La svalutazione sarebbe lo strumento più semplice per riequilibrare il cambio reale e riacquistare competitività, se non si considerano tutti gli altri problemi di un’eventuale uscita dall’euro. Ma si avrebbero benefici duraturi per la crescita?
IL RITORNO AL CAMBIO FLESSIBILE
Tra i vantaggi che accompagnerebbero un’uscita dell’Italia dall’euro c’è la possibilità di svalutare il cambio nominale per guadagnare competitività nei confronti degli altri paesi dell’area. Tuttavia, regna molta confusione, soprattutto nel dibattito giornalistico e televisivo, su quali sarebbero i benefici e i costi che un ritorno al cambio flessibile comporterebbe per la nostra competitività, nel breve e nel lungo periodo. Le valutazioni spaziano da chi crede che ciò fornirebbe un po’ di ossigeno a un’economia che stenta ad uscire dalla recessione, a chi sostiene che ciò riporterebbe il nostro paese su un sentiero di crescita duraturo, dal quale ci saremmo allontanati proprio con l’adozione dell’euro. Discutiamo qui questo punto, astraendo da qualunque altro fattore che potrebbe accompagnarsi a un’uscita dall’euro (crisi bancarie, fughe di capitali, ritorsioni commerciali da parte degli altri paesi dell’area e altro) e confrontiamo due scenari, uno con l’euro e uno con la lira a cambio flessibile, a parità di tutte le altre condizioni.
GLI EFFETTI DELLE SVALUTAZIONI NEL BREVE PERIODO
La competitività di un paese è solitamente misurata dal tasso di cambio reale, definito come il cambio nominale fra due valute per il rapporto fra i prezzi: se e è il tasso di cambio nominale (euro per 1 dollaro), p* i prezzi del paese estero (in dollari) e p i prezzi interni (in euro), il tasso di cambio reale è r = e p* / p. Un aumento del cambio reale significa che i beni esteri diventano più costosi di quelli domestici: se ci vogliono più euro per comprare un dollaro, il prezzo in euro di una Ford prodotta negli Stati Uniti sale. Di conseguenza, la “competitività” del paese migliora, perché i beni stranieri diventano più cari per chi compra in euro. È evidente che la svalutazione del cambio reale può avvenire o tramite la svalutazione del cambio nominale e oppure con una variazione dei prezzi relativi p* / p per dato cambio nominale (o una qualche combinazione dei due).
Come si è evoluta la competitività dell’Italia dalla fine degli anni Novanta? Secondo uno studio di Claire Giordano e Francesco Zollino della Banca d’Italia, riassunto su voxeu.org, dipende dal tipo di indicatore che si utilizza. Sulla base di indicatori di prezzi alla produzione, la nostra competitività è rimasta stabile, mentre è peggiorata in termini di costo del lavoro. C’è da stare tranquilli? No, perché nel frattempo quella della Germania, il nostro partner commerciale principale, è sensibilmente migliorata, aprendo un divario fra la nostra competitività e quella tedesca fra il 10 e il 40 per cento, a seconda dell’indicatore utilizzato (gli autori ritengono che la cifra rilevante sia quella più bassa). Recuperare competitività attraverso una riduzione dei prezzi interni rispetto a quelli esteri non è una passeggiata, soprattutto quando l’inflazione è bassa, perché può richiedere un processo lento e costoso in termini di disoccupazione, o una crescita forte della produttività, che in Italia langue da due decenni.
Ci sono quindi pochi dubbi sul fatto che una svalutazione sarebbe lo strumento più semplice per riequilibrare il cambio reale e riacquistare competitività. Ma quali benefici potremmo aspettarci in termini di maggiore crescita e, soprattutto, quanto sarebbero duraturi? Due lavori recenti studiano l’effetto di una svalutazione del cambio sul tasso di crescita del Pil guardando alle esperienze passate. (1) Le analisi suggeriscono un’elasticità che varia fra l’1 e il 3 per cento: una svalutazione del 30 per cento del cambio nominale farebbe crescere il Pil fra lo 0,3 e l’1 per cento. Le analisi indicano inoltre che l’elasticità è maggiore per i paesi in via di sviluppo, mentre per i paesi sviluppati le stime si situano nella parte bassa del ventaglio. L’esperienza della svalutazione italiana del 1992 è coerente con questi risultati: il tasso di cambio reale della lira si svalutò sino a un massimo del 30 per cento. Secondo le stime sopra riportate l’effetto della svalutazione avrebbe contribuito ad aumentare la crescita del Pil tra lo 0,3 e l’1 per cento. Svalutare darebbe senz’altro un po’ di sollievo alla nostra boccheggiante economia, ma non ci farebbe crescere come trenta anni fa.
IL CAMBIO FLESSIBILE FAVORISCE LA CRESCITA IN MODO DURATURO?
Ma un cambio flessibile permetterebbe di tornare a crescere in modo duraturo? La teoria economica dice chiaramente di no: il regime di cambio non influenza la crescita di lungo periodo. La crescita di lungo periodo, quella che rileva ai fini del tenore di vita dei cittadini, è determinata dalla capacità di aumentare la produttività dei fattori: significa creare un ambiente economico in cui imprenditori, professionisti e imprese che innovano e si dimostrano capaci di creare molto valore aggiunto si affermano (anziché trasferirsi all’estero per sfuggire alle sabbie mobili della burocrazia nazionale e delle carriere politiche), a scapito di quelle che non riescono a innovare, che devono invece uscire dal mercato. E l’evidenza è coerente con queste conclusioni: le differenze di crescita fra paesi con cambi fissi e variabili sono trascurabili, con qualche eccezione per i paesi in via di sviluppo. (2) Pensare che un ritorno alla lira ci riporterebbe su un sentiero di crescita duraturo è illusorio: basta uno sguardo all’andamento della crescita della produttività dei fattori italiana dal dopoguerra a oggi per rendersi conto che il declino è iniziato almeno dieci anni prima dell’adozione dell’euro.
Uscire dall’euro e svalutare ci permetterebbe certamente di recuperare il gap di competitività velocemente. E poi? Sono possibili due scenari. Il primo è che alla svalutazione segua l’inflazione, che in un paio d’anni ci riporterebbe al punto di partenza. Questo scenario sarebbe verosimile se la svalutazione fosse molto grande, diciamo superiore al 50 per cento. Ricordiamoci che la storia dell’Italia, da Bretton-Woods fino agli anni Novanta, è proprio la storia di continui inseguimenti tra svalutazioni del cambio, salari e prezzi.
Il secondo scenario è che i prezzi non crescano, trasformando la svalutazione in un aumento persistente di competitività. Questo scenario sembra il più probabile nel caso di una svalutazione contenuta, che si limiti a correggere il livello eccessivamente alto del cambio reale, riportandolo al livello di dieci anni fa. Ma il secondo scenario è lo stesso che si otterrebbe con una diminuzione dei prezzi italiani rispetto a quelli tedeschi (che farebbe aumentare p*/p), e con questo condividerebbe una caratteristica fondamentale: costituirebbe un impoverimento relativo del nostro paese. A fronte di un aumento della competitività delle imprese si registrerebbe una diminuzione del potere d’acquisto dei lavoratori, dovuta al fatto che le importazioni diventerebbero più care.
Detto diversamente, riacquistare competitività attraverso variazioni del cambio reale significa ridurre il potere d’acquisto dei salari italiani. Se si ritiene che il destino dell’Italia sia quello di poter competere solamente con paesi a medio livello di sviluppo, come la Polonia o la Turchia, l’uscita dall’euro sarebbe il modo più veloce e meno doloroso per raggiungere l’obiettivo. Con salari polacchi saremmo molto competitivi rispetto ai polacchi. Ma il potere d’acquisto derivante da una giornata di lavoro sarebbe inferiore a quello attuale. Se invece si ritiene di poter competere con i paesi sviluppati, allora non c’è regime di cambio che tenga: è necessario rendere il paese più competitivo attraverso cambiamenti che aumentino la produttività del lavoro. La Germania compete da cinquanta anni con i paesi più avanzati del mondo nonostante una valuta molto forte, perché produce beni di elevata qualità la cui domanda non risente della concorrenza dei paesi emergenti. Pensare di usare il cambio come scorciatoia per evitare le riforme non è solamente illusorio, è controproducente: dopo la svalutazione del 1992 le imprese italiane hanno sfruttato il temporaneo vantaggio del cambio svalutato invece di mettere in atto difficili processi di ristrutturazione. (3)
QUALE PAESE VOGLIAMO?
In sintesi, la decisione sulla permanenza nell’euro è legata alla visione che si ha del paese. Se riteniamo che non sia in grado di competere con gli altri paesi avanzati, a causa di una amministrazione pubblica inefficiente che frena le innovazioni e le ristrutturazioni, delle rigidità nel mercato del lavoro, di un mercato dei capitali incapace di sostenere le imprese con potenzialità di crescita, di una scuola che non prepara adeguatamente i giovani al mondo del lavoro, di infrastrutture fatiscenti, allora uscire dall’euro è una scelta coerente. Lo ribadiamo: ciò significherebbe allineare il reddito degli italiani a quello dei paesi meno sviluppati. Se invece vogliamo giocare la partita nella serie A, e portare i salari italiani a livello di quelli tedeschi, non esistono scorciatoie legate al regime di cambio: si devono fare quelle riforme che permettano alla produttività di ricominciare a crescere, recuperando il terreno che stiamo perdendo da quasi vent’anni.
(1) Virginia Di Nino, Barry Eichengreen, Massimo Sbracia “Tasso di cambio reale, commercio internazionale e crescita: Italia 1861-2011”, in L’Italia e l’economia mondiale dall’Unità a oggi, a cura di Gianni Toniolo, Marsilio; Rodrik Dany (2008), “The Real Exchange Rate and conomic Growth,” Brookings Papers on Economic Activity, Fall, pp. 365-412.
(2) Guardando al periodo post-Bretton Woods per 178 economie, Rose (2011) conclude che non c’è evidenza che i paesi con cambi variabili crescano a tassi diversi da quelli dei paesi a tassi fissi (Rose, A.K. (2011). “Exchange Rate Regimes in the Modern Era: Fixed, Floating, and Flaky”. Journal of Economic Literature, Vol. 49, No. 3, pp. 652-672. Conclusioni simili sono ottenute da altri lavori, quali Eichengreen B., Andrew K Rose (2011). “Flexing Your Muscles: Abandoning a Fixed Exchange Rate for Greater Flexibility” NBER International Seminar on Macroeconomics Vol. 8, No. 1, pp. 353-391. Atish R. Ghosh, Anne-Marie Gulde, Jonathan D. Ostry, Holger C. Wolf “Does the Nominal Exchange Rate Regime Matter?” NBER Working Paper No. 5874, January 1997. L’unica eccezione è un lavoro che trova che nei paesi in via di sviluppo tassi fissi tendono ad associarsi con crescita più bassa, mentre nei paesi industrializzati non emerge nessuna differenza: Levy-Yeyati, Eduardo, Federico Sturzenegger (2003). “To Float or to Fix: Evidence on the Impact of Exchange Rate Regimes on Growth.” The American Economic Review, Vol. 93, No. 4. pp. 1173-1193.
(3) Bugamelli, Matteo, Fabiano Schivardi e Roberta Zizza “The euro and firm restructuring”, in “Europe and the euro”, A. Alesina and F. Giavazzi (editors), University of Chicago Press.
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gioele
L’uscita dall’euro con l’introduzione dell’eurolira al cambio 1:1 porterebbe immediati vantaggi:
1) il mercato interno non subirebbe inizialmente scosse rilevanti. In seguito si potrebbe procedere ad una svalutazione controllata sul dollaro fino alla parità.
2) le esportazioni esploderebbero apportando valuta pregiata per l’acquisto dell’energia
3) le importazioni potrebbero essere pagate in euro e dollari utilizzando i miliardi di euro derivanti dalla sostituzione del circolante, i ricavi delle esportazioni, i ricavi del turismo fino alla stabilizzazione del cambio.
Vediamo ora cosa succederebbe al debito pubblico:
poiché il bilancio primario è in attivo, pagando gli interessi sulle tranches in scadenza con eurolire non ci sarebbe necessità di nuove emissioni che oggi servono per pagare gli interessi sui titoli in scadenza e quindi si comincerebbe a ridurre lo stock del debito
Una volta riempiti i forzieri delle banche e dei prestatori interni ed esteri, l’eurolira si stabilizzerebbe sui mercati mondiali e nel giro di 30 anni il debito pubblico sparirebbe e si potrebbe iniziare a riconvertire l’eurolira in euro rientrando rafforzati (molto) nel sistema.
Naturalmente l’operazione richiederebbe una classe dirigente teutonica nel controllo della spesa e qui casca l’asino!
Jacopo Piletti
Io sono a favore dell’euro proprio per quello: senza il giogo dell’europa chi sa dove saremo ora. Fare solo debito per tenere buona la gente e poi un giorno non riuscire a pagare piu questo fardello; questa Europa vuole austerità, proprio per questo va cambiata ma non abbandonata.
Marco Disce
“Fare solo debito per tenere buona la gente”
Preferisci che si indebitino le famiglie?
http://www.guidafinestra.it/console/102/immagini/Global%20Wealth%20Credit%20Suisse/Debiti%20famiglie%20G-7.JPG
nextville
Non vedo una particolare correlazione tra gli andamenti del grafico e l’appartenenza all’eurozona: la crescita maggiore del debito privato pre-crisi qui è in Uk, ma mancano Spagna e Irlanda. In ogni caso si è visto che l’eccesso di leva che sia pubblico o privato, è un problema in ogni caso. Il punto è che – come dice il saggio – non si può costruire una crescita sostenibile su un continuo aumento del debito
Luca
Se c’è qualcuno che ha un debito ci sarà per forza qualcuno che ha un credito. Pertanto, quello che dice il saggio è vero anche nella situazione opposta (quella dei paesi creditori del nord Europa).
Enrico
Premesso che non sono un economista: ma il cambio 1:1 chi lo definirebbe? Non credo sia sufficiente dire: “da oggi la mia lira vale come l’euro”, i nostri creditori accetterebbero la valuta 1:1 rischiando di trovarsi in mano un pugno di mosche?
gianranco
Questa ricetta è divertente, è come l’ora legale: sono le ore sette ma le chiamano per legge le ore otto, cosi hai dormito una ora in più.
giulioPolemico
Analisi che non difetta certo di immaginazione e di ottimismo, ma le cose stanno un po’ diversamente. Se tu agganci la lira a 1:1 con l’euro, è come se tu non avessi mai tolto l’euro. Se tu non la agganci, ma la lasci libera di fluttuare, il valore lo stabilisce il mercato internazionale delle valute, e per noi le conseguenze sarebbero molto spiacevoli (perché un litro di gasolio costerebbe tantissimo e così tutte le merci che vengono trasportate nei supermercati; per tacere di merci che noi non produciamo e che con la nostra lira svalutata dovremmo pagare a prezzo altissimo dall’estero come medicine, ogni genere di apparecchio elettronico, automobili, tutte le materie prime, gran parte degli oggetti che ci circonda).
koralloxxxx
Perché mai le esportazioni dovrebbero esplodere? Guarda che l’italia è un paese di trasformazione: prima avviene l’import, poi l’export.
Enrico
Bell’analisi, complimenti.
Però ho paura che lo scenario da “serie B”, per la classe dirigente politica e sindacale, non sia così negativo (per loro ovviamente): mi ricorda il motto “lavorare meno, lavorare tutti”
Institor reloaded
Direi che la tesi degli autori è sostanzialmente errata. L’altro giorno ero andato da un rivenditore di prodotti per panifici e pasticcerie e gli avevo chiesto informazioni su un certo forno che scopro essere prodotto in Francia. “Lasci perdere, hanno cercato di spingerlo ma niente da fare. Ha tutti i difetti dei prodotti francesi. Ci hanno provato, hanno persino piazzato un’azienda in Italia che importava prodotti dalla Francia e li riesportava per far credere che fossero fabbricati qui. Ma i clienti hanno mangiato la foglia e hanno dovuto chiudere. All’estero vogliono il prodotto italiano, perché sanno che è migliore.” Ecco, parliamo di un settore che non eccita i giornalisti, gli opinion maker e gli economisti. Quanti ce ne sono di settori così in Italia, che hanno prodotto in passato ricchezza e adesso sono entrati in crisi o hanno limitato le loro quote di mercato a causa del disallineamento dei prezzi generalizzato dovuto alla moneta unica? Ma sono tutti settori che non interessano. Tutti, giornalisti, opinion maker, economisti (compresi gli estensori di questi articolo) non vedono l’ora che questa aziende chiudano, si tolgano finalmente di mezzo per far rinascere al loro posto nuove fantastiche start up nei settori delle biotenologie, della nutraceutica, della farmaceutica su base genetica, nanotecnologie, aerospaziale, etc. Insomma, si è dimenticato su cosa l’Italia ha fondato la sua ricchezza e si è preferito, prima di creare le condizioni per entrare in nuovi settori con più alto valore aggiunto, distruggere quello che c’era. Abbiamo perso dal 20% al 25% della nostra industria, ma gli economisti non sono ancora contenti. Parlano (Corriere della Sera di mercoledì scorso, pag. 41) di “rigidità del mercato dei beni … inefficiente utilizzo delle risorse umane”. Ma come fa un imprenditore a competere se parte già con un gap di prezzo del 20%? Non può. Infatti o apre all’estero o non fa nulla.
Jacopo Piletti
Alcuni settori vanno bene, mentre altri (di quelli nostrani) rendono veramente poco. Non dico di radere al suolo il settore alimentare ma pensare di sviluppare il settore chimico/farmaceutico e hightech come altri paesi, che sono altamente remunerativi no?
Marcello
Da semplice cittadino cerco di leggere e capire la situazione economica e politica in cui viviamo. Per questo motivo ascolto economisti pro e contro l’euro. I secondi non dicono che uscendo dall’euro e svalutando tutto tornerà magicamente bello e prosperoso. Al contrario dicono che non sarà una passeggiata, ma che le difficoltà saranno minori della morte certa e dimostrata della nostra economia oltre che della sovranità nazionale. Alcuni difetti del nostro paese sono evidenti e non sono a mio parere legati al costo del lavoro. I principali sono legati all’eccessiva burocrazia, alla giustizia civile e penale dai tempi eccessivamente dilatati, dal cattivo funzionamento del sistema bancario, dalla corruzione. Tagliare i costi del lavoro vuol dire tagliare reddito e quindi clientela per le aziende. Purtroppo invece ciò di cui si parla solamente è della riforma del lavoro, della riforma del lavoro, della riforma del lavoro, della riforma delle pensioni e della riforma del lavoro. Beh così non si va da nessuna parte. Quindi consiglio ai gentili autori dell’articolo di leggersi meglio i contro euro e di rintuzzarli più in profondità. Sarebbe molto utile.
gianfranco
sicuramente il problema è che tutto il sistema italia è sclerotizzato e non funziona, ma non capisco come fai a dedurre che la uscita dall’euro e la svalutazione risolvano magicamente questi problemi.
nextville
Non sono meccanismi razionali. Ad esempio i vedovi votano contro il governo più del campione di controllo, incolpandolo inconsciamente della loro infelicità privata per la morte del coniuge. E’ come il “piove, governo ladro”. Sono meccanismi psicologici che portano a colpevolizzare qualcuno o qualcosa della propria infelicità a prescindere da ogni dimostrazione di causa-effetto. Vale per l’euro oggi come valeva per gli ebrei negli anni ’30 dopo la grande crisi del ’29. Non a caso quelli che soffiano sopra sono sempre le stesse ideologie che riemergono dalle fogne della storia.
Marcello
Pensavo di essere stato chiaro. Uscita dall’euro e conseguente svalutazione non risolvono magicamente i problemi, ma ci mettono in una migliore condizioni per affrontare i problemi. Perché? Svalutando i nostri prodotti diventerebbero più competitivi mentre quelli esteri lo diventerebbero meno. Siccome il problema dell’Italia non è l’eccesso di debito pubblico ma la depressione del mercato interno, la svalutazione porterebbe a un maggior acquisto di merci italiane e quindi rilancerebbero i consumi interni. Un miglioramento del Pil con soldi che rimangono in Italia migliorerebbero anche il rapporto debito/Pil e ridurrebbero la pressione sui titoli di stato in una spirale virtuosa. Questo ci darebbe un po’ di fiato per migliorare anche le altre cose, tra le quali non c’è assolutamente il costo del lavoro e la sua maggiore flessibilità.
michele
No, i no-euro, furbi, nascondono questioni che potrebbero farti cambiare idea immediatamente. Non parlano del costo energia, come se il prezzo del barile potesse rimanere per sempre così basso, non parlano dell’aumento costo delle materie prime (spiegalo alle piccole-medie imprese), non parlano della diminuzione del potere d’acquisto dei salari, non parlano della futura qualità dei prodotti italiani, scadente, non parlano dei costi dell’indebitamento, destinati a salire, non parlano di future politiche pubbliche basate su spesa pubblica, come faceva la Dc solo per finanziare gli elettori e non parlano delle ritorsioni dei paesi che vedrebbero aumentare le loro importazioni a danno delle loro esportazioni, starebbero a guardare? Non parlano di questioni fondamentali, che ci toccano da vicino, perché altrimenti la gente non li ascolterebbe nemmeno.
Marcello
Veramente trattano proprio questo argomento perché è quello che viene più facilmente agitato dei pro-euro. Citano due esempi. Il primo è quando l’Italia assieme alla Gb usci dallo Sme, la seconda fu relativa alla forte diminuzione del valore dell’euro rispetto al dollaro che arrivò al 20-30%. In entrambe i casi l’impatto di simili svalutazione ebbe un impatto molto inferiore sull’inflazione. Circa la perdita di capacità d’acquisto, che tra le altre cose è già presente per tutti quei lavoratori che si vedono licenziare o si sentono richiedere una diminuzione di stipendio per le politica procicliche, non è avvenuta nelle precedenti svalutazioni già citate.
“non parlano dei costi dell’indebitamento, destinati a salire,”. Lo stato italiano può rinominare il debito nella nuova valuta. I titoli in valuta straniera già emessi sono solo il 3% del totale,
“non parlano di future politiche pubbliche basate su spesa pubblica, come faceva la Dc” faccio notare che quelli erano anni d’oro per l’economia italiana dove l’indebitamento era basso, riduzione della dissocupazione. Il debito nasce da una assurda politica di non acquisto sul mercato primario del debito da parte della BdI. Se lo avesse fatto, come lo hanno fatto molte altre banche centrali, il debito sarebbe molto più basso considerando anche che da almeno 15 spendiamo meno di quello che raccogliamo con le tasse prima del pagamento degli interessi su un debito artificiosamente tenuto alto.
Roberto
Complimenti per l’articolo, ottima spiegazione dell’effimero vantaggio che può portare una svalutazione della moneta dopo l’uscita (per me impossibile per altri fattori) dall’euro. Aggiungo che la riduzione del potere d’acquisto si riflette anche, e soprattutto, sulle materie prime importate dall’estero, in particolare quelle energetiche, vera mancanza dell’Italia e base fondamentale per la catena produttiva.
Alberto Chilosi
Mi sa che coloro che propongono l’ uscita dall’euro più che alla svalutazione del cambio reale pensino a una Banca d’ Italia assoggettata al potere politico (come prima del divorzio dell’ 81) che crei lire a volontà in modo da finanziare politiche di deficit spending che, nella loro visione, dovrebbero portare a incrementi del reddito reale senza eccessiva inflazione (è più o meno il contesto della croce keynesiana che si insegna nel primo corso di Macro, prima di parlare della curva di Phillips aumentata e delle aspettative). Apparentemente nei loro studi (eventuali) di economia loro sono rimasti lì.
nextville
Mi accorgo che al fondo c’è, nelle menti più semplici almeno, una confusione tra moneta e ricchezza. Cioè identificano le due cose, quindi: stampare moneta = creare ricchezza. That’s it.
Marco Disce
Dubito che il premio Nobel Joseph Stiglitz, critico verso l’indipendenza delle banche centrali, sia una “mente semplice”:
http://www.businessinsider.com/stiglitz-on-central-bank-independence-2013-1
nextville
Nel caso di Stiglitz c’è l’ideologia del deficit spending, a cui si riferisce Alberto Chilosi. Ma nelle menti semplici la confusione tra moneta e ricchezza è diffusissima.
Marco Disce
Ci sono due livelli di “menti semplici”:
– livello zero: confondono ricchezza con liquidità.
– livello uno: quelli che pensano che non possa mai esistere alcun tipo di correlazione positiva tra aumento di liquidità e aumento di ricchezza, e sbagliano (perché se le cose stessero come pensano loro un’economia basata sul baratto sarebbe tanto efficiente quanto una basata sulla moneta, la deflazione non costituirebbe mai un problema e non esisterebbero la “nominal wage rigidity” e gli “sticky prices”). Non ho mai visto nessuno appartenente al livello zero nelle discussioni di economia sul web, al contrario mi imbatto frequentemente in soggetti che appartengono al livello uno.
Luca
Sai, noi menti semplici non accettiamo tanto di buon grado il fatto che, quando era la lira a svalutare eravamo considerati degli imbroglioni, mentre, ora che lo fa il marco (l’euro tedesco) evitando di rivalutare il cambio nominale, approfittando del fatto che abbiamo tutti la stessa moneta, vengano considerati “virtuosi”.
Jacques Fayette
Buon lavoro da trasmettere a Marine Le Pen ad altri euroscettici che volgono ritornare al franco par salvare la Francia.
Luca
Meglio di no. In Francia non hanno bisogno di qualcuno che dica ai nostri cugini cosa è meglio per il loro bene.
nextville
Sono meglio attrezzati di noi contro i fascisti e gli sfascisti: nessuno ci fa alleanze.
Marco Disce
Li votano direttamente.
nextville
I fascisti/sfascisti in Francia non governeranno mai e le ultime elezioni amministrative le ha stravinte l’Ump.
Il Fn si è presentato in 600 comuni su oltre 36.000 (si suppone quelli in cui c’erano più chances di vincere) ne ha conquistati 13 mi pare.
Luca
“Il regime di cambio non influenza la crescita di lungo periodo”. Ottimo! Quindi, sapete darmi un buon motivo per il quale non dovremmo tornare alla lira?
Jacopo Piletti
Proprio per quello che hai scritto, si crede che la svalutazione sia una benedizione per risolvere i problemi nostrani quando è solo un palliativo, i nostri problemi sono altri.
Luca
Veramente, io avevo capito che doveva essere proprio l’euro a risolvere i problemi nostrani che invece, dopo tutti questi anni, sono ancora lì. Viceversa, ristabilire la flessibilità dei cambi, è solo un modo per risolvere, velocemente, e senza ulteriori aggravi per i lavoratori, gli squilibri macroeconomici infraeuropei causati dall’euro. Dovremmo avere imparato che l’approvazione delle riforme è un problema politico e non economico. E’ perfettamente inutile, anzi controproducente, affidarci al vincolo esterno. Nessun politico europeo è meglio di quello che tu stesso eleggerai nel tuo paese.
Marco Disce
Invece l’euro è una soluzione ai “problemi nostrani”?
nextville
1. Perché, come il resto dell’articolo spiega, l’euro e l’europa sono una “committment strategy”: un modo per costringersi a migliorare per restare tra i paesi di serie A, un modo per non accettare un destino da straccioni.
2. Perché a questo punto, dato che nell’euro ci siamo entrati, si tratterebbe di uscirne, che non è affatto come non esserci mai entrati! E qui entrano le altre questioni che questo articolo espressamente mette da parte ma ricorda: crisi bancarie, fughe di capitali, ritorsioni commerciali da parte degli altri paesi dell’area e altro.
Luca
Veramente fino ad oggi l’Europa è stato una specie di “fight club” in cui i paesi si sono scontrati l’uno con l’altro per ottenere vantaggi competitivi, tramite politiche fiscali e svalutazione del fattore lavoro. E non direi che questo abbia portato qualche vantaggio, per il vecchio continente, nei confronti dell’estero.
nextville
La zona euro ha un surplus commerciale enorme, nonostante l’euro forte, e tutti i paesi ora sono in surplus eccetto la Francia. Comunque la “committment strategy” vale in particolare in un’ottica italiana: non voglio nemmeno pensare a che livello di deficit staremmo senza i controlli di Bruxelles.
Massimo Matteoli
Ottimo articolo. L’impressione che si ha è che l’uscita dall’Euro sia vista come l’ennesima soluzione miracolosa per risolvere i guai del paese. Non è così e bisogna smettere di pensare che ci siano soluzioni facili. Purtroppo gli anti-euro all’illusione aggiungono danni ancora più gravi di quelli che vorrebbero risolvere. Pericolosi apprendisti stregoni a nostre spese.
Luca
L’uscita dall’euro risolve solo i problemi dell’euro che sono gli squilibri macro economici che esso stesso ha creato, a causa dei differenziali d’inflazione tra i paesi membri dell’area. I problemi politici di ogni singolo paese, Italia compresa, sono risolvibili solo dai cittadini che li abitano.
Maurizio Cocucci
Complimenti agli autori, un articolo che molto chiaramente sintetizza i punti principali e le soluzioni che si possono intraprendere, dove ciascuna è percorribile a patto che si conoscano le conseguenze.
Luca
Veramente, l’articolo confonde il problema politico con quello macro economico dell’euro. Se è vero che non c’è relazione tra il cambio e crescita nel lungo periodo, ancora di meno ce n’è tra moneta e riforme politiche.
Marco Disce
Gli autori ci dicono che la svalutazione ci permetterebbe di recuperare competitività, che questo sarebbe positivo ma d’altra parte non ci assicurerebbe la “crescita di lungo periodo”.
Perfetto. Quale sarebbe l’alternativa?
a) Non svalutare e rimanere “non competitivi” con l’euro? Bene: questo ci darebbe maggiori probabilità di avere una “crescita di lungo periodo”? Ovviamente no.
b) Non svalutare e renderci competitivi con la svalutazione interna (austerità)? Questo avrebbe un bel costo sociale ed economico (aziende che falliscono, gente licenziata, gente che perde accesso a servizi eccetera) ma ci darebbe maggiori probabilità di avere una “crescita di lungo periodo”? Ovviamente no.
Quindi? Che facciamo?
A meno che gli autori non stiano pensando ad un popolo di sussidiati in un ipotetica europa federale, l’idea che l’italia possa avere salari “al livello di quelli tedeschi” mi sembra fantascienza visto che i tedeschi hanno un vantaggio del 30% sul Pil pro capite. E poi chi l’ha detto che la moneta flessibile sia “una scorciatoia” per arrivare alla “serie A”? E’ una scorciatoia per riallineare le competitività, punto, del resto non si vede perché la strada per la “serie A” dovrebbe risultare più breve con l’euro (né gli autori si azzardano ad affermarlo).
Maurizio Cocucci
Magari puntando su prodotti tecnologici e/o peculiari. Invece che lasciare che i nostri ricercatori vadano all’estero a far fortuna alle imprese straniere, possiamo incentivarli a rimanere. Occorre renderci conto che settori ad alta concorrenza di Paesi emergenti come il tessile o il minerario non è più possibile sostenerli. Le aziende poi devono crescere, d’accordo piccole e medie imprese ma qui (in particolare nel nordest) siamo in presenza di microimprese che mai possono essere performanti come quelle di medie e grandi dimensioni, non fosse altro per un fattore di economia di scala. Altro aspetto è la eccessiva dipendenza delle nostre aziende dal sistema bancario, fattore che costa di più sia quando le cose vanno bene in termini di interessi e sia quando vanno male per una riduzione del credito. Questo dal lato delle imprese, poi da quello dello Stato è inutile ribadirlo visto che sono decenni che lo si fa. Tornare alla lira e svalutare ti può dare per un po’ respiro fatturando qualcosa di più all’estero (per chi ha prodotti da esportare!), ma intanto non crea posti di lavoro (se non temporanei) e poi non risolve il problema del cliente che manca: l’italiano.
Marco Disce
Vediamo di fare il punto della situazione:
1) La nostra domanda interna è scarsa perchè l’hanno distrutta i nostri governanti, in particolare Monti, con l’austerità.
2) Perchè è successo? È stato necessario distruggere la domanda interna ed indurre una recessione perché avevamo il saldo negativo nei conti con l’estero e dopo la crisi del 2008 quel saldo negativo non ci veniva più finanziato.
3) Perché avevamo il saldo negativo? Perché dal 2000 al 2008 abbiamo accumulato continuamente differenziali di inflazione con la Germania.
4) Perché quindi l’austerità? Perché l’austerità è il mezzo per realizzare la “svalutazione interna”: riduciamo la domanda per tenere bassa l’inflazione in modo tale che i salari (con l’aiuto della flessibilità e la disoccupazione in aumento) si riducono.
5) Che cosa c’entra tutto questo con l’euro? C’entra perchè con il cambio flessibile i differenziali di inflazione non avrebbero prodotto nessun problema: sarebbero stati incorporati nella variazione del cambio e la competitività dei prezzi sarebbe rimasta quella di partenza.
Conclusione:
Se ti preoccupi per la crisi di domanda non è coerente da parte tua difendere la moneta unica e temere il ritorno al cambio flessibile: è proprio la moneta unica che ci costringe a soffocare la domanda.
Luca
Ma se le Pmi devono crescere, ci conviene rimanere in un sistema che ha fatto esplodere il debito privato mediante bassi tassi d’interesse e credito facile?
Durante il periodo d’oro dell’euro, gli imprenditori italiani preferivano ottenere un finanziamento in banca al posto che investire capitale proprio. E questo li ha resi solo più vulnerabili.
Maurizio Cocucci
Le rispondo dividendo le categorie interessate. Per quanto riguarda le banche credo che abbiano imparato la lezione, oggi non penso vi sia un solo istituto di credito che conceda più mutui e prestiti alle imprese o alle famiglie con la stessa leggerezza di qualche anno fa. Poi con l’unione bancaria e le stringenti regole di Basilea questa possibilità sarà ancora meno probabile.
Le famiglie non potranno indebitarsi come prima proprio in virtù dei limiti al credito che saranno loro concessi.
Riguardo le imprese c’è da dire che dovranno rendersi conto che non è più epoca da micro attività, se non per casi o settori particolari (es.informatica) e mentre una volta molte attività nascevano da ex dipendenti che si mettevano in proprio, ora è venuto il momento di cambiare direzione, occorre aggregarsi o crescere al punto da giungere ad un adeguato punto di pareggio (break even point). Ridurre poi l’esposizione con le banche visto anche che il costo del denaro qui da noi è da sempre maggiore che in altri Paesi.
Personalmente posso fare un esempio che ho toccato con mano: il vetro artistico di Murano. Oggi questo settore è fortemente in crisi e decimato sia nel numero di vetrerie ancora attive che nel numero di chi ci lavora. Credo che siano rimaste poco più di una ventina di micro attività, la maggior parte con pochi addetti che non hanno sempre lavoro assicurato tutto l’anno. Eppure quello che producono è arte allo stato puro, però i costi sono elevati e molte vetrerie non hanno singolarmente la capacità di dotarsi di una adeguata rete commerciale visto che un prodotto così di nicchia necessita di un mercato molto ampio che copra tutti i continenti. Sono sempre stato dell’opinione che dovrebbero riunirsi in un’unica società dove ciascun attuale imprenditore diverrebbe socio. Poi al fine di ridurre i costi pensare anche di spostarsi sulla terraferma. Purtroppo il richiamo alla tradizione e una certa miopia nel non comprendere che il mondo è cambiato impedirà di seguire questa indicazione e il destino sarà inevitabilmente quello di assistere ad un ulteriore declino di questa espressione di arte italiana.
Guest
Condivido in toto. Soprattutto su aggregazione ed internazionalizzazione dei distretti di eccellenza.
Vari campanelli d’allarme tutti sempre, costantemente, inascoltati. Da decenni.
Simone rupoli
Non posso condividere: la struttura produttiva italiana è fatta in un certo modo e nemmeno 15 anni di euro (e ormai 18 di cambio quasi fisso, se si considera dal 1996) hanno cambiato le cose in meglio. La perdita di competitività è registrata da tutti gli indicatori e la soluzione più efficace e rapida è quella di adottare un nuovo cambio che consenta di importare meno e esportare di più. Pensare poi che imprese in crisi o già chiuse possano investire in ricerca e prodotti più tecnologici è ovviamente un paradosso. Le aziende italiane “medie” non sono Ferrari o altre di nicchie di eccellenza ma lavorano nel segmento medio del mercato con alta sensibilità al fattore prezzo. Ovviamente una svalutazione del 25-30% porterà un aumento di inflazione ma se questa passerà dallo “zero virgola” di oggi ad un ragionevole 3-4%, non sarà la morte di nessuno se ad essa si affiancherà una diminuzione della disoccupazione ed una ripresa del mercato interno (ed un miglioramento delle entrate fiscali dello stato e minori esborsi per ammortizzatori sociali). L’articolo segue il filone di pensiero che vede nel vincolo esterno rappresentato dal cambio fisso, il modo per “costringere” la struttura produttiva del paese a cambiare, ma direi che la storia ci insegna che l’Italia sta morendo e non cambiando.
Maurizio Cocucci
Le principali merci che esportiamo sono i prodotti petroliferi raffinati, i medicinali e preparati farmaceutici, seguono autoveicoli e componenti. Per questi settori non mi risulta che la variabile determinante la faccia il prezzo ma la qualità o comunque il rapporto qualità/prezzo. In termini di volume abbiamo registrato nel 2013 un dato simile a quello dell’anno precedente e ai massimi storici, quindi non capisco perché si parla di crisi dell’export. I Paesi dove esportiamo di più sono: Germania, Francia, Usa, Svizzera, Uk e quindi non vedo il presunto ostacolo derivante dall’euro sebbene sia d’accordo che sarebbe preferibile una moneta meno forte di almeno un 20%.
Il saldo commerciale 2013 è stato positivo per 30 miliardi di euro e al netto dei prodotti energetici sarebbe di 85 miliardi.
michele
E se nel frattempo aumenta il costo dell’energia, o ritorna la speculazione sui nostri titoli o paesi importatori dei nostri prodotti mettono dazi? Bisogna pensarci alle conseguenze….
gianfranco
La svalutazione è una scorciatoia per diventare più pezzenti: se svaluti vuol dire che vendi per meno soldi i tuoi prodotti e quindi il tuo lavoro
se svaluti vuol dire che ti costa di più quello che comperi. C’è solo un effetto ottico: hai gli stessi soldi nel portafoglio ma che valgono meno.
Marco Disce
Ho già illustrato quali sono le alternative alla svalutazione della moneta: a) svalutazione interna mediante austerità (come il sud europa dopo il 2008), b) mantenimento di prezzi fuori mercato con conseguente accumulo di debito estero a cui segue crisi (come il sud europa prima del 2008). Pensi che siano preferibili queste alternative? Ne vedi altre?
Guest
Con percettori di reddito fisso e pensionati che sentitamente ringraziano.
Marco Disce
I percettori ed ex percettori di reddito fisso in Portogallo, Grecia e Spagna non mi pare che se la stiano passando meglio con l’euro.
Guest
”Quale sarebbe l’alternativa”?
Rivoltare il paese come un calzino. Nessuna economia può andare avanti con 60 bn pa di corruzione stimata, 5 ‘ndrine, un sistema giudiziario inefficiente, un sistema burocratico e fiscale – volutamente – vischioso ed inefficiente, creati per perpetuare zone d’ombra.
L’Italia era G5. ORA G10. Colpa della moneta?
Ma come si fa ad essere cosi’ ciechi?
Contano i beni, servizi, prodotti, ciò che realizzi con il tuo lavoro Si comprano I migliori prodotti (a costo inferior/trade-off piu’ vantaggioso), non solo quelli che costano meno tout court. Altrimenti, compri quelli Cinesi.
Relazione finanziaria FIAT, 2012. cfr. pag. 49 s. Italia, redditivita’ da paese emergente..
http://www.fiatspa.com/it-IT/investor_relations/financial_reports/FiatDocuments/Bilanci/2012/GruppoFiat_Relazione_Finanziaria_Annuale_2012_ITA.pdf
Roberto Boschi
C’è un filone di studi molto concreto, di cui il prof. Daveri è uno dei principali attori, che ha chiaramente individuato significative relazioni negative fra eccessiva flessibilità salariale e produttività (il meccanismo è, intuitivamente logico: se il lavoro costa meno non ho bisogno di innovare e rimanere competitivo tramite investimenti, perché basta aumentare il fattore lavoro, ma così facendo si diminuisce la produttività nel lungo periodo). Quindi astrarsi da semplici ricette sulla svalutazione salariale. Che poi ci sia un legame fra produttività e regime di cambio c’è una precisa scuola di pensiero che lo attesta: il modello Dixon Thirwall (http://ideas.repec.org/a/oup/oxecpp/v27y1975i2p201-14.html). Il prof. Bagnai nei sui studi richiama più volte questo aspetto e l’evidenza dei dati (l’arresto della crescita e la successiva stagnazione della produttività dei fattori da metà anni ’90) sembra dargli ragione.
stefano cianchetta
In realtà abbiamo l’euro dal 1996: nel ’96 rivalutammo e praticamente fissammo il cambio con l’Ecu.
Curiosamente è a partire da quella data che la produttività rallenta vistosamente (per arrestarsi nel 2000 circa).
In verde la produttività del lavoro (Alp, average labour productivity). In rosso il tasso di cambio lira/Ecu (lire per Ecu), che dal 1999 diventa il tasso di cambio irrevocabile con l’euro: http://2.bp.blogspot.com/-Gmlhw93wCMQ/UYF1eSZcBPI/AAAAAAAAATk/oCrMZUPBlqk/s1600/Dec_04.JPG
Francesco Daveri si è occupato del problema: il declino parte nella seconda metà degli anni 90 ed interessa particolarmente il settore manifatturiero
“Although the sudden and abrupt zeroing of Tfp growth rates was generalized , this was particularly striking for agriculture and manufacturing. In these sectors, Tfp used to grow fast at the rates of, respectively, 2.8% and 1.7% per year, in 1980-95. This is startling for such a declining path manifested itself rather uniformly in the whole manufacturing sector, although slightly scattered around over time. In 1995-2000, labor productivity growth fell first and substantially in non-durable goods industries from 3.1% to 0.7%, while labor productivity for durable producers slowed down just a bit (from 2.7% to 1.7%). In the more recent years, productivity growth collapsed for durable producers as well (-2.7% in 2000-2003) and further slowed down by another percentage point for non-durable producers (from 0.7% to -0.2%)” Che successe all’improvviso all’industria manifatturiera dopo il 1996? Mistero
Gb
Dati falsati dall’emersione del lavoro nero?
Luca
Ma in che senso?
Claudio61
C’è ancora qualcosa di poco chiaro. Se la competitività di un paese è misurata dal parametro r (tasso di cambio reale), che si può scrivere come: r=ep*/p, è chiaro che r può crescere in due modi: o diminuendo p (i prezzi dei beni italiani scendono rispetto a quelli tedeschi, il che rischia di generare un impoverimento del paese perchè prezzi più bassi=salari più bassi o maggiore disoccupazione), oppure aumentando il tasso di cambio lira/euro (oppure facendo entrambe le cose ma questo aspetto non ci interessa). Quindi, sembrerebbe possibile, pur mantenendo costante il rapporto dei prezzi p*/p, aumentare la competitività di un paese svalutando. Aumentare la competitività del paese dovrebbe, se non capisco male, avere un effetto positivo sulla ricchezza globale del paese stesso perchè i beni prodotti diverrebbero più appetibili e quindi si riuscirebbe a piazzarne di più il che genererebbe un aumento della crescita. L’aumento della crescita, in mano ovviamente ad una classe politica capace e responsabile (!!!), porterebbe ad un aumento del tenore di vita e dell’occupazione il che quasi sicuramente avrebbe ricadute positive, a lume di naso, anche sul mercato interno.
Naturalmente sono perfettamente d’accordo con chi dice che con l’euro noi abbiamo perso un treno che ci è passato sotto il naso e che, se lo avessimo preso riformando il paese a suo tempo in modo intelligente anzichè aumentare a dismisura la spesa pubblica, adesso non ci troveremmo a discutere di questi argomenti (e le responsabilità sono ben chiare e ben ripartite a 360° a mio parere…). Mi chiedo però a questo punto, in questa situazione presente, nella quale non abbiamo più alcuna voce in capitolo in Europa e siamo costretti a subire vincoli che ci strozzano (e quando parlano di noi i rappresentanti degli altri paesi si guardano e ridono davanti alle telecamere), che cosa ci converrebbe davvero fare, fatto salvo che, se anche si decidesse di uscire dall’euro e svalutare (e forse a maggior ragione), sarebbe assolutamente necessario mettere mano subito e contemporaneamente a quelle riforme del sistema economico (flessibilità del mercato del lavoro, riforma del fisco ecc.) che dovrebbero rendere duraturi i benefici derivanti dalla svalutazione stessa, che da sola, e di questo sono assolutamente convinto, non potrebbe certamente risolvere i nostri problemi di crescita a lungo termine.
Se io fossi nel presidente del consiglio istituirei una commissione formata da cinque (non di più) economisti che in tre mesi elaborasse una strategia concreta e credibile di uscita dall’euro, dopodichè andrei in Europa e direi: “cari amici, noi non possiamo farcela alle condizioni che ci imponete. O ci venite incontro allentando i vincoli di bilancio (fiscal compact e quant’altro) oppure, pur essendo stati uno dei soci fondatori, noi usciamo dall’euro”. E poi vediamo se se la ridono ancora.
Salvatore
bello e interessante, ho letto tutti i commenti.
Purtroppo i problemi italiani, senza risolvere i quali potete scrivere tutto quello che volete, sono:
a) Corruzione per 60 miliardi di euro,
b) Criminalità organizzata che ne fa largo uso e che ha infettato gran parte del Paese
c) Classe politica corrotta e criminale (Dell’Utri? Berlusconi? Formigoni? Mastella? Tremonti? etc.)
d) Sistema Giustizia fatto apposta per non funzionare (altrimenti i sopraddetti sarebbero in galera da tempo)
g) Evasione fiscale per 150 miliardi di euro
h) Burocrazia fatta apposta per non far funzionare le attività (onde lucrare mazzette)
aggiungete voi il resto. Con queste premesse cambia qualcosa se c’è la lira o l’euro?
Marco Disce
Quelli sono problemi storici che l’Italia ha da 50 anni (con l’accortezza di ridimensionare quei 60 miliardi attribuiti alla corruzione che mi risultano essere una cifra infondata). Sono anche problemi che richiedono minimo una decina d’anni per essere risolti. Cambia qualcosa per questi problemi se abbiamo la lira o l’euro? Forse no ma c’è un altro problema adesso, più urgente, che non è solo italiano ma di tutta l’europa del sud e della Francia: la crisi economica, che ora si manifesta in una prolungata recessione e deflazione. Questo problema è molto poco collegato con quelli che hai elencato tu (visto che non riguarda solo noi ma è un problema strutturale della zona euro), e andrebbe comunque affrontato con una certa urgenza visto che ci costa molto in termini economici e sociali. Una soluzione a questo problema è (senza alcun dubbio) lo smantellamento dell’euro. Ci sono soluzioni alternative? Volendo sì però al momento sono irrealistiche e non possiamo permetterci di aspettare altri 10-20 anni in crisi. Una possibilità sarebbero i trasferimenti fiscali dalla Germania verso il sud (in una “unione federale europea” stile USA) ma sono ora politicamente improponibili. L’altra soluzione è trasformare il sud europa nella Germania, che però parte con un vantaggio sul sud di un 30-40% di PIL pro capite in più, dunque non è chiaro come/se/quando questo traguardo dovrebbe essere mai raggiunto: verosimilmente mai considerando che la Germania dell’est non ha mai raggiunto il livello dell’ovest in 20 anni e l’italia del sud non ha mai raggiunto il livello di quella del Nord in 150 anni. Quindi che facciamo?
Luca
La corruzione però non è compresa tra i costi nei bilanci delle imprese (salvo rarissimi casi). Poi, di solito, un sistema corrotto avvantaggia le grandi imprese che possono permettersi di pagare, non le Pmi su cui è fondata l’economia italiana.
Quindi, per quanto la corruzione debba essere combattuta a tutti i livelli, la lotta contro di essa non aiuta il paese a risolvere il problema di competitività, causato dai differenziali d’inflazione che l’Italia ha accumulato nei confronti dei paesi più competitivi dell’area euro.
Ric
Non si aggrappi ad una spiegazione non perfetta (vero i 60 miliardi, tutti da verificare tra l’altro, non sono nei bilanci) per arrivare all’assurdo: la lotta contro la corruzione non aiuta la competitività. Ma le pare che se un’impresa deve scegliere se investire in un paese corrotto oppure in uno sano sceglierà quello corrotto? La differenza di competitività è frutto di corruzione, troppe tasse, burocrazia, evasione, etc. e l’inflazione non è una cosa calata dall’alto per volere divino. Abbiamo accumulato differenziali d’inflazione proprio perché abbiamo queste palle al piede!
Marco Disce
“La differenza di competitività è frutto di corruzione, troppe tasse, burocrazia, evasione, etc. e l’inflazione non è una cosa calata dall’alto per volere divino. Abbiamo accumulato differenziali d’inflazione proprio perché abbiamo queste palle al piede!”
Non è così: è noto che c’è una correlazione inversa tra il livello di sviluppo e il tasso di inflazione, stati emergenti hanno inflazioni tendenzialmente più alte di stati maturi. L’effetto Balassa-Samuelson spiega anche le ragioni per cui succede questo. Non tutti i paesi dell’europa sono allo stesso livello di maturazione economica, alcuni sono più avanti e altri meno. E questo da solo è più che sufficiente a spiegare i differenziali di inflazione senza bisogno di chiamare in causa burocrazia e corruzione.
Luca
A me pare che tante aziende delocalizzino in paesi dove la corruzione sia ben più alta che in Italia.
Per quanto riguarda le tasse ha perfettamente ragione ma purtroppo l’Europa ci ha chiesto il pareggio di bilancio.
nextville
C’è anche da considerare il ruolo delle Global Value Chains nel ridurre l’importanza del cambio. Ad esempio vedi il paper di Altomonte pubblicato su Bruegel su “How is it possible that a euro strengthening against the dollar does not automatically hinder european exports?”
Exchange Rates and GVCs – beyond the conventional wisdom on competitiveness
http://www.bruegel.org/nc/blog/detail/article/1196-exchange-rates-and-gvcs/
Luca
Se ho capito bene, la risposta che suggerisce lo studio da lei menzionato, al fatto che il rafforzamento del cambio dell’euro sul dollaro non abbia influito negativamente sulle esportazioni europee, è che la frammentazione della produzione a livello internazionale ne ha attenuato gli effetti. Però, l’Italia è un paese la cui economia si basa su piccole e medie imprese, non su multinazionali con decine di stabilimenti in giro per il mondo. Questo, tra l’altro, è anche il motivo per cui le imprese italiane, non potendo approfittare dei vantaggi dati dai costi di scala, riescono a essere competitive anche grazie alla svalutazione. L’euro poi, non ha prodotto l’effetto di trasformare le nostre micro imprese in multinazionali, ma solo quello di renderle progressivamente meno competitive e più indebitate. Già perché, se introduciamo un sistema che privilegia il capitale di terzi, grazie ai bassi tassi d’interesse, come facciamo poi a pretendere che gli imprenditori ricapitalizzino le imprese con capitale proprio, invece di usare quello della banca?
nextville
Le imprese italiane, piccole o grandi che siano, che non vendono fuori della zona euro non hanno comunque problemi di euro troppo forte, hanno solo i vantaggi dell’euro forte nelle importazioni. Come si vede nella tabella 2.a dello studio linkato (Pure exporting firms by country and size) esse sono SMEs (= Pmi) all’89%. Al tempo stesso molte di queste Pmi lavorano per grosse imprese europee senza rischio di cambio, es. tipicamente molte Pmi del nord lavorano per imprese tedesche e sfruttano così la potenza di export tedesca. Quindi “un dibattito su come integrarsi meglio nelle catene globali del valore è oggi molto più importante di un dibattito sul cambio dell’euro”.Cito la parte finale: “This basic evidence allows us to claim that, even though SMEs are less prone to engage in global value chains and complex strategies, and thus in principle are more exposed to the effects of exchange rate fluctuations, their relatively limited share of the total export volume in any given country, as well as the Euro-orientation of 50% or more of their exports, are all additional factors that tend to further dampen the effects of a “strong euro” on the export volume of a country.
To sum up, in today’s global world, the relationship between exchange rate and competitiveness is in principle rather complex. Moreover, the evidence now available thanks to detailed firm-level data on the international activities of European firms (Efige) allows to cast more than a reasonable doubt on the overall effect of an exchange appreciation on the volume of exports of a given country.
Hence, a debate on how to improve efficiency, innovation and integration along global value chains of European firms would probably be more effective in driving competitiveness rather than a discussion on the levels of the exchange rate”.
Luca
L’articolo da lei proposto, mostra come la svalutazione del dollaro non abbia comportato delle ingenti perdite alle esportazioni europee, adducendo come motivazione la frammentazione della catena produttiva a livello internazionale. Tuttavia, le Pmi italiane, su cui si basa l’economia nazionale, non sono delle multinazionali con stabilimenti in tutto il mondo ma piccole realtà locali.
Luigi Di Porto
Le Pmi italiane, almeno quelle che ancora hanno successo, sono delle multinazionali che comprano, vendono e producono in tutto il mondo. Quelle che non hanno seguito questa strada sono fallite o stanno fallendo.
Luca
Si riferisce a chi ha delocalizzato?
nextville
E soprattutto sono integrate nelle catene del valore globale. Ad esempio le Pmi del nord italia lavorano moltissimo per la committenza tedesca: inserendo i loro componenti nelle produzioni tedesche sfruttano la formidabile rete commerciale globale della Germania (con la quale nell’euro non c’è rischio di cambio).
giulioPolemico
Quello che rilevo essere completamente sbagliato è affidarsi alla svalutazione della valuta, per vendere le nostre merci. Come dire: facciamo dei prodotti, magari anche mediocri, però tanto con la svalutazione della nostra valuta in qualche modo riusciamo a farli fuori da qualche parte.
Questo è un approccio totalmente sbagliato e fuorviante, che denota la tipica mancanza di serietà italica, nonché la più totale ignoranza su come funzionino i mercati. Non è con il trucchetto della continua svalutazione che si riesce a tenere in piedi l’economia di una nazione (a proposito: e se anche gli altri si mettono a svalutare? Facciamo il gioco infinito a chi svaluta di più?)
Inoltre si stimolano gli imprenditori a non migliorarsi, perché tanto con l’espediente della svalutazione aggiustiamo tutto.
Una persona di buon senso invece direbbe: facciamo prodotti di qualità, perché ce li apprezzano e ce li comprano.
Guardate oggi in Italia: la VW, anche in un mercato depresso come il nostro attuale, vende molto di più della FIAT. Perché? Perché anche in tempi come questi l’interesse per la qualità prevale.
È la qualità che fa vendere, non i giochetti di prestigio con la valuta.
Negli anni 60 – 70 i prodotti italiani erano molto apprezzati e ci hanno reso famosi non perché costassero poco, ma perché erano innovativi, di qualità, eleganti. Negli anni 60 sono stati il genio e lo stile italiano a farci vendere, non i rapporti di cambio della lira con le altre valute.
Piero
Se quando facevo l’università avessi sostenuto le tesi dell’articolo sarei stato bocciato, si vuole fare passare che il regime del cambio flessibile sia adottato dai paesi sottosviluppati, come l’America e il Giappone e l’Inghilterra, non si affronta il vero problema che nel mondo tutti i regimi di cambio fissi prima o poi hanno fallito, naturale che se vi è l’integrazione fiscale in Europa avremo l’euro quale moneta degli Stati Uniti d’Europa, ma ciò è un’altra cosa. Oggi abbiamo stati diversi legati da un contratto, devono adottare la stessa moneta, basta vedere la fine dell’argentino con il cambio fisso.
Dopo ognuno può dire ciò che vuole, vogliamo vedere la forza della Germania con l’esportazione verso i paesi extra-Ue? La loro forza sta negli scambi intra-Ue, in dieci anni hanno accumulato surplus per oltre 1400 miliardi, ricordo a tutti che sono trasferimenti dei paesi meridionali verso la Germania, ciò vuole dire più povertà nel meridione e più ricchezza nella Germania, cosa deve fare l’Italia? Deve ridurre gli stipendi da fame dei lavoratori, per vendere in Germania?
Alessandro Pagliara
Incondivisibile. Ma veramente l’euro è un modo per allineare l’area mediterranea alla “Germania”? Dall’articolo sembrerebbe che (come succede sempre con i deboli) la colpa è dei Paesi periferici!
Ma questo sarebbe vero se dall’Europa arrivassero riforme dello stato della serie: “Non puoi dotare le regioni di un piano paesaggistico” e poi non inserire le linee guida per costruire o demolire senza autorizzazioni nel loro rispetto”.
Non puoi avere un Quirinale che costi tanto, non puoi avere una camera doppia, non puoi avere un costo politico non allineato.
Le gare d’appalto devono seguire queste norme.
Le consulenze non possono essere richieste se hai personale interno…etc…etc…
Invece la Germania (come suo solito) sta cogliendo la palla al balzo per comportarsi da matrigna e non da mamma, rinchiude il figlio e lo lascia senza cena perchè non ha fatto i compiti invece di affiancarlo nel pomeriggio e aiutarlo.
Per un semplice motivo la matrigna vuole bene ai suoi figli non a quelli degli altri.
Via dall’euro a visione tedesca non c’è altra soluzione è solo questione di tempo.
Guest
Un ottimo – e davvero molto utile – editoriale. No a populismi (e Savonarola urlatori), specialmente se provenienti da personalità dalla preparazione culturale evanescente.
Luca
L’articolo conferma le argomentazioni dei no euro riguardo ai vantaggi di breve periodo della svalutazione. Per quanto riguarda il lungo periodo, invece, non fornisce alcuna ragione economica tale per cui il passaggio alla lira (o la permanenza nell’euro) dovrebbero incidere sul percorso politico delle cosiddette riforme.
Amegighi
Ne forniscono invece, di ragioni.
1. (Dati Eurostat): vedere la percentuale di Pil dedicato alla Ricerca e Sviluppo (R&S) in Germania (e Francia e UK) ed Italia (3%, obiettivo di Lisbona contro 1% scarso)
2. percentuale di fondi R&S di origine privata (industrie; circa il 60%)
3. numero di pubblicazioni scientifiche peer reviewed nel settore Scienza e Ingegneria (4° posto dopo USA, Cina, udite udite, e Giappone) (dati della National Science Fundation americana, principale finanziatore federale di Ricerca)
4. impatto della ricerca tedesca in termini di brevetti (Eurostat)
5. Organizzazione internazionale del sistema dei dottorati tedeschi (https://www.daad.de/deutschland/promotion/phd/en/)
6. Organizzazione delle Università tedesche e del reclutamento (quasi il contrario del sistema italiano e certamente ben differente dalla legge Gelmini)
7. Organizzazione delle Scuole tedesche e delle Scuole professionali
8. Livello delle Pmi. Molte sono imprese ad altissimo impatto tecnologico.
9 Elevato coinvolgimento pubblico nella Scienza e nella Tecnologia.
10 Sistema dei Max Planck Institutes come centri di ricerca nazionale, separati dalle Università e collegati ad incubatori di impresa.
Si potrebbe proseguire ad oltranza ma a noi rimangono le discussioni sulle cellule staminali, il metodo Di Bella, quello Stamina, l’importanza dell’Impero Romano (con contemporaneo disinteresse per Pompei, salvata in parte dall’Università di Monaco di Baviera), il caso Ippolito, l’affossamento del laboratorio di computer dell’Ingegner Olivetti che generò il Presario (il Governo non ci credette), la lotta tra differenti laboratori o università, i nostri ragazzi migliori che se ne vanno e così via. E pensare che la Ferrari, che tutti amano e ammirano, applica proprio al 100% ciò che fa la Germania. Ma non ce ne accorgiamo.
Guest
La ringrazio per la ‘glossa’ all’articolo, il cui scopo, e significato, mi sono perfettamente chiari.
nextville
L’articolo spiega che non c’è vantaggio (nemmeno di breve periodo) in una lieve svalutazione del cambio che non si possa ottenere con la svalutazione interna, mentre una svalutazione del cambio pesante provocherebbe inflazione. Per quanto riguarda il lungo periodo è nodo che la svalutazione fa danno all’economia perché crea incentivi sbagliati.
Quanto alle riforme economiche per alzare la produttività totale dei fattori, l’euro, togliendo alla politica la possibilità di coprire le inefficienze con svalutazione e deficit spending, la costringe a fare i conti con la realtà. Ma il problema è che i conti con la realtà devono cominciare a farli gli italiani, dato che la cattiva politica in democrazia dipende da cattivi elettori.
michele
Le argomentazioni dei no-euro vanno da: “con la lira non ci sarà più disoccupazione” a “con la lira cresceremo come la Cina”. L’articolo invece spiega chiaramente che la strada della svalutazione competitiva può portare o svantaggi (perdita potere d’acquisto e inflazione) o scarsi vantaggi, come un aumento del Pil, nel brevissimo periodo, di 1 punto di Pil che porterà le aziende a non puntare su qualità e produttività. Comunque è importante la premessa… Al netto di tutti gli shock che potrebbe portare nei mercati e nei cittadini il ritorna alla vecchia moneta.
josef sezzinger
Resta comunque sul tappeto la questione di una Politica Fiscale penalizzante per imprese e lavoratori: in primis l’IRAP, poi l’IMU sui beni strumentali delle aziende e il cosidetto cuneo fiscale.
A quanto pare però l’argomento, di porre le aziende italiane in condizioni di parità rispetto alle concorrenti estere, non pare essere di molto interesse presso Il Ministero dell’Economia, vedi TASI & Co.
Pensano solo a come rastrellare più risorse possibili, salvo poi durante i vari Convegni esporre altosonanti e meditate critiche al Sistema Italia.
Sarebbe interessante vedere alcuni di questi economisti all’opera nel mondo reale, passando dalla economia teorica alla pratica del rapporto quotidiano con un’Amministrazione Pubblica Fiscale di tipo leonino.
L’Euro non è il male assoluto ma ha irrigidito i rapporti in vincoli economici sempre più stretti e talvolta non sostenibili economicamente.
marcello
Non capisco se il tema dell’articolo è il valore relativo dell’euro o la permanenza nell’eurozona. Le due cose sono sostanzialmente diverse e non possono essere confuse. La domanda, se il titolo dell’articolo non è casuale, dovrebbe essere: è il valore dell’euro troppo elevato in rapporto alle valute dei competitor extra continentali? La risposta è si: l’euro è sopravvalutato in rapporto a dollaro, yen e sterlina, non parliamo della valuta cinese. Quali sono le cause di questa sopravvalutazione è talmente evidente che non vale la pena discuterne (forse l’austerità espansiva ha una qualche responsabilità?), tuttavia gli effetti sui paesi dell’eurozona non sono equivalenti. L’articolo rimanda a un’analisi delle performance di Italia e Germania le due manifatture dell’Ue. L’articolo sottovaluta il problema dei tassi di conversione iniziali delle valute nazionali e sottovaluta il problema dell’impossibilità dell’adeguamento del tasso di cambio che si era osservato viceversa durante lo Sme e che per il nostro paese era stato molto significativo. Infine è vero che l’Ue rispetto agli Usa conosce dagli anni ’90 un ritardo nella crescita della produttività dei fattori e degli investimenti in beni intangibili, imputabili non solo alla diversa rilevanza degli investimenti in R&S (2% del Pil contro il 3,5%), ma soprattutto ai ritardi nell’introduzione dell’innovazione italiana nella manifattura. Tuttavia la differenza tra Italia e Germania la fa, a mio parere, la struttura della catena del valore, che a parità di grado di outsourching e offshoring, è molto più molto più orientata in paesi extraeuro per la Germania, e quell’aberrazione dei mini-job (1/4 della fl tedesca) resi possibili dall’unificazione. Queste due condizioni hanno rappresentato la possibilità, pur in presenza di un tasso d’investimento inferiore a quello italiano, di erodere crescenti quote di mercato internazionale. Per tornare alla domanda iniziale, sicuramente una svalutazione dell’euro (1,39 sul dollaro distrugge l’economia) sarebbe non solo benefica nel breve periodo per l’economia italiana e in parte permetterebbe quel riaggiustamento impedito dalle parità fissate dalla Germania, ma consentirebbe di riavviare quei processi d’innovazione e investimento su cui ormai molti ritengono non rinviabili.
Asterix
Portare i salari a livello dei tedeschi, ma quali tedeschi?? quelli che lavorano con i mini job (lavori saltuari che hanno prodotto una marea di precari vicini alla soglia di povertà: ormai lo affermano molti osservatori in Germania) o i lavoratori a tempo determinato di alcuni settori che hanno azioni delle loro stesse società (ma che rappresentano una fascia sempre minore dei contratti dei lavoratori tedeschi). La svalutazione del cambio produrrebbe un minor potere di acquisto dei lavoratori italiani invece i mini jobs lo hanno aumentato e i futuri contratti acasuali fino a 3 anni + ulteriori 3 anni con contratto unico prima di arrivare al tempo indeterminato lo aumenteranno? Ma vi rendete conto che se la classe media italiana o europea diventa più povera con la politica delle svalutazioni reali dei salari adottate in Germania, Spagna Italia ci stiamo suicidando? Più poveri, meno consumi più imprese falliscono, più poveri. Devono tornare Comunismo e Fascismo per farvi capire che questo modello di sviluppo non crea benessere per tutti ma va solo a favore del 5% più ricco che vive di rendita e non di lavoro e impresa?
Maurizio Cocucci
Ancora con questa storia dei minijobs? Capisco che la disinformazione su di essi è notevole però oramai l’argomento è stato anche chiarito da più parti. I lavori occasionali con contratti atipici sono sempre esistiti, in Germania questa tipologia è presente dal 1977, però fino alla riforma del 2003 avevano tassazione e contributi equivalenti a quelli ordinari e per questo venivano poco utilizzati e in questi casi si preferiva pagare “in nero”. Dato che in Germania è presente un sistema di sostentamento al reddito che garantisce una indennità minima a tutti i disoccupati (da noi ancora ahimè sconosciuto se non temporaneamente e limitato ai lavoratori dipendenti) molti percepivano un reddito all’oscuro dell’ufficio del lavoro il quale versava l’assegno pieno. Facile comprendere come a molti disoccupati non andasse così male la situazione. Il governo Schröder ha così ridotto sia la aliquota contributiva (tanto che pensione puoi garantirti con meno di 500 euro al mese?) che quella fiscale, in questo modo al datore di lavoro non conviene incorrere in sanzioni per risparmiare un 15% circa di quanto dovuto e questi redditi vengono detratti dall’assegno di disoccupazione con conseguente risparmio per le casse federali.
Continuo a non capire perché si faccia spesso riferimento a questo genere di lavori in quanto anche avendo un semplice diploma di scuola superiore e poca professionalità credo si aspiri a trovare comunque un lavoro regolare, anche a tempo determinato, piuttosto che servire birra per qualche ora la settimana in qualche birreria. Difatti due terzi di coloro che hanno un minijob sono donne che sfruttano questa possibilità per conciliare famiglia e lavoro part-time (la maggior parte dei minijob è caratterizzata da meno di 15 ore settimanali). Poi vi sono molti studenti per pagarsi gli studi universitari e pensionati per integrare la pensione (che in Germania è da sempre basata sul sistema contributivo) con qualche ora settimanale.
Asterix
I mini jobs sonno presi come riferimento perché in Italia, come saprai, sono pochi i laureati e la maggior parte dei lavoratori hanno un semplice diploma di scuola superiore con redditi intorno ai 1.000 euro (in realtà anche alcuni laureati non arrivano a 1.500 euro). Dare la possibilità di non stabilizzare questi lavoratori (che ti ripeto rappresentano in Italia, ma credo anche in Germania la stragrande maggioranza dei lavoratori dipendenti) vuole dire mantenere una fascia media della popolazione nel precariato. Come puoi pensare che incrementino i consumi se queste persone vivono in una condizione che non gli permette di chiedere un prestito (non dico per la casa, ma anche solo per il consumo)?. Io laureato e con contratto a tempo indeterminato per un prestito per l’acquisto di una auto mi hanno chiesto garanzie e controlli assurdi, immagina se avevo un contratto a tempo determinato di 4 mesi, al 4° rinnovo…
nextville
Indicaci un paese da prendere come modello, in cui i lavoratori dipendenti stiano decisamente meglio che in Germania in termini di salari, potere d’acquisto e garanzie (e che non sia un paese sull’orlo della bancarotta per l’insostenibilità del modello stesso). Perché se invece parli di qualche Utopia ideale che non sta da nessuna parte allora interessa di meno.
Continuo ad avere l’impressione che si attribuisca all’euro la “colpa” di fenomeni come globalizzazione, delocalizzazione, automazione, ecc. Cioè siamo alla nostalgia di un piccolo mondo antico che non può tornare più, in nessuna moneta.
Marco Disce
La Germania ha il 30% di PIL pro capite in più rispetto all’Italia, per “portare i salari italiani al livello dei tedeschi” dovremmo crescere del 30% con la Germania che resta ferma, o dovremmo crescere del (30+x)% dove x è il tasso di crescita della crescita della Germania. E secondo gli autori dovremmo realizzare questo sorpasso con una valuta (l’euro) sopravvalutata per noi e svalutata per la Germania (e pure rimanendo col bilancio fiscale in attivo come impongono i trattati). Fantascienza.
Ric
Veramente un ottimo articolo. Grazie.
Antonio Gasperi
Il modello utilizzato dagli autori è incontestabile, l’analisi degli scenari elegante. Aggiungerei due elementi al modello: 1) settori esposti alla concorrenza estera e settori protetti 2) possibilità di rinegoziare il fiscal compact. Forse così la necessità di mantenere l’euro lottando perchè cambi la politica di bilancio europea appare chiara.
Simone rupoli
Scusate ma se uno ha una seria polmonite prende gli antibiotici, no? Non ha molto senso chiedersi se poi gli antibiotici non possano essere presi nel lungo termine; uno li prende, guarisce e poi li abbandona : questo dice il buon senso! Invece chi crede ancora all’Euro ci dice che no, non si devono prendere gli antibiotici anche se stai per morire perché poi – se li prendi sempre in futuro – ti porteranno altri problemi. Ma che logica è? Chiaro che non si possono prendere antibiotici tutti i giorni, come è chiaro che se questi ti possono guarire dalla polmonite, nulla potranno fare se hai – chessó – una frattura ad una gamba; il punto è che non ha senso dire che dobbiamo restare nell’Euro perché le svalutazioni non si possono adottare nel lungo termine. Chiaro che l’Italia ha tanti problemi che non derivano dall’euro, ma l’Euro è un problema in più, e grosso, perché ormai è dimostrato che la nostra competitività è compromessa e dobbiamo per forza recuperarla uscendone, noi e forse altri paesi nelle nostre stesse condizioni. Presto, prendiamo l’antibiotico prima che sia troppo tardi: non si è mai visto la penicillina resuscitare i morti!!
Piero
Condivido, sicuramente l’esempio è calzante, però se leggiamo i giornali, gli economisti tutti plaudono Draghi che ha debellato l’inflazione, si dicono che si deve stare attenti alla deflazione, però alla fine danno un giudizio positivo su Draghi.
Secondo una lotta all’inflazione per avere una moneta forte (dogma dei tedeschi) non è difficile, basta non aumentare la liquidità, si affannano le aziende, chiudono, aumenta la disoccupazione eccc,; in questo modo è facile lottare contro l’inflazione, penso che se Draghi non si smarca dalla Merkel subito la rottura dell’area valutaria diventa inevitabile, la mia paura è’ che sul campo lasciamo troppi morti.
Maurizio Cocucci
La Banca Centrale Europea è un organismo indipendente dai poteri politici, sia da quelli italiani che tedeschi, alla quale le sono stati affidati dei limiti e un obiettivo principale: la stabilità monetaria. All’interno però di questi vincoli la banca centrale è del tutto indipendente e le decisioni principali le prende il Consiglio dei Governatori, il quale è composto da 6 membri del board esecutivo e dai governatori o presidenti delle banche centrali di ciascuno dei 18 Paesi membri dell’eurozona, quindi per l’Italia non il presidente Renzi ma il governatore Visco e per la Germania non la cancelliera Merkel ma il presidente della Bundesbank Weidmann. I sei membri del board esecutivo sono: un italiano (Draghi – presidente), un portoghese (vice-presidente), un francese, un tedesco, un lussemburghese e un belga. Come vede la cancelliera Merkel non c’entra proprio nulla e la rappresentanza tedesca può avere influenza politica forse ma non certo effettiva visto che le decisioni vengono prese a maggioranza qualificata.
Considerando che nel board esecutivo il membro più influente è il presidente Draghi, italiano, e se vogliamo in parte anche il suo vice, un portoghese quindi appartenente ai Paesi mediterranei, vediamo di non fare sempre quelli che si piangono addosso addebitando responsabilità inesistenti ad altri.
Piero
Purtroppo a questa ricostruzione oramai non ci crede più nessuno, nemmeno i mercati.
nextville
Lo so che non te ne sei ancora accorto, ma i mercati a Draghi credono persino solo sulla parola (“whatever it takes”=per ora Omt), senza nemmeno bisogno di azione. L’altro giorno sentivo James Shugg parlare di “magic dust” di Draghi, che riesce a tenere a bassi i tassi dei bond portoghesi che sono rated junk. ( http://bloom.bg/1hFbmDx ): i mercati si fidano perché si aspettano che Draghi risolva tutto, dice Shugg. Per gli investitori non manca certo la credibilità della Bce nel proteggere questi paesi, manca la determinazione di alcuni governi nazionali a riformarsi, come è stato finora per Francia e Italia.
E’ quello che molti in Italia non capiscono: la soluzione non è chiedere all’Europa di fare chissà che altro, è rimboccarsi le maniche per coltivare il proprio giardino.
Piero
Non è difficile sostenere il debito statale affamando il popolo, la corda non può essere tirata all’infinito, in Italia ha provocato danni economici superiori ad una guerra. In ogni caso non è vero che i mercati credono a Draghi, il giorno successivo all’annuncio i mercati hanno capito che non vi sarà nessuna iniezione di liquidità. Per quanto concerne lo spread, abbiamo uno spread basso per gli avanzi del bilancio statale, avanzi ottenuti con la politica di bilancio. Si deve preferire o la vita delle persone o la valuta: sembra che tutti i nostri governi abbiano preferito la valuta.
Daniele
Il fatto di citare le nazionalità dei membri del board della banca centrale (in numero talmente limitato poi) e spacciare tale nazionalità come prova di un comportamento in linea con l’interesse dei paesi di provenienza è una sciocchezza che può essere smontata con poco. Se è questa la logica seguita anche dal grande publico non è sorprendente capire il perchè della nostra permanenza nell’euro.
nextville
“Se uno ha una seria polmonite” prende gli antibiotici (la cura giusta) e non l’eroina (una droga che non cura): non solo perchè l’eroina lo danneggia nel lungo periodo, ma anche perchè non cura la malattia e se allevia il sintomo fa ancora più danno, ritardando l’adozione della cura giusta!
La malattia italiana non è affatto l’euro, la malattia italiana la vedi perfettamente descritta in tutte le classifiche che mostrano:
1. che è uno dei paesi meno “business friendly” tra quelli avanzati per peso burocratico, fiscale, lentezza giudiziaria, rigidità del mercato del lavoro, disfunzionalità e corruzione nelle istituzioni e nella politica.
2. che gli italiani stanno al fondo delle classifiche europee per capacità di comprensione di un grafico o di un testo scritto, altro che miraggio del “piano impiego”.
michele
No, il paragone non regge. Quello azzeccato: Il ritorno alla lira significa amputarsi la mano per un dolore al dito sperando che dopo ricresca.
Luca
La Grecia, ad esempio, di dolore sta morendo.
Poi, è l’euro che ha amputato qualcosa ai paesi aderenti. La possibilità di fare una politica monetaria autonoma.
nextville
Che prima dell’euro ci fosse sovranità monetaria è una pia illusione: quando la Bundesbank modificava i tassi tutte le altre banche centrali europee erano costrette a seguire se non volevano veder precipitare la loro moneta. L’unico paese che con l’euro ha perso sovranità monetaria rispetto a prima è la Germania!
priorville
“Perso sovranità monetaria rispetto a prima”? Ah ecco perché la Bce è a Francoforte e fa così spiccatamente gli interessi di Grecia, Irlanda, Portogallo, Spagna ed Italia (e fra poco Francia, Finlandia ed Olanda).
nextville
La Bce è persino finita davanti alla Ecj perché accusata dalla corte costituzionale tedesca di aver aiutato il finanziamento di questi paesi con l’Omt. E l’Omt, che ha portato i nostri tassi ai livelli attuali e persino la Grecia a tornare ad emettere bond… , è stato approvato 22 contro 1, cioè contro il voto del governatore della Bundesbank. Del resto degli attuali 24 membri del Governing Council (l’organo che prende le decisioni di politica monetaria) solo 2 sono tedeschi.
nextville
Basta che guardi come sono scesi i rendimenti dei bond di questi paesi (Grecia, Irlanda, Portogallo, Spagna ed Italia) dall’OMT ad oggi. Dico l’OMT, quel programma approvato il 6 settembre 2012 dal consiglio direttivo della BCE: 22 contro 1, unico contrario il governatore della Bundesbank.
Andrea Colagiacomo
“L’enfasi sull’investimento e sulla ‘crescita economica’, piuttosto che sulle politiche occupazionali, è un errore. Un’economia di pieno impiego è destinata ad espandersi, mentre un’economia che punti ad accelerare la crescita attraverso gli investimenti privati a elevata intensità di capitale non solo potrebbe non crescere, ma potrebbe essere sempre più iniqua nella distribuzione del reddito, inefficiente nella scelte delle tecniche, e instabile nel suo generale andamento”. (Minsky)
nextville
L’URSS era una economia di pieno impiego.
E, forse, si sta ancora espandendo in qualche universo parallelo.
stefano cianchetta
Universi paralleli.
L’Uem al contrario è una economia deflazionista e tenderà a contrarsi fino ad divenire una minuscola “singolarità” (con emissione di prodoni) e a quel punto avremo un nuovo big-bang
http://it.wikipedia.org/wiki/Big_Bounce
Uscendo dall’euro invece (ma questo è impossibile visto che l’universo è chiuso) rischieremmo una nuova fase di “inflazione cosmica”
http://it.wikipedia.org/wiki/Inflazione_(cosmologia)
Nell’Urss in effetti si era certi di due cose: che non funzionava e che non sarebbe mai crollata, mentre nell’Uem è vero l’inverso!
Marco Disce
Non mi risulta che l’economia degli stati dell’Urss abbia sperimentato una svolta particolarmente positiva dopo il cambio di paradigma:
http://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/1/11/Soviet_Union_GDP.gif
nextville
Dal 1999 ad oggi l’Italia ha perso meno quote di mercato globale di UK (che non ha l’euro)? D’altra parte in UK, non essendoci l’euro con cui prendersela, il malessere sociale viene ugualmente convogliato contro l’europa (dall’UKIP), mentre la confindustria UK si sgola a spiegare che uscire dal mercato unico sarebbe un disastro.
Ma non serve a nulla: si tratta di fenomeni irrazionali, che hanno spiegazioni psicologiche e non economiche.
Quando agli squilibri interni a vantaggio della Germania, si sono ormai molto ridotti, senza che la Germania abbia smesso di essere una potenza da export:
http://noisefromamerika.org/articolo/che-fine-hanno-fatto-squilibri-commerciali-area-euro-altri-dati
Ma ovviamente gli stessi argomenti sugli squilibri interni alla zona euro andrebbero poi riproposti per quelli interni agli stati nazionali, che non sono affatto minori. Ad es. tra nord e sud d’Italia.
Marco Disce
“Dal 1999 ad oggi l’Italia ha perso meno quote di mercato globale di Uk (che non ha l’euro)? D’altra parte in U,, non essendoci l’euro con cui prendersela, il malessere sociale viene ugualmente convogliato contro l’europa (dall’Ukip)”
Cioè la popolazione Uk sarebbe scontenta per aver “perso quote di mercato globale” anche se questo non ha avuto nessuna incidenza sul tasso di disoccupazione che è fermo al 7%?
nextville
“Non capisco se il tema dell’articolo è il valore relativo dell’euro o la permanenza nell’eurozona.”
Chiaramente la seconda.
Pedruluisu Murru
Ma quali sono le riforme che servono al paese? Attualmente le uniche che si vedono vanno contro i lavoratori, quelle Istituzionali non si sono ancora viste. Ed allora parliamo di cosa bisogna riformare giusto per portare i discorsi accademici alla realtà di tutti i giorni.
Cogito ergo sum
Gli autori non lo dicono, ma le riforme che servirebbero per guadagnare competitività all’interno della moneta unica sono quelle che la Germania ha fatto nel 2003 con il ministro Hartz (http://it.wikipedia.org/wiki/Piano_Hartz) che, in buona sostanza, rendono il precariato la regola e non l’eccezione, con l’intento di diventare competitivi riducendo il costo del lavoro (svalutazione interna tramite damping sociale). Con la non trascurabile conseguenza di deprimere la domanda interna. Quando l’Europa ci chiede di diventare competitivi, ci sta chiedendo proprio questo.
nextville
Ci chiede di fare come la Germania, certo. Sai che triste destino. Devi dirci però in quale posto al mondo i lavoratori stanno meglio come salari e garanzie che in Germania.
Cogito ergo sum
Non mi risulta che questo sia vero, allo stato attuale, in maniera generalizzata tra i lavoratori tedeschi, anche se può esserlo per l’operaio della Wolkswagen. Dopo le succitate riforme, la norma è diventata quella del lavoratore atipico che cumula 3/4 minijob (a 3-400 euro mese l’uno) che non hanno tutele particolarmente elevate. Tra l’altro, per poter fare accettare questa situazione, la Germania ha dovuto implementare un sistema di ammortizzatori sociali che l’ha portata a sforare alcuni parametri europei riguardanti la spesa pubblica.
Pedruluisu Murru
Non dubito che il loro fine sia quello, ma perché non lo dichiarano apertamente? Nascondendo le reali intenzioni si stanno già distaccando dal modello tedesco.
Cogito ergo sum
Semplicemente perché è politicamente improponibile (almeno in Italia) dire alla popolazione di ridurre il proprio tenore di vita per favorire i grandi capitalisti. Non so come abbiano fatto in Germania, ma credo di non sbagliarmi se affermo che non fu messa proprio in questi termini.
Maurizio Cocucci
Premesso che Peter Hartz fu un consigliere e non un ministro, il suo pacchetto di riforme non ha per nulla comportato il precariato e prima che mi risponda con il diffuso luogo comune dei minijob le rispondo già che questi c’erano già dal 1977 e che non precarizzano nulla in quanto già sono forme contrattuali che riguardano solo lavori occasionali. Ha presente il nostro “rapporto di collaborazione occasionale” introdotto dalla Legge Biagi? O in qualche misura i nostri Co.Co.Co ma con vincoli maggiori? La realtà è che non solo il numero di contratti a tempo indeterminato in Germania è percentualmente superiore rispetto a noi ma dalle riforme Hartz il numero è aumentato di 2,5 milioni, senza contare che le retribuzioni sono mediamente superiori alle nostre, tranne i compensi di parlamentari, ambasciatori e dirigenti di aziende pubbliche.
Cogito ergo sum
Effettivamente non mi sono mai curato di scoprire a che titolo Hartz ho patrocinato le riforme che portano il suo nome, quindi la definizione di ministro è un mio errore.
Per quanto riguarda il resto risponde EUROSTAT: i “contratti a tempo indeterminato” nascondono la maggiore quantità di sottoccupati sia in termini assoluti, che in termini percentuali sul totale degli occupati.
E’ innegabile che le retribuzioni sono mediamente più alte delle nostre (il PIL pro capite, anche a parità di potere d’acquisto lo conferma senza possibilità di smentita); tuttavia è altrettanto innegabile che la distribuzione del reddito è talmente asimmetrica che una buona parte dei neo assunti campano con i sussidi statali (fonte: http://www.ilsussidiario.net/News/Economia-e-Finanza/2014/4/12/IL-CASO-Cosi-le-riforme-alla-tedesca-hanno-impoverito-la-Germania/490467/)
Maurizio Cocucci
Premesso che la Germania non è il bengodi, le statistiche se non accompagnate da una relazione più completa spesso forniscono delle informazioni sommarie e possono portare a conclusioni errate. La tabella Eurostat mostra l’esito di un sondaggio (prima parte) che lascia il tempo che trova, poi la quota dei contratti part-time sul totale degli occupati (seconda parte), ma non dimostra la distribuzione del reddito che invece viene rappresentato da altri indici (ad esempio quello di Gini) e questi confermano tutti che a prescindere dalla composizione dei contratti (tempo pieno e parziale) la distribuzione dei redditi in Italia è peggiore che in Germania.
Dall’ultima colonna sembra che il mercato del lavoro in Italia sia migliore che in Germania perchè la percentuale dei contratti a tempo parziale è inferiore. Lo stesso si potrebbe dire per la Grecia, con solo il 7,7% di contratti a tempo parziale sul totale, rispetto alla Danimarca che ne ha ben uno su quattro. Lei allora preferirebbe cercare lavoro in Grecia piuttosto che Danimarca? O in Bulgaria che ha la quota minore? Per quanto riguarda l’articolo mi piacerebbe chiedere alla giornalista austriaca Patricia Szarvas se riesce ad individuare non tanto un modello migliore di quello tedesco, che ci può essere sicuramente, ma uno che può giudicare ottimale.
Andrea
1) l’euro è stata una “forzatura politica”. Se è vero che la verità sta nel mezzo, si dovrebbe valutare la possibilità di avere un euro “a due velocità”. Uno per i Paesi del Sud Europa (e come primo step per entrare nell’Euro), ed uno per il Nord Europa. Difendere ad oltranza le proprie decisioni è un errore della mente umana;
2) di sola svalutazione non si cresce. Mi verrebbe da dire: “ma va?!”;
3) “una scuola che non prepara adeguatamente i giovani al mondo del lavoro”. Secondo me, la scuola dovrebbe insegnare ad usare il proprio cervello, puntando alla flessibilità. Il lavoro, scusate, ma spetta alle aziende insegnarlo (e a formare continuamente).
Saluti.
enrico motta
L’euro ci è stato e ci sarà utile o dannoso? Non lo so. Però osservo un esperimento in atto nella storia europea: tre piccoli (per popolazione) paesi scandinavi, Danimarca, Svezia e Norvegia non hanno l’euro, mentre un paese abbastanza confrontabile con loro almeno per popolazione, cioè la Finlandia , ha l’euro.
Enrico C.
Non capisco perché, nell’articolo, recupero di efficienza e cambio flessibile sono poste come alternative l’una all’altra. In realtà non lo sono e qui non vediamo i risultati di uno scenario con cambio flessibile e economia efficiente, né vediamo il risultato previsto in caso di cambio bloccato ed economia inefficiente etc.
nextville
Perchè il recupero di efficienza che dà una svalutazione del cambio lieve lo dà una svalutazione interna (tasso di cambio reale: r = e p*/p, vuol dire che il tasso di cambio reale è altrettanto modificabile con l’abbassamento dei prezzi interni – o meglio con la riduzione del loro aumento). Ma, basta guardare i programmi dei no-euro: l’idea non è affatto una svalutazione lieve, ma addirittura rimettere in discussione l’indipendenza della banca centrale per farle stampare moneta a go-go in stile argentino. E questo precisamente per poter evitare di fare le riforme necessarie a recuperare competitività.
E soprattutto l’articolo si focalizza su questa sola questione, tralasciando esplicitamente le conseguenze devastanti che una uscita unilaterale dall’euro avrebbe per noi, a partire dal default certo del sistema bancario!
Piuix
L’articolo essenzialmente dice: se hai il diabete e la polmonite è inutile che prenda gli antibiotici per la polmonite, che tanto poi ti resta il diabete.
nextville
No, dice che le droghe (monetarie) non curano né diabete né polmonite, ma portano semmai a sottovalutarle e a non curarle, alleviando temporaneamente il sintomo e debilitando l’organismo.
Asterix
Perché oggi si chiede che la Bce riduca il tasso per svalutare l’euro rispetto al dollaro per far ripartire le esportazioni europee, mentre quando lo facevano con la lira era reato, stavamo drogando l’economia, quando invece era un normale strumento di politica monetaria?
Ormai con tassi di interesse così bassi hai ridotti effetti sull’offerta di credito bancario (che risente delle politiche restrittive di concessione del credito decise dall’ABI per ridurre le perdite bancarie). Guarda che l’Italia aveva una disoccupazione inferiore al 10% anche quando avevamo una burocrazia soffocante, con la mafia, con il debito pubblico più alto d’europa, etc. Tutti questi fattori non impedivano alla nostra economia di reggere. Con questo non voglio dire che non dobbiamo fare le riforme, ma in realtà la vera riforma che ci chiede l’Europa (o meglio la Commissione Europea) è solo quella del lavoro (cioè l’abolizione dell’art.18)?
nextville
Posto che c’è sempre un limite a quanto una moneta può diventare forte senza fare danno (e bene fa la Bce a dire che se sale troppo abbassa troppo l’inflazione e quindi lei agirà), l’euro oggi è forte perché il saldo delle partite correnti della zona euro è altissimo (non solo per merito della Germania: tutti i paesi sono in surplus salvo la Francia) e ci sono forti afflussi di capitali perché bond e azionario qui sono giudicati più appetitosi. Non abbiamo problemi di esportazione! Abbiamo problemi di far ripartire il credito all’economia reale. Ed è per questo che la Bce, oltre che essere impegnata ad imporre alle banche di ripulirsi, ha in mente di approfittare della bassa inflazione soprattutto per far ripartire il mercato degli Abs:
http://www.linkerblog.biz/2014/04/13/metti-un-abs-nel-motore-della-ripresa-europea
Piero
L’euro non è forte, è il dollaro che è stato indebolito dalla politica monetaria espansiva fatta dalla Fed: 80 miliardi di euro mese per 40 mesi fanno 3200 miliardi di dollari sul sistema, l’euro è forte sul dollaro solo per questo. L’euro come valuta non è riuscita nemmeno a prendere il posto delle valute soppresse, è un fallimento storico, oggi gli stati sono uniti non dall’euro ma dalla paura che se escono non sanno cosa li aspettano, è sufficiente che qualcuno faccia il primo passo poi vi sarà lo sgretolamento dell’area valutaria. Dire che è possibile avere una moneta senza uno stato o una unione di stati che faccia una integrazione fiscale è una grande sciocchezza.
Asterix
Il saldo delle partite correnti è tornato in positivo, in UE (in Spagna ed in Italia in particolare) è un segnale positivo o dipende dalle cause? http://epp.eurostat.ec.europa.eu/portal/page/portal/euroindicators/national_accounts/main_tables Secondo te ciò è dovuto al fatto che le imprese europee hanno ripreso ad esportare a tutto volume e perciò a produrre beni, a ritornare ad assumere personale ad aprire nuovi impianti oppure forse è semplicemente dovuto ad un crollo delle importazioni legato al crollo dei consumi delle famiglie e degli investimenti delle imprese che importavano? Io ho qualche dubbio.. Come pure ho dubbi che il fatto che in Europa sia incrementata l’occupazione con contratti a tempo determinato, possa garantire una crescita dei consumi stabili nel tempo in europa e non un generale impoverimento della classe media europea. L’unica cosa che ci può salvare, oltre l’abbandono di politiche di austerity, sono una sindacalizzazione dei lavoratori cinesi, ma il ricordo di Tienanmen mi fa dubitare che saranno mai tollerate tali forme di protesta.
Piuix
Essendo che il cambio fisso è un problema (polmonite), con la rimozione del cambio fisso abbiamo un problema in meno. Restano gli altri (diabete).
nextville
La svalutazione del cambio è
– se lieve: sostituibile con la svalutazione interna che ha lo stesso effetto (cambio reale = cambio nominale per prezzi in dollari / prezzi in euro )
– se pesante: una droga.
Marco Disce
Invece la rivalutazione del cambio va sempre bene? O qualche volta è sbagliata e necessita un rientro nella norma (che poi sarebbe una svalutazione)?
Maurizio Cocucci
I dati relativi alla Germania che menziona sono alquanto farlocchi. In attesa che arrivino quelli consuntivi del 2013 le scrivo quelli del 2012 (fonte Ministero dell’Economia tedesco). A fronte di un surplus commerciale per le merci (esclusi quindi i servizi) pari a 175,18 miliardi di euro, il 61,4% è effettuato con i Paesi Ue, di cui il 36,7% è riferito all’eurozona, quindi quasi il 40% è conseguito all’infuori dei Paesi UE e due terzi fuori dall’area euro. Questo riguardo al surplus. Se guardiamo alle sole esportazioni nel 2012 la Germania, che è stato il terzo esportatore al mondo dopo Cina e Usa, ha esportato complessivamente per 1.097,3 miliardi di euro, il 57% dei quali verso i Paesi Ue e il 37,5% in quelli dell’eurozona. Il tutto con una moneta forte e con prodotti che notoriamente non sono competitivi per il prezzo visto che i settori trainanti sono nell’ordine: autoveicoli e relativa componentistica (17,3%), macchinari (14,9%), prodotti chimici (9,5%).
Aggiungo che se da una parte è vero che la Germania esporta molto dall’altra è altrettanto vero che importa altrettanto molto visto che nel 2012 il totale delle importazioni sono state pari a 909,1 miliardi di euro di cui 49,16 miliardi sono quelle dall’Italia. La medaglia ha due facce, quella dell’export ma anche quella dell’import e più crescono le importazioni tedesche e più aumentano le esportazioni italiane verso quel Paese che, va ricordato, è il nostro principale cliente.
La Germania ha registrato sì 1.400 miliardi di surplus e anche di più se partiamo dal 1993, anno in cui sono passati da un deficit a un saldo positivo, ma non è l’euro il motivo né l’Europa come i dati che sono stati scritti e una analisi non superficiale dimostrano.
emanuele
In che valuta pensate di comprare le materie prime (caffè, tè), l’energia (petrolio, gas), i beni intermedi (componenti per produrre altri beni)? Con le nuove lire?
Andrea
Chissà come faranno gli altri Paesi. Uno Stato, una moneta e la sovranità monetaria sono la regola. L’euro, invece, è un’eccezione, in quanto ci sono vari Stati (diversi tra loro) e una moneta. La sovranità monetaria spetta alla Bce che, però, ha molti limiti, tra i quali dover rendere conto ai vari Paesi. Insomma, è un minestrone. Per fare una casa si parte dalle fondamenta. Essere partiti con l’euro, per arrivare all’omologazione dei diversi Stati, è stato come partire dal tetto. Prima si dovrebbero fare gli Stati Uniti d’Europa, e poi costruire una moneta comune.
Maurizio Cocucci
La domanda era un’altra però. Ad oggi più o meno petrolio e gas ci costano 65 miliardi, in caso di nuova moneta che si svalutasse è bene sapere che ogni 10 punti percentuali sono 6,5 miliardi all’anno che occorre pagare in più, cioè una tassa aggiuntiva sulle materie prime. Magari la tazzina da caffè che passa da 1 euro (o una neolira) a 1,20 non è un problema e posso anche ridurne il consumo, sui carburanti e sul gas come altre materie prime no. Senza considerare tutto quanto è legato: prezzo dei biglietti dei mezzi di trasporto, costi di spedizione merci etc… Quei miliardi in più sono da pagare perchè è da ingenui pensare che se ne faccia carico lo Stato stampando moneta. L’importante è saperlo.
Luca
Una svalutazione del 20% della “neo lira” sul dollaro non comporterebbe una aumento del prezzo della benzina del 20%. Questo perché non di sole materie prime è fatto il prezzo di un prodotto.
Maurizio Cocucci
Non ho parlato del prezzo della benzina ma della spesa di acquisto di petrolio e gas insieme. A prescindere da quanto aumenteranno carburanti e tariffe a parità di consumo se oggi l’Italia spende 65 miliardi domani a fronte di una svalutazione dovrà pagare di più proporzionalmente e ai consumatori la misura sarà ulteriormente aggravata dall’Iva.
Alberto Tatarano
Mah, l’Inghilterra ha svalutato la Sterlina di uno sproposito e non mi sembra che a Londra circoli gente con le carriole dei contanti per fare la spesa.
nextville
Ma sono tutti i prodotti in dollari che aumentano, dai pc agli smartphone, ai software, etc.
emanuele
Sono d’accordo con te sulla scarsa coordinazione tra gli stati, soprattutto nella gestione di un’unione bancaria, e su una politica monetaria che deve venire (nel breve periodo) incontro a tanti. Quello che intendevo prima era che un ritorno alla lira (ed una conseguente svalutazione) non aumenterebbe solo il costo della Golf, ma anche il costo di importazioni di cui non possiamo fare a meno (petrolio/energia) o di altri componenti necessari alla produzione. Il vero tallone di Achille è la scarsa crescita di produttività degli ultimi vent’anni generata da un sistema inefficiente di allocazione delle risorse e di pessimi incentivi .
Alberto Tatarano
leggi qua:http://www.asimmetrie.org/news/svalutazione-del-cambio-e-prezzo-della-benzina/
nextville
Non c’è bisogno di uno stato comune per una moneta comune (http://it.wikipedia.org/wiki/Area_valutaria_ottimale), occorre invece dotarsi di unione bancaria (già deliberata e in fase di partenza anche se andrà a regime solo in 8 anni) e meccanismi di compensazione, ad esempio un sistema di sussidi alla disoccupazione di livello europeo (che è in discussione).
Piero
L’unione bancaria è la chiusura del cappio all’economia italiana da parte della Germania.
nextville
Aggiungerei la tecnologia! In particolare Itc, software & hardware che si comprano in dollari.
Maurizio Cocucci
Guardando in televisione i vari dibattiti televisivi e leggendo i commenti ad articoli riguardanti l’euro mi sorge la sensazione che non si sia compresa la vera natura della crisi, in particolare quella che riguarda noi italiani, che non dipende da una inesistente crisi delle esportazioni ma dalla domanda interna. Magari quest’ultima avesse lo stesso andamento delle esportazioni che, a titolo informativo, nell’ultimo ventennio ha registrato i seguenti volumi (in euro): 105mld nel 1990; 197mld nel 1995; 260mld nel 2000; 306mld nel 2005; 390mld nel 2012. Dai dati sempre pubblicati dall’Istat e riferiti a dicembre 2013, l’incremento tendenziale delle esportazioni rispetto allo stesso mese del 2012 si è registrato in particolare verso la Romania (+20,3%), Paesi Bassi (+19,4%), Regno Unito (+17,7%), Stati Uniti (+16,8%) e Polonia (+15,1%). Insomma sia in zona euro che extra euro, non vedo quindi la correlazione euro-crisi export, per quanto possa concordare che una valuta meno forte sarebbe auspicabile.
Il problema quindi dovrebbe spostarsi sulla vera causa della debolezza della nostra economia: la insufficiente domanda interna. Questa può essere affrontata non puntando indirettamente sulle esportazioni e confidando che queste possano generare posti di lavoro in grado di assorbire buona parte degli attuali disoccupati, ma ridando reddito disponibile ai consumatori. Ridando fiducia a chi non è stato penalizzato dalla crisi ma oggi come oggi preferisce risparmiare per paura di possibili eventi negativi. Abbassando la pressione fiscale attraverso una seria lotta all’evasione e riducendo la spesa pubblica, riduzione intesa più come ottimizzazione riducendo drasticamente gli sprechi che non generano servizi alla collettività e riferiti ai tanti privilegi presenti praticamente ovunque.
Sento poi parlare di riduzione dei salari per poter competere con le altre economie, ma francamente faccio fatica a comprenderne il motivo visto che il costo del lavoro italiano non è maggiore di quello tedesco, francese o olandese, ovvero di paesi che esportano più noi. Se una azienda ha come concorrenti prodotti realizzati in Paesi dal basso costo del lavoro c’è poco da fare: o si delocalizza o non si hanno molte speranze di sopravvivenza, anche se si tornasse ad una moneta nazionale. Se però ci si confronta con prodotti fatti nei Paesi il cui costo è simile, ovvero la maggoranza di quelli europei, la soluzione è puntare sulla produttività e sulla riduzione dei costi che le imprese italiane sostengono in misura maggiore, tasse comprese, piuttosto che riducendo i salari. In questo contesto non vedo quale utilità possa dare un ritorno ad un moneta nazionale visto che la presunta monetizzazione del deficit pubblico, derivante ad esempio da un alleggerimento della pressione fiscale senza ridurre la spesa pubblica, è pura fantasia.
Asterix
Concordo sull’analisi che il problema italiano è l’insufficiente domanda interna e sono stradaccordo con te che una vera lotta all’evasione fiscale possa far recuperare risorse per sostenere i consumi. Però non credo che tutto questo sia sufficiente per far ripartire la crescita. Serve uno shock ulteriore che può essere una manovra di bilancio in deficit (come ha fatto Obama dopo il 2008) oppure una svalutazione monetaria (come ha fatto l’italia nel 1992). L’alternativa è la soluzione tedesca fatta dopo l’Unificazione del 1990 di ridurre i salari, aumentare l’Iva per contrarre e le importazioni e far ripartire le esportazioni. Però tale soluzione è stata possibile in una fase in cui c’era un domanda mondiale. Ora adottarla in Europa dove tutti sono in crisi è un suicidio. Il limite del 3% non ha una valenza assoluta è come mettersi il cilicio per autopunirsi perché abbiamo un debito pubblico alto. Quello che garantisce la solvibilità del nostro debito è l’esistenza di un Pil futuro, non rispettare il vincolo annuo del 3% dimenticandoci il Pil (quello si chiama strozzinaggio). Se l’europa non capisce questo discorso dobbiamo uscire (minacciare di farlo) dall’euro, prima che ci portino via la casa (che sono le società pubbliche strategiche Eni, Finmeccanica,Enel). Dopo avere venduto pure quelle non avremmo più una struttura industriale ma solo 56 milioni di disoccupati.
Luca
Bilancia delle partite correnti=esportazioni-importazioni+/-redditi netti con l’estero
Se aumento i consumi interni (faccio politiche della domanda) finisco per forza per aumentare le importazioni (che dipendono dai nostri redditi), mentre le esportazioni (che dipendono dai redditi degli altri) rimangono uguali. Padoan lo sa benissimo ed è per questo motivo che nel complesso la domanda interna non aumenterà alla faccia degli 80 euri in più in busta paga. Sono d’accordo che, se ci fosse il traino di una domanda mondiale per le nostre esportazioni, tutto sarebbe diverso. Forse è proprio quello che sperano a Bruxelles, cioè che dalla crisi ci tirino fuori gli altri.
Asterix
Chi dovrebbe aiutare la crisi europea illuminami? Gli arabi, i ricchi russi, la nuova classe di ricchi indiana e cinese? E’ una strada senza uscita. Speriamo che le prossime elezioni europee qualcuno riesca a farglielo capire.
nextville
No, sperano che ci mettiamo a fare quel che serve veramente: rendere il paese più business friendly (meno tasse, meno burocrazia, mercato lavoro più flessibile e soprattutto con poche norme e chiare, Pa più efficiente quindi meno costosa, etc.) e quindi più capace di attrarre investimenti e di trattenere i talenti e quindi di produrre ricchezza. E questo è quanto serve qualsiasi sia la moneta in cui si tengono i conti!
La moneta non c’entra nulla. E’ un falso problema, uno specchietto per le allodole, una di quelle cose per cui George Bernard Show diceva: per ogni problema complesso c’è sempre una rispostina facile e *sbagliata*! Uscire dall’euro, che è come l’illusione dell’obeso di poter dimagrire con una pastiglia di diuretico, senza cambiare dieta e stile di vita.
Marco Disce
1) “Rivoltare come un calzino” il paese richiede tempi molto lunghi (10-15 anni). Nel frattempo se mantieni l’euro l’economia continua ad essere smantellata e deindustrializzata dalla recessione (che non puoi combattere per i motivi già spiegati) e fai la fine della Grecia.
2) “Nessuna economia può andare avanti con 60 miliardi di corruzione stimata, 5 ‘ndrine, un sistema giudiziario inefficiente[…]”
Negli anni 90 eravamo meno corrotti e inefficienti? Andavamo avanti e aumentava il nostro reddito.
3) “Si comprano I migliori prodotti (a costo inferior/trade-off piu’ vantaggioso), non solo quelli che costano meno tout court”
Non si comprano i migliori prodotti *a prescindere dal prezzo*, si comprano i migliori prodotti solo se hanno un prezzo relativamente vantaggioso.
Alberto Tatarano
Ormai lo sanno tutti: l’aumento della produttività è conseguenza della domanda: il barista più bravo non è quello che fa più caffè nell’unità di tempo ma quello che ne vende di più. Pensare che sia l’offerta a creare la domanda è una visione screditata da tempo dall’esperienza, voi avete la solita visione che guarda sempre verso il lato dell’offerta.
nextville
Su queste tesi aprioristichee senza alcun sostengo ha già scritto Monacelli:
http://noisefromamerika.org/articolo/euro-domanda-produttivita-viaggio-nel-mito-parte-1
Alberto Tatarano
Mi spiace ma quelli che hanno un approccio aprioristico e ideologico a certe questioni siete tu e i Bocconi’s Boys. Lo stesso Monacelli fa vedere che la produttività cala DOPO il 1995 cioè quando ci agganciamo al sistema di cambi fissi dello Sme e che guarda caso è la stessa data in cui iniziano a calare le esportazioni.
Maurizio Cocucci
A calare le esportazioni? Ne è sicuro? Esportazioni Italia 1995: 197 miliardi di euro; 2000: 260 mld; 2005: 296mld; 2012: 390 mld. Ripasserei poi il concetto di produttività che non è strettamente legato al volume delle vendite o addirittura alla moneta in uso, ma al rapporto tra la quantità di produzione realizzata per unità di fattori utilizzati (generalmente nel calcolo si considera l’unità di lavoro). Un’azienda può quindi conseguire una maggiore produttività perché nel produrre volumi maggiori sfrutta l’economia di scala; perché investe in tecnologia o anche perché aumenta lo sfruttamento dei macchinari lavorando su più turni. O più di questi fattori contemporaneamente. Ma cambiare moneta non incide per nulla sulla produttività.
Alberto Tatarano
Quote di mercato dell’Italia sull’export mondiale (a prezzi correnti): 1996-1997-1998-1999-2000-2001-2002-2003-2004-2005-2006 = 4,7-4,3-4,5-4,1-3,7-4,0-3,9-3,9-3,8-3,6-3,4. Fonte: elaborazioni Osservatorio Economico Ministero Commercio Internazionale su dati Wto. E la Cina o l’India non c’entrano (basta vedere che fa la Corea del Sud) così come gli investimenti (la Germania è d’avanti solo alla Grecia come investimenti in rapporto al Pil). Comunque non voglio convincere nessuno, sarà la realtà dei fatti (cioè i vostri efficientissimi e lungimiranti mercati) a pronunciare l’ultima parola.
giulioPolemico
La produttività non c’entra nulla con la valuta adottata.
pierpier
Ho apprezzato l’articolo che mi sembra equilibrato anche se chiaramente pro-euro, il problema è che non tocca il fiscal-compact che anche con tutta la buona volontà di fare le riforme rischia di essere la goccia che fa traboccare il vaso facendoci affondare definitivamente e consegnandoci ad anni di lacrime e sangue, inoltre non fa menzione del fatto che fare l’euro in questo modo è stato una ….. pazzesca come direbbe Fantozzi, insomma visti gli errori commessi finora dagli eurocrati non riporrei in loro neanche la minima fiducia, allora mi chiedo forse non è meno peggio affrontare un’uscita dall’euro avendo ben presente che è condizione necessaria ma non sufficiente a riprender il cammino di crescita?
nextville
Un’altra vittima delle fandonie sul Fiscal Compact, che imporrebbe una manovra correttiva di 50 miliardi all’anno per 20 anni, eh?
pierpier
Chi ha mai detto che sono 50 miliardi? Comunque sia di calcoli in rete ne puoi trovare diversi e dipendono dalle ipotesi che si fanno, comunque sia se in una fase recessiva pensi sia questa la strada giusta. Peccato che credo che 99 economisti su 100 ti direbbero il contrario. Per quanto riguarda il rapporto debito/Pil e deficit/PIl credo e sfido chiunque a dimostrarmi che il rapporto corretto sia il 60 o l’80% o il 3%, insomma basta vedere cosa è successo alla Spagna che stava al 60 e come sta il Giappone che supera il 200, la realtà è che l’Europa doveva essere un progetto politico nelle intenzioni dei padri fondatori e si è ridotto a un progetto ragionieristico tra l’alto fondato su asserzioni economiche o sbagliate o non suffragate da nessuna evidenza, anzi basta guardarsi intorno e vedere il disastro economico e sociale che è stato generato, pertanto o si riparte da un piano politico (ma purtroppo al momento non vedo le condizioni) oppure si ammette di aver sbagliato e si riparte da zero cercando di porre le condizioni per una vera Europa democratica e non burocratica.
Maurizio Cocucci
La domanda sul livello “corretto” del rapporto debito/Pil è malposta perché non c’è una risposta univoca, il suo ammontare dipende da quanto costa mediamente il denaro, quindi a determinati tassi (o range di essi) si può stimare un relativo ammontare (o range) di debito rispetto al Pil, ad altri tassi invece risulteranno diversi ammontare di debito.
Quando fu proposto il trattato di Maastricht il costo del denaro era maggiore rispetto ad oggi e quindi era comprensibile la proposta di mantenere il rapporto debito/Pil stabilmente ai livelli medi di allora. Oggi essendo diminuito tale costo si può pensare di alzare il limite ricordando che più alto di porta questo parametro e più si paga in termini di interessi, costo che ha un effetto spiazzamento su altre forme di spesa, in particolare sugli investimenti. Oggi l’Italia paga ben il 5,3% del Pil in interessi, direi che può bastare così.
Per quanto riguarda invece il valore del deficit questo deriva dall’equazione finanziaria una volta definite le altre due variabili: la crescita media stimata del Pil nominale e appunto il rapporto debito/Pil. Se ha studiato economia dovrebbe conoscerla.
Il costo del denaro come lei sa non è eguale e questo perché dipende da diversi fattori che in misura maggiore fanno riferimento alla fiducia che gli investitori pongono sulla capacità di restituzione. Il Giappone paga un basso costo semplicemente perché i titoli sono acquistati prevalentemente da istituzioni finanziarie e da privati cittadini giapponesi, quindi è come se un prestito lei lo ottenesse da un suo familiare anziché da un estraneo, credo che le costerebbe meno nel primo caso. L’Europa già emette una sorta di eurobond e difatti i tassi sono più bassi di quelli che paga la maggior parte dei Paesi Ue. Non sarebbe male se si potesse emettere solo eurobond ma prima i Paesi più virtuosi vogliono che si arrivi a porre dei limiti (o vincoli) alle spese di ciascuno Stato. In alternativa è corretto che loro dicano che se questi vincoli non si vogliono accettare allora che ciascuno paghi quello che il mercato chiede loro.
Maurizio Cocucci
Circa i vincoli previsti dal trattato noto come Fiscal Compact posso essere parzialmente d’accordo ed è mia convinzione personale che verrà modificato in quanto troppo restrittivo. Ma più che sul rapporto deficit/Pil io punterei l’attenzione su quello debito/Pil, il 60% lo trovo eccessivo e non rispondente a teorie economiche, difatti fu scelto all’atto della presentazione del trattato di Maastricht semplicemente perché rappresentava la media di allora. Io lo porterei al 80% in quanto ipotizzando un costo ponderato in termini di rendimento dei titoli del debito (interesse+differenziale tra prezzo nominale e quello di aggiudicazione) anche del 4% ne deriverebbe un costo rispetto al Pil di circa 3 punti percentuali. Nel 2013, stando ai dati del Dipartimento del Tesoro, il rendimento medio ponderato sui nostri titoli di Stato emessi è stato del 2,08% (dal 0,24% dei Bot trimestrali al 5,02% dei Btp trentennali) anche se poi la spesa per interessi 2013 è di circa 5,3 punti percentuali del Pil visto che il debito è del 132% sempre rispetto al Pil e che negli anni passati abbiamo dovuto collocare titoli a rendimenti maggiori.
Insomma non credo che alzare questo limite di 20 punti percentuali possa influire in maniera eccessiva sulla crescita. Se venisse accettato e fosse previsto un rapporto deficit/Pil del 3% sarebbe sufficiente una crescita media del Pil nominale (crescita reale+inflazione) del 4% per mantenere costante proporzionalmente l’ammontare del debito. Il 4% oggi può sembrare ambizioso ma dovrebbe essere l’obiettivo visto che potrebbe essere composto ad esempio da un 2% reale e da un aumento dei prezzi di pari entità. E solo una crescita reale di questo ammontare (2%) può garantire la creazione di un numero accettabile di posti di lavoro. Al tempo stesso il trattato dovrebbe prevedere possibilità di sforamenti ma solo dietro impegni concreti del Paese in questione a rivedere la propria contabilità, che non significa necessariamente solo tagli ma una sua ottimizzazione.
Maurizio Cocucci
“…e quell’aberrazione dei mini-job (1/4 della fl tedesca) resi possibili dall’unificazione”. Le do una notizia, questa tipologia di contratti esiste da molto prima della unificazione tedesca, più precisamente dal 1977, formalmente in tedesco si chiamano “Geringfügige Beschäftigung” (letteralmente occupazione marginale). La proporzione vera e propria sulla forza lavoro totale è del 11% perché un 6% circa sono coloro che abbinano un minijob ad un lavoro ordinario. Troppi? Beh, se toglie gli studenti a cui fa comodo svolgere qualche lavoro part-time per pagarsi gli studi, le donne a cui può far comodo per conciliare famiglia e lavoro e i pensionati al fine di arrotondare l’assegno mensile non ne rimangono molti che si trovano scontenti perché costretti a ripiegare su questa tipologia di contratti. Non per niente destano scandalo qui ma non dove vengono applicati, ovvero in Germania. Tra l’altro sono molto più diffusi nelle regioni più ricche che in quelle dell’ex Ddr.
gioele
È sbagliato il concetto di base ossia il cambio flessibile. Per funzionare il cambio deve essere fisso 1:1 per non creare turbative sul mercato interno come avvenne con la dissennata introduzione dell’euro. In Germania l’euro fu introdotto al cambio di 1:1 quando il marco costava L 980 ma i nostri geni economisti pensarono ad una svalutazione doppia e i prezzi sballarono.
Andrea
Abbiamo l’economia al disastro sociale 3,0mln di disoccupati, imprese che hanno ridotto la produzione ai minimi storici siamo in deflazione e voi avete paura dell’inflazione?
M*V=P*Q
Se la produzione è ai minimi un aumento della base monetaria in lire M, di certo farebbe aumentare Q e, se anche aumentasse il livello dei prezzi P, costringerebbe le banche e le imprese ad investire in beni reali, aumentando il livello dell’occupazione e della produttività. L’opera di Amato e Prodi negli anni ’90 per entrare nell’euro ci ha aiutato a frenare la crescita e la precarizzazione di certo non migliora il livello di produttività.
Maurizio Cocucci
Se l’obiettivo è quello di creare lavoro il fatto che i prezzi aumentino non significa necessariamente che si sta procedendo in questa direzione. E’ vero che generalmente quando una economia è in espansione e aumenta l’occupazione si ha un incremento della domanda la quale non è solo compensata da un corrispondente aumento della produzione, mantenendo così costanti i prezzi, ma anche da un aumento di questi ultimi e il cui fenomeno deve essere letto come uno scambio tra aumento appunto di produzione e quello dei prezzi. Lo si può spiegare meglio analizzando la reazione delle imprese ad un aumento della domanda. Se un’impresa produce al 60% della propria capacità produttiva (generalmente il livello ottimale è tra l’85 e il 90%) e vede aumentare le vendite inizierà assumendo perlopiù personale di produzione e questo è positivo. In questa fase i prezzi non aumentano. Poi raggiunto il livello di capacità massima (difficilmente il 100%) preferirà reagire allungando i tempi di consegna o aumentando i prezzi perché prima di investire al fine di aumentare la capacità produttiva vorrà avere rassicurazioni che questo aumento di domanda sia di lunga durata, cosa che non è così quando è dovuta ad un effetto cambio. Quindi l’aumento dei prezzi è la via alternativa a quello dell’aumento della produzione e anche dell’occupazione. In ogni caso convengo in parte con lei che l’aumento dei prezzi non deve essere letto necessariamente in maniera negativa, ma solo se è conseguente ad una situazione di economia in espansione, non legata prevalentemente all’aumento di moneta in circolazione. La via per raggiungere questo obiettivo è riequilibrare la pressione fiscale (nonché una lotta all’evasione) e ottimizzare la spesa pubblica.
nextville
Vai a vedere cosa succede in Giappone dopo tutto lo stampare della BoJ: l’inflazione sta salendo perchè costano di più i beni importati, in particolare l’energia, ma gli stipendi reali stanno calando, quindi il potere d’acquisto diminuisce e rischia di innescare recessione.
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Chris Weston, chief market strategist at trading firm IG, says that bond markets are pricing in inflation to average about 2.25 percent in Japan over the next five years, but wage growth adjusted for inflation
continues to fall – a worrying sign. “You need wage rises to grow faster than inflation to create the backbone of inflation,” he said. “But so far, we have mostly imported inflation because of the weak
yen.”
marcello
Invece le politiche monetarie e fiscali restrittive hanno prodotto macerie. Quello che è imperdonabile e inaccettabile è che non esiste uno straccio di teoria economica che giustifichi questo scempio se non qualche rabberciato articolo che mette insieme un po di dati o presenta dati sbagliati. Perché non si apre un bel dibattito sul recente articolo di Aghion e Kharroubi “Cyclical macroeconomic policy, financial regulation and economic growth” bis. Qualcuno potrebbe avere qualche sorpresa e scoprire quanto siano motivate e circostanziate le critiche di Krugman a questo impianto punitivo delle politiche europee. O anche perché 600 economisti, tra cui una decina di Nobel Arrow in primis, abbiano firmato l’appello per l’aumento del salario minimo negli Usa.
nextville
Qui si tratta di capire che non abbiamo a che fare con una recessione da scarsità di domanda (sul modello della Grande recessione del 29), ma di una crisi da eccesso di debito, privato e pubblico — una “recessione di bilancio” come si dice — provocata dal bust di una fase precedente di boom (bolla immobiliare e del credito). Bolle alimentate da cosa? Dalle politiche monetarie della FED ma anche da folli politiche US a sostengo della casa per tutti, che cercavano di … sostenere la domanda col debito (privato e/o pubblico).
Che fare adesso?
“… In termini di politiche, l’implicazione è che dall’inizio della crisi c’è stata troppa enfasi sullo stimolo della domanda e non abbastanza sulla riparazione dei bilanci, e sulle riforme strutturali per aumentare la produttività. In prospettiva, il quadro delle politiche da implementare deve garantire che le misure siano più simmetriche nel corso del ciclo finanziario, in modo da evitare il rischio di radicare instabilità e di restare, alla fine, a corto di munizioni.”
Luigi Suardi
Potreste impotizzare il caso in cui un paese con [… una amministrazione pubblica inefficiente che frena le innovazioni e le ristrutturazioni, delle rigidità nel mercato del lavoro, di un mercato dei capitali incapace di sostenere le imprese con potenzialità di crescita, di una scuola che non prepara adeguatamente i giovani al mondo del lavoro, di infrastrutture fatiscenti… ] decida di restare nell’Euro? Cosa succederebbe? Grazie.