Sotto la presidenza D’Amato, la Confindustria ha seguito una politica volta a ridimensionare spazio e ruolo delle relazioni sindacali e a derubricare il metodo della concertazione, ritenuto troppo macchinoso nel nuovo contesto competitivo. Questa strategia, in parte rivista nell’ultima fase, ha però prodotto un forte inasprimento della conflittualità e risultati incerti. Emblematica la vicenda dell’articolo 18. Per il nuovo gruppo dirigente si pone quindi un problema di generale ridefinizione della strategia di relazioni industriali.

Il cambio della presidenza di Confindustria può costituire un passaggio rilevante non solo per la dimensione associativa interna della confederazione imprenditoriale, ma più in generale per la vita economica e sociale del paese nel suo complesso, a cominciare dagli effetti sulle relazioni industriali.

Il ritorno della conflittualità

I quattro anni della presidenza D’Amato sono coincisi (specie i primi due anni e mezzo) con un improvviso ritorno di turbolenza nel sistema italiano di relazioni industriali e con una forte impennata della conflittualità, nel 2002 la più elevata dal 1986 (v. Tabella). Aumento in larga misura attribuibile, in costanza di scioperi connessi al rapporto di lavoro, a conflitti contro provvedimenti economici e sociali del Governo, spesso appoggiati da Confindustria
In quegli stessi anni Confindustria ha dovuto affrontare scelte difficili in tema di strategia sindacale, legate da un lato a un contesto competitivo molto impegnativo, connesso all’entrata a regime dell’Unione monetaria europea e alla crescente internazionalizzazione dell’economia, e dall’altro al cambio di maggioranza politica nella primavera-estate del 2001.

Il primo aspetto ha accentuato l’urgenza di riforme incisive nel mercato del lavoro (e nella previdenza) per compensare la perdita di flessibilità della politica monetaria e fiscale. Un’urgenza sottolineata sin dall’inizio della gestione D’Amato, e ritenuta poco compatibile con le difficoltose procedure decisionali della concertazione, appesantita sul finire degli anni Novanta dalla moltiplicazione degli attori coinvolti e da rischi di veti sindacali.

Il cambio di maggioranza politica ha creato anche alla confederazione imprenditoriale, oltre che ai sindacati, problemi di collocazione e di strategia, creando al tempo stesso condizioni apparentemente più favorevoli per ridurre l'”eccesso di pervasività” delle relazioni sindacali (v. intervento di Stefano Parisi in “Corriere della Sera”, 7-2-04) e introdurre quelle discontinuità nel quadro ereditato dal decennio precedente che Confindustria considerava necessarie.
In questo contesto la strategia adottata, almeno in una prima fase, è stata piuttosto adversarial. Una sostanziale adesione alle linee di politica del lavoro del nuovo Governo, espresse nel Libro Bianco di inizio ottobre (che riprendeva peraltro varie indicazioni presentate nel convegno confindustriale di Parma del marzo 2001), e soprattutto il pieno sostegno alle rilevanti ipotesi di modifica dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, inaspettatamente inserite nel disegno di legge delega n. 848 di metà novembre 2001, nonostante di esse non vi fosse menzione nello stesso Libro Bianco.

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A questa vicenda sono legate, come noto, le asprissime tensioni che hanno tenuto banco fino a tutta la prima metà del 2002 (solo parzialmente riflesse nei dati sulla conflittualità riportati in Tabella).
Resta indeterminato a quali specifici interessi intendesse rispondere un investimento così massiccio di Confindustria sul tema. Probabilmente non quelli della grande impresa, meno sensibile al problema disponendo anche di strade alternative (ristrutturazioni, riduzioni collettive di personale). Più plausibile quelli delle piccole e medie imprese, che costituiscono la maggioranza della base associativa e che nel 2000 avevano peraltro sostenuto la candidatura D’Amato contro il rappresentante della grande impresa.
Ma varie ricerche mostrano che in molte aree del paese il turn-over di manodopera in questa fascia di imprese è molto elevato e in non pochi casi le aziende hanno semmai il problema di attirare e trattenere i dipendenti, anche offrendo come incentivo il contratto a tempo indeterminato.

Certo, un successo avrebbe aumentato la flessibilità in uscita del mercato del lavoro e avrebbe rappresentato un segnale importante di ridimensionamento delle relazioni sindacali nell’economia italiana e di ripresa di spazi di gestione unilaterale dei datori di lavoro all’interno delle imprese. Ma né per le piccole né per le grandi la questione dell’articolo 18 sembra fosse la principale priorità in agenda.
La vicenda ha invece saldamente ricompattato tutte e tre le maggiori confederazioni, oltre a Ugl e molti sindacati autonomi. Esito per nulla scontato, viste le posizioni differenziate e non tutte negative (tra le stesse maggiori confederazioni) con cui era stato accolto il Libro Bianco. In più di un’occasione è sembrato che le posizioni dell’organizzazione imprenditoriale, allineate con quelle del Governo, abbiano offerto una sponda ideale per gli orientamenti più radicali in ambito sindacale. Le tensioni si sono in parte stemperate solo dopo che, a seguito del cosiddetto Patto per l’Italia del luglio 2002, le ipotesi sull’articolo 18 sono state stralciate dalla delega originaria e inserite, nettamente ridimensionate, in un apposito disegno di legge (n. 848 bis), non ancora approvato.
In breve, la strada prescelta sembra a molti osservatori essersi rivelata un errore strategico, per errata interpretazione delle preferenze della base, sottovalutazione delle capacità di resistenza dei sindacati e sopravvalutazione del carattere favorevole del contesto politico (diverso da quello della signora Thatcher degli anni Ottanta). Essa è riuscita a realizzare qualcosa di vicino al peggiore dei mondi possibili per la stessa Confindustria: forte rilancio della conflittualità, paralisi delle relazioni sindacali, ricompattamento anziché divisione tra i sindacati, scarsi e tuttora incerti risultati sul punto specifico.

In cerca di una strategia lungimirante

Al di là degli aspetti di merito della questione dell’articolo 18, rileva l’opzione generale in cui la vicenda si inserisce, volta a ridimensionare lo spazio e il ruolo delle relazioni sindacali in quanto tali, a derubricare la concertazione, a dichiarare superata la politica dei redditi e obsoleto l’accordo del luglio 1993.
Passata la fase più acuta del confronto, tale opzione è stata in parte abbandonata o rivista, anche per dissensi di una parte degli associati verso una posizione percepita come eccessivamente allineata con il Governo, estranea alla tradizione di Confindustria. Prese di posizione più ponderate circa la concertazione e la politica dei redditi da parte dello stesso gruppo dirigente si sono intensificate negli ultimi tempi, e nel corso del 2003 alcune significative intese sono state raggiunte con i sindacati, nonostante perduranti incertezze.

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Le posizioni in merito assunte da Luca di Montezemolo e dagli imprenditori che hanno sostenuto la sua candidatura alla nuova presidenza della confederazione testimoniano ora di una diffusa volontà di cambiamento di strategia anche in tema di relazioni industriali, rivedendo la problematica eredità lasciata dalla gestione precedente. Anche se gli amplissimi consensi ottenuti non eliminano una articolazione molto composita degli interessi degli associati – per dimensioni aziendali, settore merceologico, collocazione territoriale- che può comportare difficoltà di scelta, fino a paralisi decisionali.
Un esempio in proposito è rappresentato dalla questione della riforma degli assetti contrattuali, su cui negli anni passati non sono mancate preferenze variabili tra una forte decentralizzazione e il mantenimento di un ruolo importante del livello nazionale (vedi l’indagine allegata a “Il Sole-24 Ore”, 16-5-2002), ferma restando per Confindustria l’esigenza di evitare l’obbligatorietà del secondo livello di contrattazione.

Spetta dunque al nuovo gruppo dirigente di Confindustria affrontare questi problemi e definire una strategia all’altezza degli aggiustamenti di cui il nostro sistema di relazioni industriali ha bisogno nel nuovo contesto competitivo. Auspicabilmente una strategia che sappia valutare con lungimiranza le conseguenze delle opzioni prescelte e l’adeguatezza delle alternative disponibili rispetto a quelle che si intendono eventualmente abbandonare (politica dei redditi, accordo del luglio 1993, concertazione). E che tenga presente che anche per la più grande organizzazione imprenditoriale del paese si pone un problema di scelta tra etica delle convinzioni e etica della responsabilità.

 

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