Nel discorso sullo stato dell’Unione, Obama ha fatto importanti proposte di politica sociale. Che però avranno un’efficacia limitata. Nessun accenno al livello di diseguaglianza che è in continua crescita. Il rischio è che si traduca in minori opportunità per le future generazioni.

LA POLITICA SOCIALE DI OBAMA

Il discorso sullo stato dell’Unione del presidente Obama contiene alcune importanti proposte di politica sociale. A cominciare dal ripristino dei sussidi per i disoccupati di lunga durata, anche attraverso accordi tra grandi imprese per facilitarne le assunzioni e la partecipazione a corsi di aggiornamento. Obama ha poi assunto l’impegno di aumentare per decreto il salario minimo dei lavoratori con contratti federali, di ridurre i divari nelle retribuzioni delle donne rispetto a quelle degli uomini, di promuovere l’istruzione prescolare e la formazione professionale e di tutelare maggiormente i pensionati: sono proposte che avranno essenzialmente un impatto mediatico e una limitata efficacia perché si tratta di provvedimenti basati su ordini esecutivi della Casa Bianca, e non su leggi.
Ciò che manca nel discorso di Obama è un’analisi dei principali aspetti che caratterizzano la distribuzione personale dei redditi negli Stati Uniti. Sono del tutto assenti iniziative per aumentare la tassazione sui redditi più elevati, in particolare su quelli da capitale, e per avviare un sistema di sicurezza sociale universale.

DISEGUAGLIANZA IN CRESCITA

Il livello di diseguaglianza e di polarizzazione dei redditi negli Stati Uniti è il più elevato tra i paesi industrializzati ed è anche cresciuto sistematicamente, fino a diventare una un tema di preoccupazione generale. Come sottolinea Joseph Stiglitz, tra il 2009 e il 2010 il 93 per cento dei guadagni della ripresa è stato percepito da chi si colloca nell’1 per cento più elevato della distribuzione dei redditi.
I dati raccolti dal Census Bureau con l’indagine Current Population Survey (1) documentano come, nel 2012, il quintile più povero di famiglie abbia ricevuto solo il 3,4 per cento del reddito di mercato equivalente, mentre il quintile più ricco ben il 49,9 per cento. La serie storica consente di evidenziare come dal 2010 la quota del 5 per cento più ricco della popolazione sia passata dal 21,3 per cento al 22,3.
Come testimonia il Congressional Research Service, l’indice di Gini è sistematicamente cresciuto, a eccezione di una lieve diminuzione durante la recessione del 2007-2009, passando dallo 0,386 nel 1968 allo 0,477 nel 2011 (figura 1).

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Figura 1 – Indice di Gini per le famiglie Usa, 1968-2011

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Le stime della Federal Income Tax sui redditi delle famiglie documentano che nel 2010 il quintile più povero ha ricevuto il 5,1 per cento del reddito di mercato, e quello più ricco il 51,9 per cento e che il reddito dell’1 per cento più ricco della popolazione sia cresciuto del 15 per cento tra il 2009 e il 2010 e del 3,6 rispetto al 1979, nonostante la frenata del periodo 2007-2009 (figura 2).

Figura 2 – Crescita cumulata del reddito disponibile dei quintili di percettori (1979-2010)

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CHE FINE HA FATTO LA CLASSE MEDIA?

All’arricchimento progressivo dell’ultimo quintile è corrisposto un calo del peso della classe “media”, che occupa il secondo, terzo, e quarto quintile. Nel 2012 questa fascia, corrispondente al 60 per cento della popolazione ha ottenuto una quota di reddito pari al 45,7 per cento a fronte del 53,2 del 1968. Il reddito mediano, dopo il picco del 2007, è considerevolmente diminuito (figura 3).

Figura 3 – Reddito mediano delle famiglie Usa

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Un livello di diseguaglianza così elevato, traducendosi in minori opportunità per le prossime generazioni, può essere un fattore di freno per la crescita: già oggi il divario nelle prove di apprendimento tra bambini ricchi e poveri risulta del 30-40 per cento più ampio rispetto a 25 anni fa. E anche la mobilità sociale, già inferiore a quella di molti paesi europei, continua a restare bassa (2).
Entra qui in gioco il ruolo della redistribuzione (figura 4). Come sottolinea l’Economist, la politica dei trasferimenti sociali negli Stati Uniti è efficace nei confronti dei più poveri, ma non riduce il livello di diseguaglianza. E il problema non è tanto l’entità delle risorse quanto la struttura del sistema, come ricorda Janet Gornick, direttore del Luxembourg Income Study presso la Cuny University di New York (3).
Lo studio del Lis mostra come nel 2013 l’indice di Gini sulla distribuzione dei redditi di mercato (0,57) fosse inferiore a quello di molti paesi europei come Germania o Gran Bretagna ma come la percentuale di riduzione di tale indice dopo la redistribuzione si fermasse allo 0,15 per cento, molto meno rispetto alla Germania (0,24) o alla Norvegia (0,20 per cento).

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Figura 4 – Diseguaglianza dei redditi e redistribuzione

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L’elevata diseguaglianza negli Stati Uniti ha per lo più cause strutturali, come il divario nei livelli d’istruzione e di competenze professionali, risultato dell’operare del libero mercato in un’economia capitalistica avanzata. Per questa ragione, politiche volte a rendere più efficace l’azione redistributiva non sono certamente sufficienti a ridurla. Tuttavia, potrebbero essere efficaci nel ridurre quelle distorsioni nella struttura impositiva che “favoriscono i ricchi, come le deduzioni sugli interessi dei mutui (…) E non guasterebbe anche una certa deregolamentazione: molte fra le professioni più redditizie -come medici e avvocati- sono protette da barriere che non hanno ragione di esistere” (4).

 

(1) Income, Poverty, and Health Insurance Coverage in the United States: 2012 
(2) Si veda il rapporto del Congressional Research Service
(3) Si veda l’intervista a Janet Gornick.
(4) Vedi The Economist

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