Le donne manager sono più sensibili alle esigenze dei lavoratori? Sì, secondo uno studio che analizza l’uso del part time nelle aziende a guida femminile. Quello involontario si riduce, mentre chi richiede il part time lo ottiene più facilmente.
Donne che dirigono le aziende
Nelle aziende italiane, le donne manager sono poche: non si tratta solamente di un’impressione, lo dicono i dati. Infatti, da fonte Istat, nel 2012, appena il 14,5 per cento dei ruoli dirigenziali venivano ricoperti da donne e, scendendo di un gradino la scala gerarchica, la proporzione per i “quadri” raggiungeva il 28 per cento. Una situazione però in mutamento: grazie anche agli interventi sulle “quote rosa”, attuate in un numero sempre più alto di paesi, come auspicato dall’Unione europea, la rappresentanza di donne nei consigli di amministrazione delle aziende italiane quotate aumenta. Più in generale, tra i manager si registra un consistente incremento dell’universo femminile: + 29,4 per cento dal 2008 al 2016, contro un calo del 9,7 per cento degli uomini, secondo il rapporto donne di ManagerItalia.
Le analisi economiche si sono concentrate prevalentemente sul possibile effetto che una maggiore presenza di donne al vertice può avere sull’andamento delle aziende, con risultati empirici ancora incerti. Tuttavia, una maggiore presenza di donne dirigenti può avere effetti che non emergono necessariamente dall’analisi dei bilanci aziendali, ma che toccano altri aspetti, come quelli relativi alla gestione della forza lavoro e al clima aziendale, e che, in ultima analisi, hanno rilevanza per la società nel suo complesso.
Diversi studi suggeriscono che le donne manager sono differenti nel comportamento sul luogo di lavoro rispetto ai loro colleghi di genere maschile: sembra che siano più orientate verso il prossimo e che si ispirino a valori più altruistici e compassionevoli. Si può dunque ipotizzare che le donne manager siano anche più attente ai bisogni dei loro collaboratori. In uno studio, che abbiamo condotto su un campione rappresentativo di imprese italiane del settore privato, cerchiamo perciò di capire se queste inclinazioni si manifestino in relazione al lavoro part time. Ci siamo voluti concentrare su questo tema perché è caratterizzato da una sorprendente dualità, che spesso passa inosservata.
Part time come cartina di tornasole
Il part time è comunemente ritenuto un valido strumento per conciliare gli impegni lavorativi con quelli famigliari e diventa un essenziale alleato in alcune fasi della vita, per esempio quando si hanno bambini piccoli o genitori anziani che necessitano di cure. E per molti lavoratori è così: desiderano lavorare part time e lo fanno. Capita però che altri lavoratori che chiedono la trasformazione, anche solo temporanea, del loro contratto full time in uno part time, si vedano negata la richiesta dal datore di lavoro. Un comportamento spiegabile con il fatto che, in generale, un più intenso utilizzo di lavoratori part time ha un effetto negativo sulla produttività aziendale. Oltretutto in Italia, a differenza di altri paesi occidentali, non esiste una legge che obblighi il datore di lavoro a concedere la trasformazione del contratto, neppure quando ci siano comprovate esigenze di cura di bambini o anziani. L’unica eccezione riguarda il lavoratore affetto da patologie oncologiche: solo in questo caso estremo il datore di lavoro ha l’obbligo di soddisfare la richiesta di part time.
L’altra faccia della medaglia è l’alto numero di persone – per di più aumentato in modo massiccio durante la grande recessione – che lavorano sì part time, ma non per scelta volontaria: vorrebbero un lavoro a tempo pieno, ma non trovandolo si accontentano di lavorare a orario ridotto. Questi lavoratori, chiamati “part timer involontari”, nel 2010 rappresentavano, il 49 per cento del totale della forza lavoro con orario ridotto. Se il part time volontario è un importante strumento di bilanciamento vita-lavoro e perciò deve essere incentivato, quello involontario è un preoccupante fenomeno di sottoccupazione a cui è auspicabile porre un freno. Capire se le donne manager siano più propense ad assecondare le esigenze dei lavoratori in fatto di orario di lavoro è quindi uno snodo importante: se sono più attente ai bisogni dei lavoratori, ci possiamo aspettare che concedano più agevolmente la possibilità di lavorare part time alle persone che lo richiedano e, viceversa, di lavorare full time ai part timer involontari, limitando l’utilizzo distorto di questi contratti.
I risultati, ottenuti attraverso modelli econometrici di tipo panel (a “effetti fissi”), mostrano che le donne manager sono, in effetti, più attente ai bisogni dei loro lavoratori in termini di orario di lavoro: limitano fortemente il part time involontario, concedendo più contratti a tempo pieno a chi lo desidera, e sono più propense a concedere il part time ai collaboratori che lo richiedano.
Lo studio delinea quindi un quadro in cui le donne manager possono avere effetti positivi sul benessere dei lavoratori, a beneficio delle aziende stesse, creando in questo modo una strategia vincente. Lavoratori più soddisfatti sono più produttivi e fedeli al datore di lavoro, innescando così un auspicabile circolo virtuoso.
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Simona C.
Da dirigente in una PMI, fortemente convinta che la qualità dell’ambiente di lavoro, non posso che ringraziare per la conferma della bontà del mio approccio. 2 commenti in merito all’articolo. 1. Il part-time è forse una proxy approssimativa della flessibilità soprattutto nelle PMI dove le logiche di tale scelta vanno oltre alla discrezionalità del dirigente (uomo o donna che sia) nel soddisfare le esigenze dei dipendenti. Un survey su dipendenti di uno specifico settore su disponibilità meno strutturate (es.modalità di concessione dei permessi) potrebbe essere più efficace per evidenziare un’eventuale diversità di comportamento del gender. 2. In generale, sarebbe prezioso dimostrare/inidcare di quanto la produttività cresce grazie all’effetto “donna-dirigente”. Forse in questo modo potremmo evitarci le quote rosa.