle elezioni politiche, fatta anche nell’ultima tornata elettorale (2018). Per la prima volta, vi ha fatto ricorso anche il Movimento 5 stelle, che ha assegnato più candidature ad alcune sue personalità di vertice, venendo meno ai principi dell’uno vale uno e della territorialità dei suoi rappresentanti nelle istituzioni.

In alcuni casi, però, le pluricandidature possono essere una necessità di gruppi politici di nuova formazione, o con insufficiente radicamento sul territorio, per coprire il maggior numero possibile di collegi. Le pluricandidature possono dunque avere contribuito alla partecipazione alla competizione elettorale su tutto il territorio nazionale di Impegno civico, +Europa e Italia sovrana e popolare, il cui rapporto candidature/candidati è rispettivamente 2,52, 1,56 e 1,32 contro una media di 1,14 per l’insieme degli altri partiti.

I privilegiati

Le candidature multiple non sono, dunque, tutte uguali per obiettivo perseguito. Vi sono differenze rilevanti anche tra i pluricandidati per numero di caselle occupate e per la loro posizione nelle liste. La maggioranza è candidata in almeno due collegi della quota proporzionale del Senato o della Camera (Figura 1). Considerando la presenza di una stessa persona sia in collegi plurinominali sia in un collegio uninominale, una ventina di candidati innalza da cinque a sei il numero di caselle occupate; cinque sono il massimo di collegi plurinominali in cui la stessa persona può essere candidata. Il numero di candidature è una delle variabili che incidono sulla probabilità di elezione: più è alto, più quest’ultima diventa plausibile. Il Rosatellum consente di scegliere solo la lista per cui votare, ma non di esprimere preferenze per i candidati: l’elezione avviene in base alla posizione occupata da ciascun candidato. Essere al primo o al secondo posto della lista è fondamentale. Tendenzialmente, con il numero delle candidature cresce anche la probabilità che tutte occupino il primo e il secondo posto delle singole liste. Nel caso delle candidature multiple nel proporzionale della Camera, chi ha una doppia candidatura occupa il primo posto delle due liste nel 20 per cento dei casi; la percentuale cresce al 32 per cento per chi è candidato in cinque collegi.

A beneficiare dell’incrocio favorevole di pluricandidature e di posizioni alte nelle liste sono in primo luogo i capi dei partiti e poche altre persone a loro legate o imposte dagli equilibri tra correnti interne. Confrontando le liste attuali con quelle per le elezioni del 2018, si scopre una ricorrenza di nomi che godono di questo privilegio.

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Difficile stabilire l’effetto delle pluricandidature sui risultati elettorali dei partiti. Di sicuro, comportano un’invasione territoriale. Nel proporzionale della Camera, circa la metà delle candidature plurime riguarda collegi di una stessa regione. Ma con il numero di collegi assegnati alla stessa persona cresce anche il numero delle regioni di atterraggio delle candidature. In questi casi è più facile che succeda, le cronache già lo riportano, che ci siano candidati non in grado di indicare i collegi loro assegnati o che parlano ai cittadini di un paese pensando di parlare con quelli di un altro. Sono i rischi delle pluricandidature, che rompono il legame, già labile, tra le realtà locali e chi dovrebbe rappresentarle e curarsene in Parlamento.

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  1. Savino

    Il probabile caos per la formazione del prossimo Governo sarà solo per responsabilità dei partiti. Il Rosatellum è fino ad un certo punto maggioritario e fino ad un certo punto proporzionale. Si sceglie la lista chiusa e si sceglie l’identità politica, tant’è che questa campagna elettorale ha avuto il tono identitario anche all’interno degli schieramenti, peraltro ancora retaggio del Mattarellum, che probabilmente andava reintrodotto e che degenerò a partire dal porcellum. Ma, dopo il voto, l’obiettivo finale dei partiti sembra essere comunque il Governo di unità nazionale o di mega-coalizione. Bisogna solo individuare, secondo il ragionamento delle forze politiche, la formula di tale Esecutivo ampio. La soluzione di questa legge elettorale è, per il livello decisionale, pilatesca e gattopardesca, in un contesto in cui prevalgono l’astensionismo, la scarsissima rappresentatività di territori, ceti sociali e gruppi anagrafici e soprattutto emerge la mancanza di selezione di una classe dirigente all’altezza, prevalendo una partitocrazia di tipo patriarcale ed oligarchico. E’ il sistema dei partiti ad essere in crisi e bisognerebbe prenderne atto con tanti passi indietro.

  2. Giuliano cazzola

    Molto interessante. Da Lungarella c’è sempre da imparare

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