La tesi di chi sostiene un’uscita dell’Italia dall’euro è che in questo modo le aziende italiane potrebbero esportare di più grazie a una svalutazione della nuova lira. Ma è un’analisi che guarda al mondo di oggi con strumenti analitici del secolo scorso.
IL MONDO CAMBIA
Negli ultimi giorni di campagna elettorale per le elezioni europee, continua vivace il dibattito sui costi e i benefici che l’Italia ha avuto dalla moneta unica, con posizioni divise tra chi ritiene che il nostro paese abbia sofferto oltre modo nell’euro a causa delle sue ancora irrisolte debolezze strutturali, e chi invece ritiene che la moneta unica sia la principale causa dei nostri mali.
La tesi sostenuta da chi auspica un ritorno alla lira è molto semplice: “se tornassimo padroni della nostra moneta, potremmo monetizzare il nostro debito e compiere svalutazioni competitive per stimolare la domanda dei nostri beni da parte dei mercati esteri”.
Al di là dei costi associati all’uscita dalla moneta unica, su cui molti si sono espressi, quello che non convince di queste argomentazioni è (anche) la parte legata ai benefici. (1)
Certo, storicamente svalutazioni competitive sono state associate in diversi paesi a guadagni di crescita, ma il punto è proprio questo: “storicamente”. Negli ultimi anni, e anche tenendo conto della crisi, la produzione si è frammentata internazionalmente, con flussi di commercio di beni intermedi tra paesi, organizzati (prevalentemente) dalle imprese multinazionali nell’ambito di catene globali del valore (o global value chains, Gvc). Per dare un’idea del fenomeno, l’Unctad stima che l’80 per cento del commercio globale (in termini di esportazioni lorde) sia oggi in qualche modo connesso a transazioni in cui almeno una delle controparti è un’impresa multinazionale che organizza una global value chain. (2) Ne consegue che l’esportazione “diretta” di beni e servizi sul mercato legata a un vantaggio di prezzo, ossia quella modalità di commercio cui le svalutazioni competitive danno beneficio e che viene “storicamente” registrata dalla letteratura economica, è probabilmente molto meno importante di prima.
ESPORTAZIONI E TASSO DI CAMBIO OGGI
Per capire come questa modalità di organizzazione della produzione possa attenuare di molto i benefici teorici delle svalutazioni competitive, prendiamo per esempio lo spazzolino da denti prodotto da una nota multinazionale europea e assemblato con componenti che provengono da siti produttivi localizzati in dieci diversi paesi (con dieci valute diverse), in tre continenti. Che ruolo avrebbe il tasso di cambio dell’euro nel determinare, da solo, la competitività del prodotto? Immaginando che sia assemblato fuori dall’Europa, per produrre il più vicino possibile al mercato di riferimento, come accade peraltro per la gran parte della produzione di automobili tedesche vendute in Asia, cosa c’entrerebbe l’euro con il successo di queste aziende? In generale, la letteratura economica che ha analizzato questi effetti limitandosi all’evidenza degli ultimi anni, ossia da quando le catene globali del valore hanno un impatto significativo sui flussi di commercio, suggerisce che non esiste una relazione statisticamente forte tra profitti delle aziende e livello dei tassi di cambio, né questa relazione sembra differenziarsi, come dovrebbe, tra settori esposti alla concorrenza internazionale (il manifatturiero in generale) e settori che per loro caratteristica (come i servizi alla persona) restano locali. (3)
EFFETTI PER L’ITALIA
Ma come si posiziona l’Italia rispetto a queste dinamiche? Per rispondere, possiamo guardare ai dati recentemente pubblicati dall’Oecd che fanno vedere come l’importanza dei diversi mercati di esportazione del nostro paese cambia se distinguiamo tra esportazioni lorde (ossia dove vanno fisicamente i nostri beni quando escono dai confini nazionali) ed esportazioni in valore aggiunto (ossia quale domanda viene servita dai nostri beni quando escono dai confini nazionali, ma entrano nella produzione di beni di altri paesi prima di essere consumati). Come si può vedere dai grafici sottostanti, quello che emerge è che la Germania è di gran lunga al primo posto come mercato di sbocco delle nostre esportazioni (lorde). Ma se guardiamo al principale mercato dalla cui domanda dipendono le nostre esportazioni, scopriamo che è quello degli Stati Uniti. (4)
Se ne deduce che l’Italia esporta beni “direttamente” alla Germania, ma “indirettamente” esporta componenti che entrano in prodotti che poi la Germania vende agli USA. (5) L’evidenza è peraltro coerente con il dato che, a livello mondiale, vede l’Europa come il mercato in cui maggiormente si è integrata la produzione regionale tra paesi, Italia inclusa.
Cosa succederebbe, allora, se applicassimo questa realtà a un sistema di monete locali e non di moneta comune, ipotizzando una svalutazione della lira, ma non dell’euro tedesco?
Innanzitutto, per la parte di esportazione “diretta”, potremmo in teoria vendere di più. Tuttavia, oggi l’80 per cento del commercio internazionale di beni avviene attraverso le catene globali del valore, e mentre uscire da una value chain è facile, entrarci è difficile, perché i costi fissi di chi importa input sono alti, l’efficienza richiesta a chi esporta è elevata e, in generale, prima di modificare la struttura di una catena del valore ci si pensa seriamente. Non basta quindi costare di meno per essere automaticamente ammessi al desco della produzione internazionale di beni, e d’altra parte i ritardi strutturali dell’economia italiana, con un sistema di imprese ancora in parte piccolo, sottocapitalizzato e meno efficiente rispetto ai concorrenti internazionali, resterebbero immutati.
Inoltre, i dati disponibili dimostrano come esista una relazione positiva e statisticamente significativa tra variazione della quota di mercato delle nostre esportazioni in un dato settore e la variazione (ritardata) della quantità di beni esteri che quel settore utilizza per l’esportazione: in sintesi, al giorno d’oggi per esportare di più è necessario importare di più. E dunque svalutare in un sistema di Gvc, oltre a non garantire necessariamente maggiori vendite, si tradurrebbe sicuramente anche in un costo per le nostre imprese.
Per quel che riguarda l’esportazione “indiretta” (che pesa per oltre il 20 per cento dell’export italiano), bisogna chiederci cosa succederebbe alla domanda americana di beni tedeschi, da cui in ultima analisi dipende parte della domanda tedesca di beni italiani. Agli occhi americani tutto quello che conta è il prezzo dei beni tedeschi, che a quel punto dipenderà dalla competitività delle imprese tedesche (che noi non controlliamo) e dal tasso di cambio euro tedesco–dollaro, che oggi in parte controlliamo attraverso la Bce, ma che domani, uscendo dall’euro, non controlleremmo più. Con una svalutazione della nuova lira, se decidessero di non modificare i loro prezzi, le imprese tedesche pagherebbero sicuramente meno la stessa quantità di beni italiani, facendo profitti maggiori, senza che per questo le imprese italiane vendano di più alla Germania, poiché la domanda americana dei prodotti tedeschi non varia. In compenso le aziende italiane, senza vendere di più, pagherebbero comunque di più le importazioni di materie prime comunque necessarie per produrre gli input da vendere alla Germania.
Dunque, un’uscita dell’Italia dall’euro rischia di avere come risultato profitti che salgono in Germania e che scendono in Italia: sono queste le conseguenze se si guarda al mondo di oggi con gli strumenti analitici del secolo scorso.
(1) Si veda in particolare A. Baglioni “Uscire dall’euro? No, grazie”, e C. Altomonte e T. Sonno, “L’Italia alla sfida dell’euro”, www.sfidaeuro.it.
(2)Unctad, “Global Value Chains and Development, Investment and Value Added Trade in the Global Economy”, 2013
(3) M. Amiti, J. Konings e O. Itskhokiin “Importers, Exporters, and Exchange Rate Disconnect” del 2012, dimostrano che le grandi imprese esportatrici (importatrici) sono decisamente poco influenzate dai cambiamenti nei tassi di cambio. Nello specifico, gli autori mostrano come le aziende connesse internazionalmente sono in grado di assorbire in maniera indolore quasi il 50 per cento della eventuale variazione di cambio. Poiché in ogni paese le grandi aziende esportatrici rappresentano circa il 70-80 per cento del valore delle esportazioni, di fatto oggi abbiamo una situazione per cui una gran parte dell’export di uno stato europeo è in realtà parzialmente isolato dall’effetto del tasso di cambio.
(4) Per una distinzione tra esportazioni lorde ed esportazioni in valore aggiunto, e una completa analisi di queste dinamiche sull’export italiano si veda R. Cappariello e A. Felettigh “How does foreign demand activate domestic value added? A dashboard for the Italian economy”, mimeo.
(5) Tutte queste informazioni e i dati sono liberamente scaricabili dal sito dell’Oecd.
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Marco Trento
Non è molto chiaro il ragionamento. Se le imprese tedesche pagano i semilavorati italiani di meno grazie alla svalutazione, allora logicamente potranno abbassare i prezzi di vendita dei prodotti tedeschi destinati agli Stati Uniti e vendere di più (e quindi aumentare le importazioni dall’Italia). La ragione per restare nell’euro quindi non è la catena globale del valore, ma il fatto che la svalutazione della lira sarebbe il solito palliativo con effetti di semplice breve periodo (ricordiamo il 1992 e la crisi dello SME?). Le nostre imprese devono innovare di più, non competere sui prezzi.
Ettore
Dipende a) da quanto incide la componentistica italiana sul prezzo finale delle merci tedesche e b) dal fatto che le imprese tedesche preferiscano limitare i propri margini.
Maurizio Cocucci
Il prezzo di un prodotto, anzi sarebbe più corretto dire dei prodotti, dipende dall’equilibrio tra costi e ricavi. Se una linea produttiva ha capacità produttiva max 100 e quella ‘nominale’ è 90-95 (raramente e per brevi periodi si riesce a produrre alla massima capacità), a me basta riuscire a vendere quella quantità e se i costi dei fattori produttivi diminuiscono li capitalizzo nel margine di profitto. Poi se ritengo che ci sia la possibilità di vendere di più potrò valutare l’opportunità di investire al fine di incrementare la produzione (quello che sta facendo Volkswagen in Cina), oppure abbasso il prezzo se la quantità venduta (e quindi prodotta) scende a tal punto da portare il profitto ad un livello inferiore di quello desiderato. In definitiva tutto questo per dire che a fronte di un calo del prezzo delle forniture difficilmente corrisponde un calo del prezzo del prodotto finito.
nextville
Infatti il punto è che i prodotti tedeschi sono competitivi per qualità e non per prezzo, quindi la domanda è poco elastica al prezzo (quindi non gli conviene abbassare i prezzi, ma aumentare profitti e auto-finanziamento dell’innovazione). In generale: la convenienza di una svalutazione del cambio dipende tutta dall’elasticità al prezzo della domanda dei beni importati ed esportati. Se l’elasticità è bassa per entrambi (ad esempio importazioni di energia e altri beni che non hanno sostituti equivalenti in produzioni interne, esportazioni di beni competitivi per qualità) la svalutazione è solo dannosa, anche per le esportazioni dirette.
pierpier
Bell’articolo interessante e che dimostra che le cose sono molto più complesse che euro si o no, anche se il discorso sulle value chains potrebbe essere anche posto che se continuiamo a costare troppo possiamo continuare a uscirci mentre se costiamo meno avremmo anche qualche chance in più di rientrarci. Comunque il problema è che le politiche europee sono profondamente sbagliate e se non cambiamo la rotta è solo uno stillicidio mortale
Congetture
L’affermazione «la domanda americana dei prodotti tedeschi non varia» andrebbe dimostrata spiegando perché le aziende tedesche preferirebbero aumentare i propri margini anziché incrementare la produzione.
Maurizio Cocucci
Mi sembra semplice. La quantità di prodotti made in Germany venduti dipende dalla loro domanda estera (nel caso dell’articolo dagli Usa) che non ha motivo di cambiare se il tasso di cambio euro-tedesco/dollaro non cambia. Quindi se aziende italiane riforniscono imprese tedesche ad esempio di cuscinetti per realizzare macchinari non è che queste ultime ne venderanno di più perché il prezzo di un componente (il cuscinetto) risulta più conveniente. Può semmai valere per prodotti commercializzati o realizzati con una componente rilevante (almeno 70%) di semilavorati made in Italy, ma occorre rammentare che la politica della maggior parte delle aziende è quella di massimizzare il profitto, che non comporta necessariamente aumentare le vendite riducendo il prezzo.
Congetture
Mi pare che nel ragionamento ci sia la classica fallacia del metodo superfisso. In un mercato in cui c’è un regime di concorrenza, la formazione della domanda estera dipende (anche) dal valore dei prodotti, quindi se i tedeschi vogliono incrementare la propria quota di esportazioni verso gli USA, hanno due leve: quella dei prezzi e quella della qualità. Il fatto che su quest’ultima siano tradizionalmente forti non implica automaticamente che la prima sia irrilevante. Se l’autore formula un’asserzione in cui esclude che i tedeschi trasferirebbero parte dei risparmi al cliente, dovrebbe giustificare l’affermazione con un’argomentazione forte, mentre «non è detto che accada» è solo la definizione una possibilità.
Maurizio Cocucci
La maggior parte delle imprese italiane con un’alta vocazione all’esportazione è presente sul mercato da decenni e quindi ha vissuto il periodo delle svalutazioni o comunque del cambio fluttuante. Ha vissuto gli anni in cui il mercato era, soprattutto per ragioni politiche, concentrato nella parte cosiddetta occidentale e oggi sa quali cambiamenti sono avvenuti a seguito della fine di queste barriere ideologiche e l’avvento di un mercato globalizzato. Hanno quindi conoscenza di quelli che possono essere benefici e svantaggi derivanti da un ritorno ad una moneta propria e la conseguenza pratica di un cambio che vedrebbe la nostra neo-valuta perdere valore sulle altre e sono dell’opinione che non convenga proprio per quanto descritto in questo articolo. Ma volendo essere più chiari basti pensare ad esempio alle automobili. Se acquistiamo un marchio apparentemente italiano siamo sicuri che dietro c’è manodopera italiana oppure questa è stata prodotta all’estero? Se una volta era praticamente certo che un mobile fosse di manifattura italiana (sempre che non fosse dichiaratamente di importazione) possiamo affermarlo anche oggi? E l’abbigliamento? E questo vale anche per prodotti più complessi o tecnologici. Si veda ad esempio il mercato dei personal computer o dei cellulari, quanto è prodotto (a parte qualche componente) nei Paesi più avanzati? Inoltre puntare sulla svalutazione per ottenere un beneficio competitivo verso chi? Verso tedeschi, francesi o inglesi? Non sono loro i competitors che ci mettono in difficoltà, ma i settori dove troviamo produzioni realizzate nelle aree a basso costo della manodopera dove per essere competitivi si è obbligati a delocalizzare e una svalutazione non servirebbe a nulla.
Cena Lombardi Roberto Massimo
L’articolo si basa sulla situazione attuale nella quale le aziende italiane per lo più forniscono semilavorati alla Germania che li utilizza per costruire prodotti finiti da esportare negli Usa. Quindi, o nessuno crede alla Fca di Marchionne che millanta di costruire automobili di prestigio in Italia e spedirle negli Stati Uniti, oppure gli imprenditori nostrani non sono più in grado di produrre prodotti finiti concorrenziali grazie alla svalutazione competitiva della valuta italiana e venderli direttamente all’estero. E’ un’ammissione di mediocrità delle nostre produzioni.
nextville
Il punto è la specializzazione verticale = il luogo-moneta di assemblaggio del prodotto finale (ad esempio le auto), non è lo stesso di produzione dei suoi componenti, i quali a loro volta possono inglobare vari sottocomponenti e relativi passaggi di cambio. Gioca inoltre l’elasticità delle relative domande (in ingresso e uscita) al prezzo: se l’elasticità è bassa la svalutazione è dannosa. Risultato complessivo: il ruolo del cambio sulla competitività (anche di prezzo) del bene finale è molto meno importante che in passato.
rob
Io sono anni che sostengo che l’Italia non è un Paese esportatore come si vuole far credere. Ieri sera Farinetti ha chiarito con molta franchezza e efficace sintesi che noi che ci riteniamo n°1 nel made in Italy alimentare non abbiamo una catena internazionale come la Germania (Metro) la Francia (Carrefour) io aggiungerei anche l’Ikea dove ormai l’alimentare pareggia i mobili. Esperienza personale in giro per 20 anni in Europa, le nostre sono piccole realtà, con piccole quantità su mercati ristretti di connazionali all’estero. Ma quante Fiat avete visto in un semaforo di Parigi o di Berlino? Svedesi e spagnoli sono i veri marchi internazionali nell’abbigliamento. Se apri una lista di vini a Londra ti rendi conto di esserci ma accanto a tanti Paesi che non ti aspettavi. Colui che pensa di conquistare un mercato qualsiasi facendo leva solo sul prezzo è un fallito in partenza, perché troverà sempre colui che avrà un prezzo di una lira più basso. La Mercedes o l ‘Audi non vi dicono niente? Hanno listini irraggiungibili come irraggiungibili sono i loro volumi di vendita.
nextville
Peraltro, in un mondo che si specializza, si può riuscire bene anche avendo un solo o pochi particolari skill, sapendosi inserire nelle catene del valore con quello.
rob
Ti puoi specializzare ma se non imponi un marchio o una filosofia se sempre sotto ricatto! Se parlo di jeans penso a Levi’s, per le scarpe sportive penso ad Adidas, etc. II nostro è ed è stato sempre un Paese in ordine sparso. Il tedesco mangia wurstel non prosciutto, Da noi i wurstel sono prodotti da italiani. La differenza è notevole.
Maurizio Cocucci
L’Italia esporta 390 miliardi di euro all’anno, che poi i prodotti li veda al semaforo o meno questo non conta. Se poi vogliamo dire che si può fare di più allora è un altro discorso, i Paesi Bassi ad esempio esportano più di noi anche in valore assoluto, ma dire che il nostro export è fasullo è una affermazione alquanto discutibile.
rob
Cocucci i dati da dove sono presi? Dalle fatture o dalle statistiche. Molto spesso il semaforo dice molte più cose reali. Per rispondergli con una battuta! Il ns. export non è fasullo ma alquanto discutibile..
Maurizio Cocucci
Quando c’è una vendita di beni o servizi come si paga la fattura? Normalmente con movimenti bancari quindi non capisco la sua obiezione.
rob
Toto’ diceva che se lei si mangia un pollo e io niente per le “carte” ci siamo mangiati mezzo pollo a testa. Il semaforo è più sincero.
Giorgio A.
Posto che i Paesi Bassi “esportano” semplicemente beni che transitano dai loro porti commerciali e vanno diretti in Germania.
Maurizio Cocucci
Se acquisto un prodotto dagli Usa e questo transita dai Paesi Bassi, cosa mi addebiteranno questi ultimi? Il costo del servizio reso (che rientra comunque in quelli di esportazione) oppure anche il prezzo del prodotto che ho già pagato al fornitore americano? In ogni caso nel 2012 i Paesi Bassi hanno esportato merci per circa 500 miliardi di euro, la Germania ha importato merci da loro per 86 miliardi.
Piero
Purtroppo il sistema economico europeo non è formato solo dalle multinazionali, per le quali valgono tutte le considerazioni fatte, abbiamo una miriade, almeno mi risulta, di Pmi che non sono nemmeno subfornitori dei tedeschi. Certo che se continua così, saremmo tutti loro dipendenti, per tali motivi le argomentazioni esposte non hanno validità. In ogni caso è naturale che l’aspirazione delle multinazionali e delle filiere sia quella di avere una moneta unica mondiale, ma qui abbiamo due centri di interessi: quello delle multinazionali che pensano ai loro profitti e quello degli Stati che hanno una responsabilità sociale verso i propri cittadini. Fino a che nel mondo non vi sarà una moneta unica, la svalutazione della moneta non è un metodo del passato, ma del presente, che serve per riequilibrare le diverse economie.
jay p east
Come risposta basta questo: http://www.startribune.com/world/260087901.html
Ed é noto che la Polonia sia una grande potenza industriale.
chinacat
Come no? E sono pure pieni di pozzi di petrolio.
Giorgio A.
Siccome gli autori citano tra virgolette un passo nel quale si parla di “svalutazioni competitive” sarebbe doveroso che ne riportino la fonte.
In ogni caso, l’idea stessa di “svalutazione competitiva” è priva di fondamento: l’uscita dall’euro avrebbe come scopo il ritorno al funzionamento del libero mercato valutario. Poi certo, se adesso su lavoce.info ci tocca leggere articoli che negano il ruolo economico del tasso di cambio, allora possiamo anche credere che i mercati valutari non contano niente.
nextville
Il notorio non ha bisogno di essere dimostrato… Ma lasciamo pur stare gli “scopi” dei no-euro, il punto è che quello sarebbe certamente l’effetto.
Che i cambi flessibili siano migliori di quelli fissi non ha dimostrazione. Abbiamo avuto tassi fissi in tutto il periodo di Bretton Woods (1944-1971), l’epoca del miracolo economico italiano e occidentale. Quanto al dopo Bretton Woods ( da nota 2, http://www.lavoce.info/ritorno-alla-lira-svalutazione-crescita ):
“Guardando al periodo post-Bretton Woods per 178 economie, Rose (2011) conclude che non c’è evidenza che i paesi con cambi variabili crescano a tassi diversi da quelli dei paesi a tassi fissi (Rose, A.K. (2011). “Exchange Rate Regimes in the Modern Era: Fixed, Floating, and Flaky”. Journal of Economic Literature, Vol. 49, No. 3, pp. 652-672. Conclusioni simili sono ottenute da altri lavori, quali Eichengreen B., Andrew K Rose (2011). “Flexing Your Muscles: Abandoning a Fixed Exchange Rate for Greater Flexibility” NBER International Seminar on Macroeconomics Vol. 8, No. 1, pp. 353-391. Atish R. Ghosh, Anne-Marie Gulde, Jonathan D. Ostry, Holger C. Wolf “Does the Nominal Exchange Rate Regime Matter?” NBER Working Paper No. 5874, January 1997. L’unica eccezione è un lavoro che trova che nei paesi in via di sviluppo tassi fissi tendono ad associarsi con crescita più bassa, mentre nei paesi industrializzati non emerge nessuna differenza: Levy-Yeyati, Eduardo, Federico Sturzenegger (2003). “To Float or to Fix: Evidence on the Impact of Exchange Rate Regimes on Growth.” The American Economic Review, Vol. 93, No. 4. pp. 1173-1193. “
Nicola Branca
Rose è quello che nel 1999 diceva che il commercio nell’area Euro sarebbe aumentato del 200%. http://goofynomics.blogspot.it/2011/12/savonarola-vs-paperoga-decrescita-e.html
E questo è il link al lavoro preso di mira da Bagnai
http://ideas.repec.org/p/hhs/iiessp/0678.html
Credo che Rose sia poco affidabile.
IlGranchio
Analisi interessante. Mi viene in mente anche un’altra considerazione. Se a causa dell’uscita dell’Italia dal Euro il valore dell’euro dovesse aumentare rispetto al dollaro, potrebbero anche esserci effetti diretti negativi sul volume delle esportazioni, visto che indirettamente esporteremmo negli Stati Uniti in Euro.
chinacat
“Questa funzione della flessibilità del cambio, ben chiara a Meade nel 1957 (vale anche la pena di ricordare che nel 1977 Meade conseguì il Nobel), è totalmente assente dal panorama dell’attuale dibattito. Meade chiarisce bene che “flessibilità del cambio non deve essere inteso come
sinonimo di svalutazione del cambio” (a/simmetrie working paper No. 1/2014).
faldrigh
Distillato di doppio-pesismo.
1) la flessibilità valutaria non ha tanto l’obiettivo di rilanciare l’export quanto di contenere l’import e sostenere la domanda interna. Invece delle esportazioni lorde o quelle a valore aggiunto, volete parlare di esportazioni nette?
2) a fronte del debito pubblico c’è sempre un credito/asset da parte dello Stato. Come mai nell’e-book il secondo lato della medaglia lo vedete solo per il contributo al salvataggio della Grecia mentre non lo vedete per lo stock di debito pubblico complessivo?
Avete dato un’occhiata agli studi di Bagnai?
nextville
Distillato di incomprensibilità…..
1) Tipicamente una svalutazione provoca il “contenimento” (e non il “sostegno”) della domanda interna, per effetto della diminuzione del potere d’acquisto, sia verso i beni esterni (che costano di più per la svalutazione del cambio) che verso quelli interni (che si apprezzano per le componenti di costo importate).
2) Quale credito c’è “da parte dello Stato” “a fronte del debito pubblico”? Quale e-book? Dove si parla di salvataggio della Grecia? …
faldrigh
1) la scienza economica ha ampiamente dimostrato che il contenimento della domanda interna è causato dalle politiche di deflazione salariale e di connessa austerità fiscale imposte per conseguire l’equilibrio dei conti con l’estero in un sistema di cambi fissi. Al contrario, la flessibilità valutaria favorirebbe il riequilibrio della bilancia commerciale (meno import -non più import come dice Lei- e più export) e, per questa via, sosterrebbe al contempo la domanda interna favorendo la produzione nazionale. Questo è ciò che la scienza economica ha verificato (e ormai anche Prodi ha ammesso) e ciò che la storia ha ampiamente dimostrato.
2) riguardo al punto 2, mi scuso: dovevo essere più chiaro io ma credevo che un po’ di flessibilità mentale fosse rimasta, anche in assenza di quella valutaria. Vediamo se con una spiegazione più “rigida” il concetto diventa più chiaro. Dunque, l’e-book a cui mi riferivo è questo http://www.lavoce.info/euro-pro-e-contro/, che avrà certamente letto. Questa raccolta contiene l’articolo oggetto del post in commento (pagina 4) e altri contributi, come quello di Roberto Perotti (pagina 44) dal titolo “Quanto pesano sull’Italia i salvataggi europei”. Alla riga 8, dice “Il primo salvataggio della Grecia, nel 2010, fu fatto con prestiti bilaterali. L’Italia prestò in tutto 10 miliardi, raccolti emettendo debito pubblico; ma anche gli attivi dello stato italiano aumentarono dello stesso ammontare, pari al credito risultante verso la Grecia”. Questo passaggio è illuminante perché dimostra che così come il salvataggio della Grecia non è necessariamente stato un cattivo affare perché il debito pubblico è aumentato in misura corrispondente al credito maturato verso la Grecia, lo stesso debito pubblico non è un male in se, come Lavoce continua a predicare. Le passività accumulate hanno finanziato spesa corrente (che ha generato reddito) o spesa per investimenti (che ha creato asset). In aggiunta, ciò che per lo Stato è un debito, necessariamente risulta un credito per il risparmiatore privato (interno o estero). Il debito pubblico non è un male in se. Il problema della sostenibilità del debito è solo un problema di crescita. Ma questo ci riporta al punto 1. Per avere equilibrio dei conti con l’estero e sostenibilità delle finanze pubbliche si deve tornare alla flessibilità valutaria. Rimuovere l’austerity senza riallineare il cambio tornerebbe a far esplodere il problema dei conti con l’estero e saremo esattamente punto e a capo.
Morale della favola: è proprio così incomprensibile che i lati della medaglia sono due (import e export, non solo export; debito e credito, non solo debito)?
Maurizio Cocucci
Ho letto praticamente (quasi) tutti gli studi del prof.Bagnai. Posso condividere alcune posizioni mentre molte cose non mi hanno convinto quando addirittura non le ho trovate prive di ogni fondamento (esempio gran parte delle accuse rivolte alla Germania). E’ un peccato che il prof.Bagnai non accetta il confronto e le obiezioni che avevo avanzato. Evidentemente preferisce il dialogo a senso unico.
Non ritengo corretto inserire qui il link al mio blog dove appunto ho espresso tali perplessità e obiezioni ad alcune posizioni del prof.Bagnai e anche del prof.Borghi, però se ha possibilità mi trova su Twitter e da li c’è l’indirizzo per gli articoli in questione.