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Rosa-tellum di nome, ma non di fatto

Dal 2018, le quote di genere si applicano anche alle liste per l’elezione di Camera e Senato. L’equilibrio di genere in Parlamento è molto migliorato negli ultimi 25 anni. Ma il vizio di cercare scappatoie rimane. A destra e al centro un po’ più che a sinistra.

Rosa-tellum di nome

Una delle caratteristiche dell’attuale legge elettorale, la legge 165 del 2017 (cosiddetto “Rosatellum”, dal nome del suo proponente, Ettore Rosato), è la presenza di quote di genere. La norma prevede che nelle liste dei collegi plurinominali i candidati debbano essere collocati secondo un ordine alternato di genere. Alla Camera, inoltre, nel complesso delle candidature presentate dalle liste e coalizioni di liste nei collegi uninominali e dalle liste nei collegi plurinominali, nessuno dei due generi può essere rappresentato, a livello nazionale, in misura superiore al 60 per cento. Al Senato tali norme valgono a livello regionale.

La legge elettorale è stata applicata per la prima volta nel 2018, per le elezioni politiche che hanno aperto la XVIII legislatura, e si applicherà di nuovo per le elezioni del 25 settembre 2022 (XIX legislatura). Al 15 luglio 2022, la Camera dei deputati era composta al 37 per cento da donne, mentre la componente femminile al Senato (al 3 settembre 2022 ) era del 35 per cento. Sono dati leggermente migliori di quelli osservati subito dopo le elezioni: il 4 marzo 2018, infatti, alla Camera entrarono 210 donne su un totale di 630 deputati (33 per cento) mentre al Senato ne entrarono 107 su 315 (34 per cento).

Prima del 2017, le quote di genere per le elezioni politiche non erano mai state inserite nell’ordinamento italiano, ma alcuni partiti le avevano utilizzate per la composizione delle proprie liste. In effetti, come si può vedere dal grafico, l’equilibrio di genere nelle due camere è migliorato negli ultimi 25 anni, pur in assenza di obblighi legislativi fino al 2018. Ma, nonostante la presenza femminile in Parlamento sia cresciuta tra la XVII e la XVIII legislatura, l’effetto delle quote è stato probabilmente inferiore alle previsioni. Come mai? Perché chi compone le liste trova spesso il modo di aggirare lo spirito della legge elettorale, pur rispettandone formalmente i contenuti. Poco prima delle elezioni politiche del 2018, su questo sito era già stata denunciata una pratica elusiva dell’obbligo delle quote di genere utilizzata da alcuni partiti. Ritorniamo quindi sull’argomento, con dati più completi, per capire se qualcosa è cambiato.

Le candidature multiple

Una possibilità per aggirare la norma sulle quote è quella di ricorrere alle candidature multiple, o pluricandidature, utilizzando gli stessi nomi femminili in tanti collegi così da lasciare il posto, in caso di elezione in collegi diversi, ai successivi della lista (per legge, uomini). Per la precisione, uno stesso candidato può essere presente contemporaneamente in cinque collegi plurinominali (parte proporzionale), più un collegio uninominale (parte maggioritaria). Non ci è possibile calcolare in quali collegi plurinominali si ha maggiore o minore possibilità di essere eletti, né quanti seggi si prevede vengano assegnati a un dato partito. Tuttavia, ci sembra comunque illustrativo segnalare quante pluricandidature, sia femminili sia maschili, sono state utilizzate dai principali partiti in lizza. Un’informazione aggiuntiva, ma di cui non teniamo conto in questo articolo, è la posizione in lista dei pluricandidati: messi all’inizio, la probabilità che lascino il posto al candidato (o candidata) successivo è superiore. Ma riteniamo che il messaggio contenuto nelle tabelle sia già di per sé molto eloquente.

Dopo i nomi dei partiti, nelle prime due colonne riportiamo quello che chiamiamo “indice di molteplicità”, calcolato come il rapporto tra la somma delle volte che un nome si ripete in lista e il numero di posizioni assegnate al genere in quella lista. Per lista si intende qui l’elenco completo di tutti i nomi dei candidati nelle diverse circoscrizioni (come se ci fosse un’unica circoscrizione nazionale). Poiché un nome non può ovviamente ripetersi nella stessa circoscrizione e poiché la legge prevede che, quando si ripete, possa farlo al massimo cinque volte, il valore massimo dell’indice sarà sempre inferiore a 1. L’indice è calcolato per genere: quando è più è elevato significa che per quel genere il partito ha fatto largo ricorso alle candidature multiple; ove fosse vicino allo 0 (nessuna ripetizione), al contrario, il ricorso alla pratica sarebbe basso. Se un partito mostrasse un “indice di molteplicità” per gli uomini inferiore a quello calcolato per le donne, allora il partito, per il meccanismo di sostituzione illustrato all’inizio di questa sezione, avrebbe aggirato il principio della parità di genere a favore degli uomini.

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Nelle successive due colonne, invece, riportiamo quello che definiamo “l’indice di trasferibilità”, che considera la possibilità che un nome presente nella lista per la parte proporzionale (una o più volte) compaia anche nella lista per la parte maggioritaria. L’informazione di questo indice completa quella dell’indice precedente: maggiore il valore dell’indice, maggiore il ricorso alla candidatura in entrambe le parti. In questo caso, un possibile meccanismo di aggiramento consiste nel fatto che il candidato eletto all’uninominale lascerà il suo posto al candidato che lo segue nella lista (o nelle liste) plurinominale in cui è presente. L’indice è calcolato come rapporto tra numero di candidati all’uninominale il cui nome compare almeno una volta anche nelle liste plurinominali e numero di candidati, ovviamente divisi per genere. Per esempio, se tutti i candidati all’uninominale avessero il cosiddetto “paracadute” al proporzionale, l’indice avrebbe valore 1; al contrario, se nessun candidato comparisse anche nelle liste proporzionali, l’indice avrebbe valore 0. Tuttavia, bisogna ammettere che la strategia potrebbe essere duplice: da un lato, si può utilizzare questa tecnica per aggirare l’obbligo delle quote di genere; d’altro canto, assegnare il paracadute proporzionale rende più probabile l’elezione di quel candidato. Ma solo se la sua posizione nella lista plurinominale fosse adeguatamente elevata (informazione che non consideriamo in questo contributo). Quale sia il reale obiettivo del partito, ovviamente, non è dato saperlo. Il fatto che una lista per il maggioritario come quella di Centrodestra sia unica di coalizione non inficia il valore ordinale dell’indice (i candidati degli altri partiti della coalizione vengono semplicemente considerati come “nomi diversi”).

Dalla tabella si evince che alla Camera così come al Senato il Centrodestra ha fatto maggiore ricorso alle candidature multiple femminili rispetto a quelle maschili, in base a entrambi gli indici considerati. Solo Forza Italia, alla Camera, ricorre a candidature multiple maschili per la parte proporzionale in misura simile alle candidature femminili. Più equilibrata appare la lista del Partito democratico (insieme a + Europa), anche se l’indice di molteplicità al Senato e quello di trasferibilità alla Camera, seppur non particolarmente elevati, sono leggermente superiori per le donne rispetto agli uomini. Molto particolare il caso del Movimento 5 Stelle: di fatto, non ricorre alle candidature multiple per la parte proporzionale; tuttavia, offre a poco più della metà dei suoi candidati al maggioritario un paracadute nella quota proporzionale, sia alla Camera sia al Senato. Infine, per entrambe le Camere, il cosiddetto Terzo Polo fa un discreto ricorso alle candidature multiple, in maniera simile per uomini e donne per la parte proporzionale; per la parte maggioritaria, il paracadute è utilizzato in misura maggiore per le donne. 

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I collegi uninominali

Per quanto riguarda i collegi uninominali, invece, la strategia è piuttosto semplice: si può rispettare l’obbligo legislativo, ma candidare gli uomini nei collegi ritenuti sicuri e candidare le donne in quelli ritenuti più difficili. Naturalmente tale modalità si può applicare a qualunque categoria di candidati (uomini e donne, appunto; ma anche giovani e anziani, nuovi ingressi e parlamentari da tempo, e così via). Tuttavia, la differenza di trattamento tra uomini e donne diventa di maggiore interesse proprio grazie alla presenza di un obbligo esplicito di legge che ne preveda un sostanziale equilibrio.

Poco tempo fa, sempre su questo sito, è stato pubblicato un grafico piuttosto informativo sulle candidature alla Camera dei deputati per le imminenti elezioni.

Per le elezioni alla Camera, pur rispettando formalmente le quote (il Centrosinistra ha candidato uomini nel 57 per cento dei collegi uninominali e il Centrodestra nel 60 per cento), la distribuzione delle candidature maschili nei collegi ritenuti sicuri è ben diversa: 68 per cento per il Centrodestra e addirittura 86 per cento per il Centrosinistra. Secondo queste stime, dei 147 seggi assegnati con metodo maggioritario, il 66 per cento sarà occupato da uomini e meno del 30 per cento sarà occupato da donne (restano in bilico 8 seggi).

Ancora molto da fare

Sebbene il legislatore abbia fatto passi in avanti per promuovere la parità di genere nelle istituzioni, al rispetto che possiamo definire “letterale” della legge non corrisponde una pari opportunità di rappresentanza nelle istituzioni politiche. Le donne hanno tuttora minori spazi e ne è evidenza sia il fatto che vengono più spesso utilizzate per la strategia della candidatura multipla sia il fatto che vengono generalmente candidate in collegi più incerti, se non addirittura perdenti. C’è ancora strada da fare.

*Si ringraziano Chiara Ciucci, Alessandro Ferrari, Alessandro Fratini, Ludovica Geraci e Marco Visentin per l’aiuto nella raccolta e nell’elaborazione dei dati; sono state utilizzate delle liste ufficiose e quindi possibilmente contenenti alcuni errori. Siamo pronti a ricalcolare gli indici, a fronte della disponibilità di liste ufficiali (in formato Excel). 

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  1. Savino

    Anche il prossimo Parlamento non è rappresentativo. E il fatto che siano di meno ha solo peggiorato. Nessuno dal proprio territorio, poche donne, pochi giovani, pochi laureati, pochi dal ceto sociale medio-basso.

  2. Alessandro

    Perdonate, ma per correttezza andrebbe anche evidenziato che la normativa sulla parità di genere, in altre elezioni, tende a condizionare le scelte dei partiti esattamente nel verso opposto di quanto descritto nell’articolo.
    Come, ad esempio, di norma in elezioni con preferenze come comunali o regionali, candidati maschili con maggior numero di preferenze devono lasciare il posto nelle giunte per equilibri di genere alle donne con minor numero di preferenze.
    Non si può pensare di porre l’obiettivo di uguaglianza di risultato in tali ambiti ma quello di parità di mezzi ed incentivo alla partecipazione.

  3. Grazie, ancora un ottimo articolo con dati quantitativi e non chiacchiere per sentito dire. Due sole osservazioni. Prima di tutto che proprio i dati dimostrano che se c’è un uso delle multicandidature per eludere il meccanismo delle quote è un uso assai limitato. Tanto più in considerazione del fatto che altri studi analoghi mostrano in generale un ricorso alle multicandidature sia alla Camera sia al Senato molto molto ridotto (dato medio <1.19, mi pare). In secondo luogo gli autori dell'articolo non sembrano tener conto del fatto che si parte da un contesto nel quale già gli uscenti vedono un certo squilibrio (ridottosi nel tempo ma pure sempre in un rapporto 65-35): e indipendentemente da uomo/donna gli uscenti hanno sempre avuto qualche chance in più; inoltre, ancora più importante, praticamente tutti i partiti hanno (oggi, oggi in Italia) meno donne militanti che uomini. In altre parole hanno una platea da cui scegliere candidate più limitata: e anche perciò – al di là di qualsiasi strategia antiquote – devono pluricandidare quel più limitato numero di donne che hanno a disposizione. Infine, il gatto si morde la coda…) ad oggi le leader donna sono meno numerose dei leader uomini: per cui – di nuovo al di là delle questioni di genere – chi fa le liste e le fa le più competitive possibile tende a mettere in maggior luce uomini rispetto a donne (in quanto più in grado, oggettivamente, di ottenere voti).
    In ogni caso aver raggiunto il 37% di componenti donna alla Camera non è un risultato trascurabile, specie a raffronto con quel che accadeva pochi decenni fa. E parla in favore delle candidature bloccate, senza delle quali non credo proprio ci si sarebbe allontanati di molto dal 20-25%.

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