Caduto il governo Draghi, cosa ne sarà del Pnrr? Difficilmente riusciremo a rispettare le scadenze di dicembre 2022. Ma il vero problema è la linea politica che il nuovo esecutivo adotterà verso l’Europa, con conseguenze sullo stesso Recovery Fund.
Gli impegni da rispettare
La caduta del governo Draghi e il voto a settembre 2022 hanno aperto una discussione sul “destino” del Piano nazionale di ripresa e resilienza e sui suoi 191,5 miliardi di euro, sul rischio di perderli o meno e su cosa possa rimetterci l’Italia.
Già a maggio, nel parere del Consiglio sul programma di stabilità dell’Italia, la seconda raccomandazione riguardava appunto l’attuazione del Piano, rispettando quanto deciso dal Consiglio il 13 luglio 2021: il raggiungimento di target e milestone semestrali (complessivamente l’Italia ne ha 527 fino al 31 dicembre 2026), condizione necessaria per ottenere le risorse del semestre successivo. Si tratta quindi di un meccanismo basato sui risultati raggiunti e sul mantenimento o meno degli impegni, e non sul colore politico del governo.
Se i governi rispettano il cronoprogramma del proprio Piano non ci sono problemi, se non lo condividono o ne disapprovano le riforme previste o ancora non realizzano gli obiettivi assegnati, si rischia che le risorse non siano erogate. Questa impostazione è prevista dal regolamento europeo (n. 2021/241) che istituisce il Recovery Fund. Vale per l’Italia come per tutti gli altri paesi, non è cioè una “imposizione” dell’Europa, ma il contenuto di quello che noi stessi abbiamo deliberato e concordato.
Con Mario Draghi (dalla presentazione del Pnrr a oggi) gli impegni sono stati rispettati e i soldi europei sono già stati versati all’Italia. Il cambio di governo di per sé non pregiudica nulla, il rischio si corre se il nuovo esecutivo cambia linea su misure, riforme e investimenti già approvati o avviati.
Nello sciogliere le Camere, il Presidente Mattarella ha esplicitamente detto che il Pnrr rientra negli “affari correnti” di cui è investito l’esecutivo fino alle elezioni politiche. I principali dossier – di competenza di Parlamento o governo – che riguardano il Piano sono: il disegno di legge annuale per la concorrenza (in approvazione, ma fortemente divisivo tra i partiti); la delega per il riordino degli Irccs, che attende solo il via libera del Senato; i decreti attuativi in materia di giustizia e diprocesso tributari, da approvare entro dicembre 2022; le modifiche al codice dellaproprietà industriale; la delega al governo per la riforma fiscale, approvata dalla Camera e in commissione Finanze del Senato.
Nel suo ultimo intervento al Senato, Mario Draghi è stato chiaro: “tutto questo richiede un governo davvero forte e coeso e un Parlamento che lo accompagni con convinzione, nel reciproco rispetto dei ruoli”. Ora è indubbio che il nostro paese si troverà fino a ottobre senza governo e senza Parlamento, entrambi determinanti per un’azione amministrava rapida ed efficace. In più, i disegni di legge non approvati decadono con lo sciogliersi delle Camere e con la nuova legislatura si ricomincia tutto da capo. Anche alla luce di queste considerazioni, è difficile immaginare che siano raggiungibili le scadenze previste entro dicembre 2022.
Cosa farà il nuovo governo?
Ma il problema principale si pone col nuovo governo, quando cioè l’Italia dovrà dimostrare di riprendere il ritmo della tabella di marcia precedente. Calendario alla mano, con il voto il 25 settembre e la previsione che il nuovo Parlamento si insedi entro 20 giorni (articolo 61 della Costituzione), prima di novembre non ci sarà un nuovo esecutivo in carica ed è quindi verosimile ipotizzare che ciò renda impossibile rispettare la scadenza del dicembre 2022 come data entro cui raggiungere tutti i 55 obiettivi del secondo semestre dell’anno, sia per la difficoltà di presentare e approvare le leggi e i decreti necessari, sia perché i nuovi ministri e sottosegretari prima di gennaio 2023 difficilmente saranno in grado di guidare rapidamente una macchina così complessa.
Il Piano non si fermerà nei prossimi mesi grazie alla sua governance (predisposta nel Dl 77 del 2021), che prevede che le strutture tecniche di gestione insediate a Palazzo Chigi e al Ministero dell’Economia e delle Finanze non siano soggette a spoils system e rimangano in carica sino a dicembre 2026. Ma è comunque quasi certo che, senza il naturale impulso degli organi politici, molte scadenze previste per dicembre 2022 non riescano a essere rispettate.
I tre scenari
Per il Pnrr italiano sono quindi ipotizzabili tre scenari. Il primo: tutto procede senza grandi problemi, con qualche ritardo riferito agli obiettivi in corso, ma senza che nulla cambi nella sostanza generale del Piano; ci si limita al rischio di non essere in linea con gli impegni di dicembre 2022 e si concretizza uno slittamento, superato il quale si rientra nell’andamento concordato. Seconda ipotesi: il nuovo governo vuole negoziare un “nuovo Pnrr”; i tempi si dilatano (formalmente devono esprimersi varie istituzioni nazionali ed europee e tra queste Parlamento, Commissione e Consiglio innescando o meno un precedente); il rischio perdita delle le risorse si alza notevolmente anche considerando che entro dicembre 2026 vi è l’obbligo di rendicontare tutto il Recovery e bene che vada, rispetto al percorso di revisione, potremmo beneficiare solo in parte delle risorse a nostra disposizione. Terzo scenario: contrapposizione tra Italia e Commissione Ue e conseguente rottura del contratto con l’Ue, che potrebbe chiedere indietro le risorse già assegnate all’Italia “per inadempimento”.
È quindi evidente che la linea politica pro-Europa o meno e pro Pnrr o meno determinata dal voto, inciderà non poco sul Piano e sulla sua attuazione, come altrettanto evidente è che le eventuali proposte di “cambiare il Pnrr” rimangono ipotesi teoriche. La leader di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni, in occasione dell’evento “Pnrr: priorità e futuro dell’Italia” del 19 maggio scorso, ha consigliato a Mario Draghi “di recarsi alla Commissione europea per chiedere una revisione degli obiettivi del Pnrr, che devono essere concentrati sulle conseguenze della crisi”. Ancora più di recente il presidente del Veneto, Luca Zaia, ha detto che “bisogna anche rivedere le regole del Pnrr. Il Piano è nato con determinati intendimenti in un contesto storico di pochi mesi fa, radicalmente diverso da quello di oggi”. Realisticamente, queste ipotesi rischiano di essere più slogan da campagna elettorale che percorsi effettivamente concretizzabili. Molto più pragmatico quanto affermato dal commissario europeo Paolo Gentiloni che nel giugno di quest’anno davanti alla platea dei giovani imprenditori ha detto “chi propone di rifare il Piano sbaglia” perché si rischierebbe di apparire poco seri e non si avrebbe “alcuna possibilità di riproporre questo metodo – debito comune, obiettivi comuni – nei prossimi anni”.
Infatti, l’effettiva funzionalità e la chiusura del Piano italiano hanno riflessi non solo sulla nostra economia, ma anche sulla dimensione europea (all’Italia sono assegnate un quarto del totale delle risorse europee): se a Roma non funziona il Pnrr, si rischia che a Bruxelles venga accantonata l’idea del Recovery Fund (e altre iniziative finanziate da debito comune europeo) e la sua possibilità di renderlo permanente, rimanendo quindi solo una esperienza passeggera e non ripetibile.
Forse votare appena dopo il raggiungimento degli obiettivi del dicembre 2022, dopo aver approvato quasi tutte le riforme, sarebbe stata la finestra temporale migliore. Certamente, a settembre votiamo per un nuovo governo, ma probabilmente, senza accorgercene, sceglieremo anche tra il percorso europeo o il suo rifiuto.
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Savino
C’è da chiedersi: ma davvero stiamo facendo le riforme necessarie e stiamo davvero raggiungendo gli obiettivi? Io constato e credo che sta rimanendo tutto sulla carta perchè per raggiungere quegli obiettivi in modo decente occorre capovolgere come un calzino la realtà di cattive abitudini, corruzione e a-moralità esistente. Dobbiamo prendere coscienza dell’altissimo debito pubblico che abbiamo. Non stiamo facendo i conti, inoltre, con la decadenza industriale del Paese e con le relative conseguenze sociali. Lo scenario che si va proponendo è la probabile richiesta dell’Italia di fare altro debito, addossandolo alle future generazioni, per fare la flat tax, quota 41 e altro assistenzialismo. Next Generation EU aveva altro intento: fare dell’Italia un Paese civile come il resto d’Europa e a misura di giovane.
Aram Megighian
Pur non essendo un esperto in economia, noto che un conto sono soldi spesi per riforme strutturali. Investire adesso in Ricerca, vuol dire trarre vantaggi non adesso, nè domani, ma nei prossimi anni. Ecco il motivo per cui queste riforme non sono mai state fatte. Perchè non sono vantaggiose per un politico che ha necessità di avere riscontro immediato delle sue scelte, e non fra 10-15 anni quando forse non sarà più un leader.
Marco
Il coraggio della competenza. L’ultima lezione di Draghi da presidente della Bce:
L’intervento alla cerimonia per la consegna della Laurea honoris causa in Economia dell’Università Cattolica. Un insegnamento per politici populisti, ambientalisti emozionali e tecnici conservatori
11 ottobre 2019
…“Il secondo ostacolo incontrato dai riformatori è l’opposizione da parte degli interessi costituiti. Fu infatti immediatamente chiaro che alcuni governi avrebbero dovuto varare un programma di riforme strutturali per migliorare le prospettive di crescita e ridurre la disoccupazione. Le riforme strutturali non possono beneficiare tutti: accanto ai vincitori ci sono i perdenti che si oppongono alla loro realizzazione.”
https://www.ilfoglio.it/economia/2019/10/11/news/il-coraggio-della-competenza-l-ultima-lezione-di-draghi-da-presidente-della-bce-279972/