Il sistema maggioritario nelle elezioni politiche non ha centrato i due obiettivi che perseguiva: stabilità dei governi ed efficacia dell’attività del Parlamento. Il problema nasce dalla presenza di partiti in competizione dentro coalizioni di facciata.
Trent’anni di maggioritario
Il prossimo anno saranno trenta anni esatti di tentativi di sistema maggioritario nelle elezioni politiche in Italia. Per un lungo periodo, quasi cinquanta anni, tra il 1946 e il 1993, il nostro sistema elettorale per l’elezione dei rappresentanti parlamentari è stato improntato a un sostanziale modello proporzionale: tot voti, tot seggi. Solo nel 1953, con la legge Scelba, o “legge truffa” secondo l’espressione che fu usata nelle furiose polemiche dell’epoca, ci fu un tentativo di introdurre un forte premio di maggioranza alla coalizione che fosse riuscita a superare il 50 per cento dei voti. Ma quel meccanismo, che premiava la lista vincente col 65 per cento dei seggi, non scattò per un soffio. Il centro democratico (Dc e alleati) arrivò solo al 49,8 per cento e l’anno dopo la legge fu abrogata. Nel 1993, si decise, con la legge Mattarella, di abbandonare il sistema proporzionale a favore di un sistema misto, a turno unico, maggioritario per il 75 per cento dei seggi e proporzionale per il restante 25 per cento, con soglia di sbarramento del 4 per cento. Voleva essere l’inizio di una nuova era, un tentativo di passare dalla prima alla seconda Repubblica, motivato da due principali obiettivi: promuovere la “governabilità” e la stabilità dei governi, rendere più efficace l’attività legislativa del Parlamento. Il “Mattarellum” (come lo chiamò Giovanni Sartori, politologo di fama internazionale, che mise così il copyright su tutti i nickname delle leggi elettorali italiane) durò solo tre legislature, 1994, 1996, 2001. Seguì, nel 2005, il “Porcellum”, in vigore nelle elezioni del 2006, 2008 e 2013, e poi, dal 2017, il “Rosatellum”, utilizzato nelle ultime due tornate elettorali, 2018 e 2022. Dunque, ben tre tentativi di maggioritario, tutti diversi, a parte la caratteristica comune del turno unico. Il Porcellum, in analogia con la vecchia legge Scelba, era un proporzionale con premio di maggioranza per arrivare al 54 per cento dei seggi (ma con diversi profili di incostituzionalità, dichiarati dalla Corte nel 2014). Il Rosatellum, tuttora in vigore, assomiglia invece al Mattarellum, ma con mix invertito, poiché la componente maggioritaria si ferma al 37 per cento, contro il 63 per cento di proporzionale più una debole soglia di sbarramento al 3 per cento. Una prima bozza del Rosatellum, poi sensibilmente annacquata, prevedeva invece un mix 50-50 con soglia di sbarramento al 5 per cento.
Purtroppo, entrambi gli obiettivi delle riforme in senso maggioritario sono stati mancati (tabella 1): dal punto di vista della governabilità, nei 45 anni di proporzionale ci sono stati sei scioglimenti anticipati delle Camere contro tre nel trentennio maggioritario; il numero di legislature è stato rispettivamente di 11 e 7, il che significa circa 1,2 legislature per quinquennio sotto entrambi i sistemi; la durata media dei governi è solo lievemente aumentata, da 1 anno a 1,7 anni, sempre ben al di sotto dei 5 anni ideali; in termini di efficacia legislativa, non si è visto alcun progresso, al punto che le crescenti difficoltà dell’attività parlamentare hanno contribuito a giustificare il passaggio, sia pure surrettizio, dal classico sistema dei tre poteri indipendenti (legislativo, esecutivo, giudiziario) a un sistema meno articolato, in cui l’esecutivo, attraverso lo strumento della decretazione e delle leggi d’iniziativa governativa, si è fuso col potere legislativo, esautorando di fatto il ruolo autonomo del Parlamento. Per dare un’idea, negli ultimi anni, considerando le leggi approvate, quelle di iniziativa governativa sono state assolutamente preponderanti: 74 per cento nella XVII legislatura, 78 per cento nella XVIII, appena conclusa (altri dati si trovano qui https://www.openpolis.it/numeri/durante-i-governi-letta-conte-ii-e-draghi-le-leggi-di-iniziativa-governativa-sono-oltre-l80/ ).
Tabella 1 – Alcuni numeri delle prime 18 legislature
Maggioritario: ma quanto?
Un modo semplice di fare ordine in questo ginepraio di complicatissime norme elettorali è puntare al nocciolo essenziale: quanto si discosta, a posteriori, la distribuzione dei seggi rispetto alla distribuzione dei voti? Per dare un’idea, si confronti la distribuzione voti-seggi del 1992, ultime elezioni col “proporzionellum” (come avrebbe detto Sartori), con la distribuzione voti-seggi del 1994, quando entrò in vigore il Mattarellum. Nel primo caso, il primo partito, col 30 per cento dei voti ottenne il 33 per cento dei seggi (+3 punti); nel secondo caso il primo partito passò dal 21 per cento dei voti al 28 per cento dei seggi (+ 7 punti) mentre la sua coalizione passò dal 43 per cento al 58 per cento (+15 punti). Chiaramente, tutti i sistemi maggioritari hanno premiato le maggiori coalizioni, con premi massimi tra i 5 e i 25 punti (sperimentati entrambi col Porcellum). Tuttavia, il rafforzamento in termini di seggi della coalizione vincente non ha comportato, se non marginalmente, né il rafforzamento dell’esecutivo né quello del legislativo.
Figura 1 – Premio di maggioranza massimo alle coazioni (seggi-voti)
Il sospetto per il fallimento delle riforme elettorali ricade, inevitabilmente, sull’intrinseca eterogeneità delle coalizioni elettorali, formate da partiti autonomi, tra loro diversi e in competizione più o meno nascosta.
Il “numero effettivo di partiti”
Un modo per verificare questa ipotesi è il ricorso a un indicatore sintetico, preso in prestito dalla teoria economica della concorrenza, e noto come indice di Herfindahl-Hirschman (HHI, di solito applicato alle quote di mercato), che misura il grado di concentrazione (tra un minimo di 1/N e un massimo di 1) nella distribuzione tra gli N competitor (qui i partiti o coalizioni). Il suo reciproco, 1/HHI, variabile tra 1 e N, è una misura del “numero effettivo di partiti” (Nep) implicito nella distribuzione dei voti o dei seggi. Più è concentrata tale distribuzione, più basso è tale “numero effettivo” (si veda https://en.wikipedia.org/wiki/Effective_number_of_parties ).
Come mostra la figura 2, negli anni del maggioritario, il numero delle coalizioni effettive ha sempre oscillato tra due e tre, ma il numero effettivo dei partiti è stato massimo nella XIII legislatura, che vide alternarsi ben quattro governi (Prodi, D’Alema 1 e 2, Amato) e minimo nella XVI (governi Berlusconi e Monti). La correlazione tra numero effettivo di partiti e durata media dei governi risulta elevata e negativa (-64 per cento) a indicare un probabile effetto perverso della frammentazione partitica sulla reale capacità di governo della maggioranza. Da questo punto di vista, le forme di maggioritario sperimentate (a turno unico e con basse soglie di sbarramento) hanno tutte mancato di aggredire l’elemento-chiave della governabilità, lasciando che il numero effettivo di partiti salisse, dal 2013 a oggi, senza interruzioni.
Figura 2 – Numero effettivo di partiti o coalizioni e durata dei governi
100 per cento di maggioritario: una simulazione
A riprova di ciò, ci si può chiedere se una legge elettorale tutta maggioritaria avrebbe potuto invertire la tendenza a un ruolo crescente (e autonomo) dei partiti dentro le coalizioni. Cosa sarebbe successo con un Rosatellum tutto maggioritario, in cui i seggi sono ripartiti solo con l’uninominale a turno unico? Con tutti i limiti di un simile esercizio controfattuale, il risultato mostra solo un rallentamento del crescente ruolo dei partiti: il Nep arriva a 3,9 nella XVIII legislatura (contro il dato storico a 4.3) e a 4,3 nella XIX legislatura (invece di 5,5). La simulazione sembra suggerire che, in un sistema multipartitico come quello italiano, la stabilità dell’esecutivo e l’efficienza del legislativo richiedono un’elevata soglia di sbarramento che disincentivi la frammentazione e un ballottaggio al secondo turno che premi la lista, tre le due più votate, complessivamente più convincente.
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B&B
Un paese serio e responsabile dovrebbe avere già abrogato l’art.67 della cost. italiana in contraddizione con l’art.1.
L’assenza di vincolo di mandato per il politico, che dovrebbe essere eletto con un preciso circostanziato e ben illustrato comprensibile programma, offende l’elettore, lo rende impotente, il suo voto inutile.
Infatti la costituzione con l’art.67 non garantisce la sovranità del popolo come esclusiva proprietà di scelta del popolo elettore, ma affida tutto l’arbitrio del potere alla politica o al politico, fuori controllo, che viene addirittura legittimato a fregarsene dell’elettore e ad operare per interessi diversi da quelli nel programma dichiarati e per cui il cittadino lo aveva scelto e votato (non meravigliamoci se i cittadini non votano politici ritenuti genericamente imbroglioni).
L’assenza di vincolo di mandato dovrebbe essere sostituita con una sanzione pesante economicamente, da applicare al politico che non garantisca il rispetto del proprio mandato divenuto sacro e intoccabile fino a nuova elezione.
Savino
Più semplicemente, partito politico, gruppo parlamentare e simbolo elettorale debbono rimanere sempre gli stessi e con la stessa connessione. Oggi manca una istituzionalizzazione di partiti e gruppi.
Savino
La stabilità era un obiettivo, ovviamente non raggiunto, mentre la centralità del Parlamento non era proprio un obiettivo perché dopo i disastri della prima Repubblica c’è da dubitare che porre al centro di fatto i partiti sia la scelta migliore.
Alex
Abbiamo una legge elettorale , il rosatellum, che da tutti è stata riconosciuta non particolarmente funzionale ad assicurare una rappresentanza adeguata.
Abbiamo, al contrario, una legge elettorale che, a detta di molti, ha dato ampia dimostrazione di buon funzionamento, ed è quella utilizzata per eleggere i sindaci.
Perché non si può adattare al livello nazionale? Ah scusate, dimenticavo…probabilmente le cose che funzionano, in Italia, sono sempre troppo complesse per essere applicate!!
Fabrizio
La stabilità dell’esecutivo si può garantire con l’elezione diretta del premier (proposta renziana): abbiamo pensato tutti che Meloni avrebbe scelto ministri più competenti senza i condizionamenti dei suoi alleati . Ma il Parlamento deve essere rappresentativo, perché le leggi le fa il popolo, quindi dovrebbe essere eletto con legge assolutamente proporzionale. Possibilmente come in America elezioni in tempi diversi. Separiamo finalmente potere esecutivo e potere legislativo. Poi naturalmente ci vorrebbe una legge che garantisse la democrazia interna nei partiti. E’ troppo ? A me non sembra difficile.
Fabrizio Fabi
Ho dubbi che l’indice di Herfindahl sia adatto a questi fini; credo sia meglio conteggiare, nelle coalizioni, il “numero di partiti con potere di coalizione”, ovvero quanti sono i partiti essenziali a produrre una maggioranza.
Resta comunque il fatto che se è prevista una quota anche modesta di proporzionale, con sbarramento basso, molti abbiano la tentazione di “contarsi” e quindi mettere su una lista autonoma. Peggio che mai con l’attuale Rosatellum, in cui i voti delle liste sotto la soglia di sbarramento addirittura non vanno persi, ma restano nella coalizione…
L’uninominale secco all’anglosassone mi pare resti la soluzione meno peggio, anche per combattere la sempre più grave disaffezione al voto, foriera di sballottamenti e di potenti partiti improvvisati e demagogici.
Maurizio Cortesi
D’accordo con soglie di sbarramento più alte, magari differenziate tra Camera e Senato, e secondo turno, ma visto che gli italiani non sembrano apprezzarne molto il senso -al ballottaggio per i sindaci mi sembra che l’astensione aumenta sistematicamente- sarebbe meglio rafforzare il peso delle elezioni locali come secondo e anche terzo turno di scelta degli esecutivi. Perché non approfittare della voglia di presidenzialismo, che sia brut o demi-sec, del centro destra per fare una vera riforma costituzionale che riorganizzi in senso più federale, cioè interdipendente e responsabile anche fiscalmente, gli enti territoriali? Accorpare drasticamente i comuni per eliminare definitivamente le province e dimezzare le regioni, consentirebbe di avere tre livelli di governo reale chiarendo cosa deve essere effettivamente rappresentato dalle istituzioni nazionali. E tra l’altro a livello anche di grandi città la possibilità per i cittadini di organizzarsi fuori dai partiti è decisamente più elevata.