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Cosa c’è di sbagliato nei Centri per l’immigrazione

Regna una discreta confusione nell’opinione pubblica sui compiti dei diversi centri destinati alla prima accoglienza dei migranti. Ma è tutto il sistema a presentare gravi lacune. Coabitazioni difficili in strutture costruite sulla base delle emergenze, troppo grandi e lontane dai centri abitati.

TROPPA CONFUSIONE SUI CENTRI

Disordini, incidenti, notizie di trattamenti disumani rilanciano in maniera ricorrente le polemiche sulle strutture pubbliche destinate ad accogliere o a trattenere richiedenti asilo, rifugiati, immigrati non autorizzati destinati all’espulsione. Sull’argomento regna molta confusione: le proteste sulle docce all’aperto di Lampedusa rilanciano la richiesta di chiudere i centri di identificazione ed espulsione e magari di abolire la legge Bossi-Fini. Vorremmo cercare di fare chiarezza sulle strutture che, con finalità anche molto diverse, accolgono immigrati stranieri e sulle più vistose lacune del sistema.
[tweetability]Il sito del ministero dell’Interno rubrica sotto un generico “centri dell’immigrazione” tre tipi di strutture [/tweetability]: i centri di accoglienza (Cda), i centri di accoglienza richiedenti asilo (Cara) e i centri di identificazione ed espulsione (Cie).
A prima vista, a queste espressioni sembra corrispondere una logica ordinatrice chiara e lineare. Innanzitutto, centri dove accogliere i migranti irregolari non appena arrivano nel territorio italiano; poi, una volta manifestata o meno l’intenzione di presentare domanda di protezione internazionale, segue il passaggio in un luogo deputato all’accoglienza dei richiedenti asilo oppure in un centro dove i migranti irregolari che non richiedono asilo vengono trattenuti per il tempo necessario alla loro identificazione e al loro allontanamento dall’Italia.
Ma in realtà il quadro non è così ben definito. Ed è per questo che si continuano a sentire e leggere discorsi confusi, quando non del tutto erronei, sui centri attraverso cui vengono gestiti gli arrivi e le permanenze delle persone che approdano sulle coste italiane: circa 35mila a metà ottobre 2013, ultimo dato disponibile.

TUTTI I LIMITI DEL SISTEMA

Per una descrizione dettagliata delle finalità dei diversi centri rimandiamo alla scheda che affianca quest’articolo. Qui vogliamo invece richiamare, seppure per sommi capi, le diverse lacune che il sistema dei centri presenta.
Lacune giuridiche: vi è scarsa chiarezza nella disciplina giuridica che norma l’istituzione e la gestione dei diversi centri. Spesso disposizioni con una limitata portata temporale (per esempio, la legge Puglia) diventano riferimento normativo per anni. In altri casi, queste lacune lasciano spazio alla comparsa di centri o tendopoli che sorgono extra legem.
Sottodimensionamento delle strutture di accoglienza: tutti i dati, anche quelli degli anni meno “caldi” (come 2010 e 2012) mostrano che l’attuale sistema è del tutto inadeguato sia dal punto di vista quantitativo sia da quello qualitativo a far fronte agli arrivi di migranti e rifugiati da paesi extra-UE. Difatti, fenomeni che si ripetono ciclicamente a seconda delle stagioni e delle condizioni del mare continuano a essere definiti e trattati come “emergenze”. Particolarmente gravi appaiono sia la scarsità di strutture formali e controllate dedicate alla primissima accoglienza (Cpsa), sia la carenza di posti per i richiedenti protezione internazionale. Diverse stime mostrano che tra il 30 e il 50 per cento dei richiedenti asilo non riesce a vedersi garantito il diritto a un’effettiva accoglienza durante tutto il corso della procedura.
Moltiplicazione delle strutture informali o eccezionali: in questo quadro non stupisce che a seconda delle annate e delle “emergenze” si renda necessario provvedere all’accoglienza delle persone arrivate predisponendo strutture transitorie, improvvisate o comunque non sostenute da una chiara regolamentazione giuridica. Nel 2011, per esempio, prima della gestione della Protezione civile e della cosiddetta emergenza Nord Africa (emblematica di per sé di un sistema d’accoglienza parallelo ed eccezionale), erano sorti centri provvisori di diverso genere a Mineo, Manduria, Trapani, Caltanisetta, Potenza, Santa Maria Capua Vetere. Di questi, solo il Residence degli Aranci di Mineo (ex villaggio residenziale connesso a una base statunitense) è diventato un vero e proprio Cara, con una capienza di diverse migliaia di persone. Quest’anno, anche se più in sordina, si è ripetuta la stessa situazione: solo a titolo di esempio, si segnala l’utilizzo di una struttura sportiva dell’università di Messina, il “Palanebiolo”, dove le persone (tra cui dei minori) sono state prima accolte in una camerata approntata dentro un campo da basket al chiuso e poi in una tendopoli montata nel campo da baseball (esposta dunque a pioggia, freddo e, soprattutto, fango); oppure il centro Umberto I a Siracusa, gestito da una cooperativa di pulizie e adibito a centro di prima accoglienza attraverso un accordo informale con la prefettura.
Anche il Cie di Milo (Trapani) è stato costruito nel 2011 a seguito della situazione “emergenziale”, nonostante nella città di Trapani esistesse già un Cie. La struttura del centro di Milo è completamente inadeguata alla sua funzione, infatti è il Cie in cui avvengono più fughe in assoluto (una media di circa sei fughe al giorno). Nonostante ciò, continua a essere utilizzato. Non va dimenticato che la concentrazione di strutture di questo tipo in aree economicamente depresse può risultare funzionale all’attrazione e distribuzione di risorse pubbliche.
Inadeguatezza qualitativa delle strutture di accoglienza: le critiche alle condizioni di vita, di igiene, di rispetto dei diritti fondamentali all’interno dei diversi centri arrivano ormai non solo da Ong, enti di tutela, agenzie nazionali e internazionali, gruppi e associazioni di migranti, ma anche dai massimi vertici europei, come nel caso delle reazioni dopo scandalo del video di Rai2 sulla “disinfestazione” a Lampedusa. Più in generale, si può dire che un sistema pensato su grandi centri, localizzati principalmente in prossimità dei luoghi degli sbarchi, si mostra da anni inadeguato sotto diversi aspetti. Innanzitutto, si tratta in molti casi di luoghi che offrono soluzioni alloggiative collettive per grandi numeri di persone: il Cda/Cara Sant’Anna in provincia di Crotone, per esempio, ha una capienza di quasi 1.500 persone; il Cda/Cara di Bari quasi mille, così come quello di Foggia. In queste strutture le persone sono spesso accolte in container o comunque in grandi camerate. L’affollamento dei campi rende necessario un trattamento per lo più collettivo e comunitario di diversi spazi e servizi, facendo proliferare le situazioni “da megafono” e rendendo difficile (per non dire impossibile) l’emersione e l’adeguata presa in carico di situazioni di vulnerabilità fisica o psicologica. Inoltre la vicinanza – che in alcuni casi si manifesta in una stretta coabitazione – con i Cie riverbera anche sui Cara lo stretto regime di sorveglianza e controllo che vige all’interno di quei centri: basti pensare al Cara di Gradisca d’Isonzo, che si trova dietro lo stesso alto muro che cinge il Cie, all’interno dell’ex Caserma Polonio.
Un altro aspetto fondamentale riguarda l’isolamento fisico di questi luoghi, che spesso si trovano lontani dai centri abitati, lungo strade trafficate e pericolose, all’interno di ex basi militari, ex basi aeroportuali (il Cda/Cara Sant’Anna) o ex caserme (il Cara di Gradisca d’Isonzo). L’isolamento non è ovviamente un tratto casuale dei centri: rende difficile l’incontro tra ospiti e comunità locali, che spesso guardano con sospetto – quando non con aperto timore – a questi luoghi affollati alle porte delle loro città e che si sentono rassicurate dalla segregazione delle persone al loro interno. Infatti anche se gli ospiti possono uscire dai Cara nelle ore diurne, è chiaro che la lontananza fisica da qualsiasi paese, dai servizi e dai rapporti sociali che lì potrebbero trovare, costringe di fatto le persone a trascorrere il proprio tempo all’interno del centro. A questo dato si aggiunge la gestione il più possibile “autarchica” della maggior parte dei Cara che si configurano come luoghi all’interno dei quali i richiedenti asilo devono trovare risposta (più o meno adeguata) a tutti i loro bisogni, rendendo di fatto superflua – per non dire pesantemente disincentivata – ogni loro uscita nel territorio: all’interno dei centri trovano il servizio di mensa, di barberia, di lavanderia, oltre a piccoli spacci che rappresentano i soli luoghi in cui possono spendere il pocket money di 2,50 euro al giorno che viene loro consegnato (in una sorta di “chiavetta” che non permette altro uso all’esterno del centro).
Il bando per 16mila posti per il Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati per il triennio a venire lascia aperta qualche speranza di un mutamento, almeno parziale, degli indirizzi politici rispetto all’accoglienza dei richiedenti protezione internazionale.

Leggi anche:  Un Patto per respingere l'immigrazione povera

 

 

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  1. Forse l ‘isolamento e i sistemi di sicurezza dei Cara tendono a impedire che il richiedente asilo si allontani dal Cara medesimo facendo perdere le sue tracce, soprattutto se le probabilità che la richiesta di asilo venga accolta sono modeste e le probabilità di espulsione siano conseguentemente maggiori.

    • doriana

      Queste persone non possono ricevere visite se non da parenti e non si può far recapitare loro i propri effetti personali, devono subire un trattamento umiliante ai limiti della dignità umana….il controllo della gestione delle risorse economiche a loro destinati e’ pressoché impossibile!

  2. AM

    Purtroppo l’inadeguatezza qualitativa delle strutture pubbliche è assai diffusa in Italia e riguarda scuole, caserme, carceri, sedi di polizia, uffici pubblici. Mancano i soldi? Però per gli uffici in affitto dei parlamentari non si sono fatte economie.

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