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Dieci priorità per le politiche attive del lavoro

Uno dei nodi fondamentali da sciogliere nella prossima legislatura è quello delle politiche attive del lavoro, ancora inefficienti in Italia rispetto all’estero. Ecco a che punto siamo e alcune delle priorità da affrontare.

In prossimità delle elezioni del 25 settebre, le politiche attive del lavoro (Pal) saranno certamente citate in quasi tutti i programmi politici, come il ”prezzemolo” in cucina. Almeno negli ultimi trent’anni, affermazioni quali: “migliorare la formazione professionale e i servizi per il lavoro che permettano di contrastare il mismatch domanda e offerta di lavoro” è diventato un  leitmotiv della politica, ma è come proporre la “pace nel mondo”, siamo tutti d’accordo ma poi nella realtà è quasi impossibile applicarla. Essendo che le criticità nelle Pal sono “articolate e multidimensionali”, affronterò quelle più rilevanti (non certo esaustive) che si spera la politica italiana possa risolvere:

  1.  “Balcanizzazione” della gestione regionale delle politiche attive del lavoro. Le Regioni sono le “titolari” della gestione ed organizzazione delle politiche attive del lavoro e dei servizi pubblici per l’impiego. Il sistema regionale è ormai a regime ed è irreversibile, in quanto: le Regioni da un punto di vista politico non rinunceranno ad un tema così delicato; e secondo, una conversione a livello nazionale richiederebbe almeno un decennio per essere applicata efficacemente.
    In assenza di un ritorno a livello nazionale, è necessario avviare un processo di monitoraggio comparativo e valutazione indipendente da parte di istituti nazionali (per esempio, l’Inapp), perché il risultato è che tutte le regioni si “auto-celebrano” e nessuna sa se il sistema funziona oppure è inefficace. 
  2. Totale dipendenza dai fondi comunitari. Il sistema delle Pal dipende quasi interamente da fondi comunitari, che siano i Fondi sociali europei o il Pnrr poco importa. Un modello del genere crea un sistema burocratico e di rendicontazione pazzesco. Servono funzionari della “Nasa” per la corretta gestione, il che comporta la totale dipendenza verso l’assistenza tecnica. Inoltre, il rispetto dei costi ammissibili comporta l’uniformità dei servizi, più o meno sono gli stessi in tutte le Regioni, rendendo superflui termini come “personalizzazione” o “territorialità” dell’intervento.
  3. Esiguo numero e scarsa preparazione dei dipendenti dei Centri per l’impiego, senza giri di parole, i dipendenti dei Centri per l’impiego sono pochissimi, a spanne si va da un quinto a un decimo del numero di dipendenti presenti in Inghilterra, Francia e Germania.  Inoltre, a eccezione dei nuovi ingressi, i monitoraggi sul personale effettuati dal Ministero del lavoro mostrano titoli di studio in media “bassissimi” (terza media e qualche diploma), questo perché, in passato, all’interno dei Cpi si è fatto largo uso alla mobilità da altri uffici e altre unità organizzativa. In generale, manca una chiara definizione nazionale del dipendente dei Centri per l’impiego, che non può certamente richiamare le competenze solo amministrative. Su questo, alcune Regioni hanno inserito nei concorsi competenze più “coerenti” con i servizi per l’impiego, ma questo ci riporta al tema del primo punto, alcuni critici evidenziano come in certi casi i concorsi sono serviti più per stabilizzare i “precari” storici piuttosto un serio ragionamento sulle professioni futuro nei servizi al lavoro.
  4. Il ruolo anomalo di Anpal e di Anpal Servizi, l’Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro (Anpal) è nata in un particolare momento storico, ovvero l’eventuale riforma costituzionale del 2016 che le avrebbe permesso di svolgere il pieno controllo delle politiche attive del lavoro in Italia. La sconfitta del referendum ha invece confermato la piena titolarità delle competenze alle Regioni, le quali (quasi tutte) hanno a loro volto costituito le proprie Agenzia del lavoro regionali. Adesso ci troviamo con un “codominio” di Agenzie regionali e un’Agenzia nazionale  di coordinamento, la quale è stata “commissariata”, dato che l’obiettivo è quello di disegnare una nuova “governance” che riporti al Ministero del lavoro le funzioni di indirizzo e coordinamento. A complicare le cose c’è il fatto che Anpal, il braccio operativo del Ministero del lavoro,  è a sua volta affiancata da Anpal Servizi, che è il braccio operativo di Anpal. Nella maggior parte dei paesi da me studiati, il sistema prevede un Agenzia nazionale o federale con pieni poteri e un’articolazione su base “provinciale” di presidio territoriale.  Non potendo fare nulla a livello regionale, almeno risolviamo il complicato intreccio tra Agenzie nazionali, dato anche il ruolo sussidiario dello Stato in materia di politiche attive del lavoro.
  5. Che fine faranno i Navigator ? Si tratta di professionisti assimilabili al ruolo di “case-manager” e che sono collaboratori di Anpal Servizi. Nonostante il limite di svolgere un ruolo di collaborazione presso un’Agenzia che non ha nessuna competenza territoriale, dato che spetta alle Regioni e ai Centri per l’impiego territoriali il compito di erogare servizi, i Navigator si sono comunque dimostrati risorse molto valide. Sarebbe un vero peccato dispendere questa esperienza.
  6. Aspettando ancora la Piattaforma del lavoro nazionale. Eliminando la figura di Mimmo Parisi (perfetto capro-espiatorio di tutti i mali delle politiche attive del lavoro in Italia), come era logico aspettarsi, della piattaforma nazionale non c’è ancora nessuna traccia. Sia chiaro, di questo strumento se ne parla ormai almeno da venti anni (Clicklavoro, Borsa lavoro, Italy Works). A complicare le cose c’è la presenza di piattaforme regionali, alcune, come in Veneto o in Toscana, sono ben avviate, se dovesse partire quella nazionale, cosa ne faremmo di quelle regionali? Una piattaforma pubblica potrebbe rappresentare un buon appoggio per quelle micro-realtà territoriali che non intendono utilizzare (perché a pagamento) le principali piattaforme oggi presenti sul territorio. In merito, non si comprende perché non sia stata ancora implementata una sezione dedicata al lavoro nell’App IO, operazione che non richiederebbe enormi sforzi di progettualità. Ovviamente c’è da capire poi come si gestirà la nuova piattaforma nel caso lo strumento sia molto diffuso, le interazioni tra utenti e imprese potrebbero essere milioni, chi le gestirà, i dipendenti dei Centri per l’impiego? Sono pochissimi: la Francia impiega appositamente 5 mila dipendenti per il servizio di matching. Sarebbe opportuno evitare di rinunciare all’esperienza dei navigator, che su questo versante potrebbero poi rivelarsi una risorsa importantissima.
    A questo si aggiunge un secondo problema, sviluppare un modello che oltre all’attività di Ido svolga anche un processo di “targhettizzazione” che elabori l’interoperabilità dei dati amministrativi. Questa soluzione suscita spesso interesse da parte dei politici e delle tecnostruttura, ma la letteratura dal 2003 ad oggi, piuttosto ampia e consolidata, mostra che dove sono state realizzate piattaforme del genere i risultati sono stati spesso modesti, in pratica mai utilizzate da operatori ed utenti. 
  7. Il ruolo dei Social Media nei Servizi pubblici per l’impiego, la reputazione dei Centro per l’impiego è, senza giri di parole, pessima, spesso motivata da scarsa qualità dei servizi edifici fatiscenti e totale assenza di investimenti in social media. Il rischio è che un programma come Gol possa partire subito male se la reputazione dei Centri per l’impiego è così negativa da parte degli utenti. In Francia, per esempio, i social media rivestono un ruolo fondamentale per intercettare i soggetti più esclusi sul mercato del lavoro, proprio perché tali strumenti raggiungono tutti, soprattutto i giovani Neet, cosa che nessun altro strumento è in grado di fare (basti pensare all’accordo con Tinder per il programma 1 jeune 1 solution).
    Cosa è stato fatto su questo argomento? Nulla, al massimo quando parte un intervento, le strutture rilanciano sulla propria pagina Linkedin o Facebook l’iniziativa, troppo poco! Il risultato è che spesso vi è una scarsa partecipazione, oppure a partecipare sono i più svegli, i più istruiti e motivati, forse quelli che non avrebbero bisogno.
  8. Comportamenti “opportunistici” nelle politiche attive del lavoro, sono ancora molto forte in Italia. Per esempio, il caso dei Tirocinii extracurriculari in Garanzia Giovani dovrebbe farci riflettere su come realizzare le politiche attive del lavoro. In troppe occasioni, l’inserimento occupazionale è avvenuta a ridosso dell’iscrizione al programma a dimostrazione di una “fittizia” intermediazione (nota in letteratura come Gaming), una manipolazione che ha prodotto una voragine di criticità, quali: aver speso un enorme quantità di soldi per inserire i più preparati e contemporaneamente non coinvolgendo i più svantaggiati; aver spiazzato l’apprendistato o altri contratti come primo inserimento.
  9. Il miraggio dell’offerta congrua, siamo ancora in attesa in Italia della prima applicazione dell’offerta congrua, ovvero l’applicazione della condizionalità per i percettori di ammortizzatori sociali, al momento mai applicata in questo paese.
  10. La formazione professionale, panacea di tutti i mali. In merito lo strumento appare oggi ancora lontano da un sistema efficiente, orientato più per “foraggiare” enti accreditati piuttosto che realizzare attività coerenti con l’obiettivo di maggiore “occupabilità” del percettore. Inesistente è la certificazione di competenza dopo l’attività formativa, spesso i percorsi sono contingentati in pochi giorni ed erogare lezioni di 8 ore al giorno ad un target tipicamente formato da persone adulte a bassa scolarizzazione (o da tanto tempo distanti dal loro percorso scolastico) con una scarsissima capacità di apprendimento. Inoltre, senza un’attività di testing finale, mostrare come risultati positivi la customer satisfaction è un’operazione assolutamente inutile, il discente deve essere preparato/competente e non solo contento del percorso realizzato.
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  1. alessandra filoni

    Sempre superlativo e diretto Francesco Gubileo,

    mi permetterei solo di inserire al punto 2 che la “totale dipendenza dai fondi comunitari” provoca la “distorsione” che ad alti tassi di disoccupazione si associano i maggiori fondi europei disponibili provocando il completo disinteresse delle regioni interessate dal fenomeno (si veda il Sud che rientra storicamente nell’Obiettivo 1 “Regioni più svantaggiate” d’Europa) a cambiarne la rotta verso l’aumento dell’occupazione per non perderne le relative risorse – che a loro volta “foraggiano” APL ed Enti di formazione accreditati, costituendo il giro clientelare di inserimento della disoccupazione locale del governo di turno.

    A ciò si affiancano Centri per l’Impego fatiscenti, con scarso personale e difficoltà nell’accessibilità dei servizi da parte dell’utenza poco digitalizzata (che costituisce la gran parte dei disoccupati).

    Ciò è difficilmente dimostrabile proprio per la marea di documentazione amministrativa che ne sarebbe coinvolta (che non paleserebbe comunque l’efficacia delle risorse utilizzate) ma i dati dei tassi di disoccupazione – che non cambiano da 30 anni, anzi o permangono o peggiorano – parlano molto chiaramente perchè o al Sud si ha una gestione fallimentare delle PAL e dei Servizi pubblici del lavoro (e questo è evidente!!) o le altre regioni europee (che hanno beneficiato degli stessi fondi) con condizioni similari di partenza (es. in Spagna) sono più brave di noi essendo riusciti a migliorare la situazione del mercato del lavoro con l’utilizzo di tali risorse.

  2. Pier Paolo DC

    Bel pezzo! Una disamina lucida sulla materia fatto da una persona competente che la conosce nelle varie sfaccettature.

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