Lavoce.info

La web tax secondo il Governo Letta

La Legge di stabilità introduce la cosiddetta “Google tax” e  al contempo prevede interventi a sostegno dei libri. L’intento è apprezzabile, ma si tratta di misure estemporanee, che non prefigurano una strategia di lungo periodo su obiettivi chiari ed espliciti. 

GENESI DELLA WEB TAX

Si dice che il peggior avvocato sia quello che difende con gli argomenti sbagliati il cliente che ha ragione. Allo stesso modo, il peggior legislatore è quello che cerca di rispondere con leggi sbagliate a esigenze giuste. In questa Legge di stabilità ve ne sono alcuni vistosi esempi, quali la cosiddetta “Google tax” e le misure a sostegno dei libri. Ambedue si presentano come misure estemporanee che rispondono a sforzi lobbistici piuttosto che a disegni politici di lungo periodo e, come spesso capita in questi casi, rischiano di ottenere effetti indesiderati o insignificanti.
Il fatto che compagnie come [tweetability]Google, Amazon e Facebook, pur in presenza di fatturati importanti[/tweetability], paghino imposte pressoché minimali in Italia è qualcosa che impone una riflessione, se non un intervento concreto. Tre elementi concorrono a determinare una situazione siffatta: la libertà di stabilimento e la libera circolazione di beni, servizi e fattori produttivi all’interno dell’Unione Europea da un lato e, dall’altro lato, la competizione fiscale tra paesi spingono le imprese a collocarsi nel paese con il regime fiscale più favorevole e a esportare da lì in tutti gli altri. Nei settori dell’informazione, o dove i costi di trasporto sono ridotti, questa strategia diventa generalizzata e ha pochi elementi di attrito.
Nella sua prima versione, la cosiddetta “webtax” (fortemente voluta da Francesco Boccia, deputato Pd e presidente della Commissione bilancio della Camera) imponeva ai soggetti italiani di acquistare servizi online – dalla pubblicità al commercio elettronico – da imprese dotate di partita Iva italiana: il legislatore si prefiggeva il fine di obbligare le multinazionali di internet, come Google, Amazon, Facebook e le altre, a costituire soggetti giuridici italiani da sottoporsi a tassazione all’interno del nostro paese.
In una seconda versione – quella entrata nella stesura finale della Legge di stabilità – [tweetability]l’obbligo di partita Iva resta per la pubblicità online[/tweetability], mentre è stato tolto per il commercio elettronico. Per dirla con una battuta: Amazon libera, Google in croce.

Leggi anche:  Il gatto e la volpe alla conquista del mercato energetico

PERCHÉ NON FUNZIONERÀ

Un primo problema è costituito dal fatto che si tratta di una risposta non organica, che non prefigura una strategia di lungo periodo per limitare un’area grigia effettivamente problematica, ma piuttosto di una mossa d’impulso che ha già suscitato possibili rilievi da parte della Commissione europea.
A priori si potrebbe obiettare che un paese in forte ritardo nella sua agenda digitale, cioè nello sforzo di aumentare l’efficienza del sistema attraverso lo spostamento online di molte attività e servizi, dovrebbe incentivare quello spostamento anche dal punto di vista fiscale, con un regime di tassazione basso: sotto questo profilo, la competizione fiscale con paesi ad aliquote basse finisce per ottenere lo scopo senza ulteriori interventi da parte dei pubblici poteri italiani.
Dall’altro lato, le esigenze di gettito delle nostre pubbliche finanze spingono nella direzione opposta, ovvero a eliminare in maniera rigorosa le sacche di esenzione, anche quando vi sarebbero ragioni di politica industriale non irrilevanti. Su questo punto la scienza delle finanze fornisce indicazioni chiare: perde in partenza il paese che lotta in solitaria contro la competizione fiscale, in quanto la risposta più immediata consiste nel privilegiare altri mercati per la vendita di pubblicità online, a discapito dello sviluppo del settore all’interno del nostro paese. Intendiamoci: non stiamo parlando di una sparizione del settore – che è totalmente irrealistica – ma di un rallentamento del suo tasso di crescita che lo potrebbe arrivare fino a una stagnazione. La via maestra consiste invece nel coordinamento fiscale tra paesi, se l’intenzione è quella di combattere una competizione ritenuta distruttiva di base imponibile, cioè di gettito per gli Stati. Quindi, l’Italia dovrebbe creare un fronte comune con paesi come la Francia e la Germania per trovare soluzioni coordinate a livello di Unione Europea.
La seconda misura riguarda la possibilità di detrarre l’ acquisto di libri fino a un importo massimo di mille euro per i testi scolastici e mille euro per gli altri libri.
Innanzitutto, la misura esclude gli e-book, come se questi non costituissero supporto per la lettura. In secondo luogo, gli italiani che leggono spendono mediamente 100 euro l’anno per l’acquisto di libri. Quindi un tetto di 2mila euro appare totalmente sbilanciato, in quanto produce un effetto quantitativamente rilevante solo per i grandi lettori. Per arrivare ai mille euro, occorre acquistare oltre [tweetability]cinquanta libri l’anno: un livello di consumo che riguarda meno dell’1 per cento della popolazione[/tweetability]. Invece nella zona dei lettori deboli, quelli da uno-due libri, l’effetto probabilmente sarà trascurabile. Volendo aumentare la lettura, soprattutto al margine dei non lettori, misura che avrebbe un effetto più strutturale, ci sono probabilmente politiche più efficaci. Sarebbe interessante sapere se è stata fatta una valutazione costi-benefici, e sarebbe utile vederla. Per i libri di scolastica l’importo massimo è circa il doppio della spesa annua, ma se si vuole ridurre la spesa delle famiglie con studenti esistono misure più eque, come ad esempio un aumento delle borse di studio. Poiché l’acquisto di libri scolastici è obbligatorio, l’impatto della misura sulla lettura è pari a zero.
Gli unici beneficiari sembrano essere in parte gli editori e soprattutto i librai, ma più nelle dichiarazioni e nelle speranze che nei risultati effettivi.
In ambedue i casi, emerge la necessità di allineare obiettivi chiari ed espliciti con misure che effettivamente portino a quei risultati, e non solo a un ambiguo effetto dichiarazione.

Leggi anche:  Sovraturismo, un successo da gestire bene

Lavoce è di tutti: sostienila!

Lavoce.info non ospita pubblicità e, a differenza di molti altri siti di informazione, l’accesso ai nostri articoli è completamente gratuito. L’impegno dei redattori è volontario, ma le donazioni sono fondamentali per sostenere i costi del nostro sito. Il tuo contributo rafforzerebbe la nostra indipendenza e ci aiuterebbe a migliorare la nostra offerta di informazione libera, professionale e gratuita. Grazie del tuo aiuto!

Leggi anche:  Europa vaso di coccio tra Trump e la Cina?

Precedente

Se non è ignavia, è inefficienza

Successivo

Verso la comunicazione delle pensioni attese

14 commenti

  1. Una cosa fastidiosissima della legge è che esclude il pagamento a Google con carta di credito. Era una manna da cielo per noi imprenditori perché ci evitava di pagare in anticipo la pubblicità posticipando anche la valuta fino a 30 giorni con la possibilità di buyback in caso di problemi. Sono matti. Non hanno mai usato questi strumenti e sono del tutto incompetenti.

    • Bhè, purtroppo sembra che Google stia abusando della sua posizione dominante. Chissà se a distanza di 4 anni le cose non stiano cambiando.

  2. Bruno Arena

    Mi pare che non ci sia risposta alla domanda “perché non funzionerà?” contenuta nell’articolo. Si evidenziano -giustamente, eh- punti di criticità e basta. Ma perché “non funzionerà”?

    • Alex

      Non funzionerà perché ce la bocceranno in commissione UE, perché non sono previste sanzioni per chi non rispetta tali norme e perché di fatto, va nella direzione opposta a destinazione Italia e all’agenda digitale (che sono pezzi di puzzle diversi, sarebbe bello averne uno solo su cui lavorare). Nel concreto, il mondo andrà per la sua strada e questa roba resterà lettera morta dinanzi al fatto che se vogliamo avere un minimo di competitività online, dobbiamo sottrarci a queste bestemmie diventate legge.
      Can che abbaia non morde e qui si ulula alla luna senza nemmeno sapere com’è fatta.

  3. Un problema non trascurabile è che si sta facendo decidere questa “cosa” a delle persone palesemente ignoranti in materia. Queste persone sono ancorate ad un sistema economico decisamente vecchio, che non è assolutamente al passo con internet e con i suoi traguardi, sempre in costante aggiornamento.

    Concordo pienamento con l’autore, che parla di coordinamento fiscale tra i paesi dell’Unione. Però, il problema in questo caso è il digital divide tra l’Italia e gli altri stati. E la distanza, purtroppo, non si limita solo alla rete, ma anche al modo di pensare, ragionare, intendere e volere.

    • Luca Di Cesare

      Si evince la sua grande e profonda conoscenza della materia

      • Più di quanto pensa.
        Lavoro da poco nel mondo IT, ma so per certo un paio di cose: dapprima, la pessima alfabetizzazione informatica, sopratutto della maggior parte della “vecchia” generazione. Non bisogna essere programmatori o analisti senior, ma non bisogna nemmeno andare in panico per allegare un file ad una mail. Chi lavora nel settore sa bene che tipo di chiamate e richieste possono arrivare.
        Aggiungiamoci anche la scarsa conoscenza dei mezzi disponibili. Parlare di iPad e simili viene facile, a spiegare cosa puoi fare con un db e php ti prendono per pazzo (o mago del pc). É un paradosso vedere tanti personaggi su twitter e sapere che i vari db di procure, prefetture, caserme ecc. non sono collegati tra loro. Quando basterebbe poco.
        Aggiungiamoci anche l’aspetto pratico. Ad un commerciante che risiede in Germania, e vende i suoi prodotti in Italia, non posso imporgli la p. iva di due paesi. Si usa quella del paese dove risiede e poi si tassa la merce. Non é difficile. Con le grandi società informatiche si vuole fare lo stesso, ma il principio é errato di fondo.
        Il mondo informatico poi é vasto e arricolato. E sopratutto, a livello nazionale, richiede menti esperte e consapevoli delle opzioni migliori disponibili, per sceglire la via migliore. Ma noi ste menti non le abbiamo.
        Non è questo il posto dove mettersi a discutere di cursori e cicli, di protocolli e comunicazione 🙂

  4. Marco Bochatay

    Le grandi aziende del web (che poi fare di tutta l’erba un fascio è sempre pericoloso, visto che spesso trattasi di aziende che offrono servizi molto differenti) non si stabiliscono in Italia perché il regime fiscale è sfavorevole, e la risposta sarebbe quella di aggiungere un’altra tassa? Geniale! Tra l’altro, questa “web tax” finirà per danneggiare le piccole imprese italiane, non certo Google & co., che dato il potere di mercato possono benissimo alzare i prezzi nei confronti dei loro clienti.

    Chi ha disegnato questa tassa, comunque, dev’essere parecchio a digiuno di nuove tecnologie. Internet è un luogo così fluido, come fluidi sono i suoi contenuti, che dire “tassiamo la pubblicità su Internet” significa tutto e niente. Per dire, il New York Times dovrà aprire una partita IVA per giustificare le visualizzazioni in Italia dei suoi banner? Boh, chi la capisce è bravo.

    Riguardo i libri, beh, gli e-book non solo non vengono considerati in questa nuova proposta, ma sono ancora considerati software, e quindi costretti all’aliquota più alta dell’IVA, il che è a mio avviso paradossale.

  5. Marco Quadrelli

    Il problema consiste nell’imporre alle imprese italiane di acquistare servizi online solo ed esclusivamente da soggetti dotati di una partita Iva italiana.
    Da giurista che dal 1997 studia, scrive ed insegna tale materia, ritengo che la norma – oltreché contraria al diritto europeo ed incostituzionale.
    Per farla breve l’iniziativa è in contrasto con i principi di libertà di stabilimento e di libera circolazione delle merci dei servizi e dei capitali (art. 26 TFUE) e di libertà dell’iniziativa economica privata, che implica anche la libertà di commerciare fuori dei confini del territorio nazionale (art.41 Cost.).

    Cosa dimentica l’On. Boccia: per l’e-commerce indiretto, la disciplina che propugna è già regolata dalla direttiva 2002/38/CE All. L) (recepita dal DLgs 273/2003) per operatori non comunitari ed artt.67 ss. Dpr 633/1972 e Dpr 43/1973.
    Per l’e-commerce diretto lo stesso DLgs 273/2003 regola già la materia.
    Infine, le operazioni B2C sono equiparate alle vendite per corrispondenza, non sono soggette all’obbligo di certificazione mediante emissione di fattura né all’obbligo di certificazione mediante emissione di scontrino fiscale o di ricevuta.
    La soluzione che propongo: gli acquisti effettuati da privati in cui il trasporto e l’importazione sono compiuti da corrieri nazionali, abituali partner dei fornitori.
    All’atto dello sdoganamento delle merci per conto del cliente, le somme anticipate per conto del destinatario vengono addebitate a quest’ultimo alla consegna.
    Se le transazioni sono a mezzo posta, i diritti doganali e l’iva devono essere pagati dal soggetto importatore direttamente in dogana.
    Se pagabile tramite PayPall et similia, basta applicare un’aliquota fissa al bonifico con destinazione estera, altrimenti questo non parte.
    L’introduzione di partita iva per i fornitori business di prodotti venduti via Internet in Italia, induce in una ulteriore complicazione nello svolgersi dei commerci e non ci sono problemi di tracciabilità in quanto il flusso è tranquillamente verificabile
    in quanto pagato attraverso strumenti di riconosciuta affidabilità qual’è ad esempio PayPall. Se il problema è di gettito, occorre strutturare un accordo con i soggetti tipo PayPall prelevando al momento della transazione.

  6. michele

    Anche io non ho ben compreso la faccenda della detrazione su libri cartacei.

    Prima il governo toglie gli sconti, poi mette la detrazione. bah.

    Secondo me era meglio togliere la legge dell’anno scorso e mettere iva al 4 anche su ebook, più interventi liberalizzatrici del settore.

  7. Guidosdraculea Guglielmi

    bho vedremo

  8. Maurizio

    Sono d’accordo con i ragionamenti fatti quando ci si riferisce a prodotti immateriali. Credo tuttavia che ben diverso sia il problema della tassazione per gli operatori e-commerce che aprono sedi logistiche in Italia. Per loro infatti il costo del trasporto del prodotto dalla loro sede fiscale non è nullo. Questi soggetti beneficiano congiuntamente di un regime fiscale favorevole e di una organizzazione prossima al cliente collocata laddove vige un regime meno favorevole. Chiedo ai conoscitori della materia: questo assetto è accettabile dal punto di vista del diritto comunitario? Quali interventi sarebbero più adeguati?

  9. La solita follia forgiata dall’incompetente politica italiana, l’ennesimo caso in cui la cura rischia di rivelarsi peggio della malattia. Da un lato è corretto regolamentare maggiormente un territorio come quello del web, dove non sempre le regole sono chiare e giuste, ma nel fare questo non va “violentata” la natura dello strumento, col rischio di piombare nel medioevo digitale…

Lascia un commento

Non vengono pubblicati i commenti che contengono volgarità, termini offensivi, espressioni diffamatorie, espressioni razziste, sessiste, omofobiche o violente. Non vengono pubblicati gli indirizzi web inseriti a scopo promozionale. Invitiamo inoltre i lettori a firmare i propri commenti con nome e cognome.

Powered by WordPress & Theme by Anders Norén