Innanzitutto intendiamo ringraziare i lettori per l’ampio riscontro ricevuto, in termini di riflessioni critiche, ma ancor più di “mi piace”, condivisioni e commenti positivi, se non, in alcuni casi, anche entusiastici. È questo riscontro il principale impulso per chi scrive editoriali come il nostro.
Il riscontro ricevuto ci fa capire che stiamo cogliendo un aspetto importante del nostro mercato del lavoro. I centri per l’impiego rappresentano il cuore del processo di ricerca di un posto di lavoro in ogni paese avanzato e renderli più efficienti è fondamentale in particolare per i giovani, ma anche per quegli adulti che attraversano una fase di passaggio difficile in uscita da un’occupazione e settore in declino verso altra occupazione e settore in espansione. La disoccupazione frizionale e da mismatch sono più alte quando i centri per l’impiego non funzionano bene e un paese con una disoccupazione (giovanile) così alta come l’Italia questo proprio non se lo dovrebbe permettere. Quindi, favorevoli e contrari alle nostre proposte sono tutti ugualmente benvenuti se si riesce a stimolare la riflessione e il dibattito su un nodo così cruciale. Speriamo di riuscire a smuovere le acque e a far ritornare questo tema in primo luogo al centro del dibattito, e poi anche del policy making.
IL RAPPORTO PUBBLICO-PRIVATO
Il rapporto fra pubblico e privato – dice bene Luigi Oliveri nel suo commento – dovrebbe essere non conflittuale, ma seguire necessariamente l’idea di una complementarietà, basata sul principio di sussidiarietà orizzontale. (1)
Oliveri pone il problema se questa complementarità debba essere per forza improntata ad un principio di divisione dei ruoli, come proponiamo nel nostro intervento, oppure consentendo a ciascun soggetto di svolgere lo stesso tipo di servizio in concorrenza/competizione con l’altro soggetto, come egli auspica. La nostra sensazione, fondata sull’esperienza di altri paesi con un welfare per molti versi più avanzato del nostro, è che il modello della divisione dei ruoli sia più efficace, se si adottano le precauzioni necessarie. L’operatore pubblico dovrebbe svolgere un ruolo di primo intervento e di profiling e poi assegnare la fase successiva a diversi operatori, i meglio attrezzati per lo svolgimento di ciascun compito, che siano essi pubblici o privati.
Certamente, la condizione affinché un’attività per sua natura eminentemente pubblica sia svolta da un privato è che si riescano a creare le condizioni per un quasi-mercato. Nel nostro intervento, sottolineiamo in modo molto chiaro la necessità di controllare l’operato dell’operatore privato e sottoporlo ad una serie di valutazioni senza le quali tutti i rischi paventati anche da noi in interventi precedenti potrebbero essere reali, come il gaming, il creaming, il cherry picking e così via discorrendo.
Nella gestione dei servizi per l’impiego, il ruolo dell’attore privato sta diventando sempre più rilevante in tutta Europa, oltre che nei paesi anglosassoni extra-europei, seguendo non sempre un percorso lineare. La necessità di una forte specializzazione delle competenze necessarie per realizzare alcuni compiti, comporta spesso l’impossibilità anche da parte dei Centri per l’impiego più “innovativi” di far fronte a tutte le numerose e multiformi richieste del mercato del lavoro. Ecco perché è divenuto sempre più necessario il ruolo del privato, non sempre legato alle agenzie di somministrazione, ma anche alle cooperative sociali, alle fondazioni, agli enti formativi e ad altri attori non profit.
Il punto centrale dell’articolo è evidenziare le “cronicità” che difficilmente consentirebbero all’attore pubblico da solo di affrontare le richieste del mercato.
- La necessità di disporre di un numero adeguato di dipendenti con elevata padronanza della lingua inglese (e francese). Senza questa condizione, lo sviluppo del portale Eures per la mobilità occupazionale in Europa o l’elaborazione di programmi europei grazie a partnership con servizi pubblici per l’impiego di altri paesi, non avverrà mai.
- La necessità di acquisire adeguate competenze in campo informatico o statistico, per sfruttare a pieno le fonti amministrative.
Con ciò non vogliamo dire che bisogna depotenziare i centri pubblici per l’impiego oppure che non ci siano eccellenze. Tutt’altro, le eccellenze ci sono e vanno stimolate ed estese per favorire l’innovazione nella gestione dell’operatore pubblico.
Un esempio di eccellenza si è verificato in queste settimane nel comune di Arcore. Un progetto tra i più innovativi in Italia ha consentito di mettere a disposizione del comune, della provincia e dell’Agenzia per il lavoro e la formazione della provincia di Monza e della Brianza un rapporto confidenziale dove sono indicate le principali aziende attive nel territorio (nome, settore, chance di collocare nuovo personale basato sulle performance passate, livello di flessibilità dei contratti). Una vera “mappa del tesoro”, dove sono segnati i contatti per costruire un “network” utile nel medio periodo per migliorare la fase di orientamento, la formazione professionale e ovviamente l’attività di incontro fra domanda e offerta di lavoro.
L’agenzia per l’impiego di Pistoia già realizza, come ci è stato detto tramite comunicazione personale, il profiling dei disoccupati. Ci sono anche altri esempi di eccellenza nel settore pubblico che non riusciamo, per motivi di spazio, a riportare qua.
Purtroppo, l’attuale realtà è che dei Centri per l’impiego, coloro che sarebbero in grado di sviluppare progetti europei sono “anomalie” piuttosto che la regola. È necessario potenziare l’attore pubblico per sfruttare meglio gli strumenti disponibili, ma il potenziamento del pubblico potrebbe non essere sufficiente in molte aree del paese, almeno nel breve periodo. Una via più breve potrebbe essere trovata allora delegando attori privati a svolgere alcuni compiti specifici, oltre al collocamento. Almeno in alcune realtà provinciali sarebbe l’unica strada.
È chiaro anche che bisogna garantire la possibilità da parte dell’attore pubblico di sottrarre la delega al privato nel caso di comportamenti opportunistici oppure nel caso in cui i risultati concordati non siano stati raggiunti. Ciò è esattamente quanto avviene nel Regno Unito, in Olanda e in Australia, paesi dove la delega al privato si è sviluppata di pari passo con i controlli e le valutazioni da parte del pubblico.
LA VALUTAZIONE
Proprio la valutazione è un altro punto cardine. Si comprende ormai sempre più diffusamente che anche l’operato del pubblico dovrebbe essere sottoposto a continua valutazione per incentivare i comportamenti virtuosi e scoraggiare quelli insoddisfacenti. I nostri Centri per l’impiego non realizzano (se non in casi rari e spesso auto-referenziali) indicatori della loro capacità di collocamento. (2)
A ciò si aggiunga che l’attività di intermediazione non rappresenta il loro principale scopo, ma è una delle attività e dei servizi offerti dai Centri per l’impiego. Infatti, l’obiettivo prioritario di questi uffici è migliorare la chance di collocamento dei soggetti più svantaggiati (nota come ”occupabilità”), piuttosto che trovargli direttamente un lavoro.
Questo aspetto è una fonte importante dell’avversione che i centri per l’impiego trovano nell’utenza, soprattutto perché essi vengono comunque percepiti come i luoghi dove “devono trovarti un lavoro”. Su questo punto, è interessante ricordare quanto successo in Olanda quasi 15 anni fa. I Centri per l’impiego pubblici vennero rinforzati, migliorati e aggiornati, ma le riforme attuate si sono tradotte in una vera e propria “catastrofe”. Il fenomeno del “parcheggio” dei disoccupati in attività di formazione professionale e orientamento al lavoro ha assunto un carattere macroscopico. Il tutto, va sottolineato, è stato realizzato con una spesa di circa un miliardo di euro all’anno in un contesto poco più grande della Lombardia. Da qui è nata con il nuovo millennio la riforma Suwi, che ha previsto la privatizzazione dei Centri per l’impiego, secondo il principio del “black-box”, già citato in altri nostri interventi: l’occupazione dell’utente destinatario della misura, qualunque sia lo strumento utilizzato, rappresenta il principale obiettivo da conseguire, in alternativa non viene rimborsato l’impegno dell’attore privato delegato al collocamento.
L’unica eccezione riguarda alcuni particolari target, come i disoccupati di età superiore ai 50 anni e con un basso livello d’istruzione. Anche qui sono necessarie competenze specifiche, a partire dal bilancio di competenza e dalla consulenza di esperti nella riqualificazione professionale di lungo periodo che difficilmente possiamo trovare oggi (tranne rare eccezioni) all’interno dei centri per l’impiego.
(1) Per maggiori informazioni si veda Giubileo F., Manzoni, C., Parma A. e Zoller L., Una mappa del tesoro per Arcore, aggiornato a novembre 2013.
(2) Un timido tentativo è stato realizzato da Stefania Fornari, sull’operato delle attività svolte dalle Afol in provincia di Milano: Cosa sono e cosa fanno le agenzie Afol in provincia di Milano.
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Adele Bianco
Gentili Autori, avevo visto quando è uscito il
Vostro articolo e mi aveva lasciato non poche perplessità; solo ora intervengo nel dibattito. Tanto per sgombrare il campo, avendo vissuto sulla mia pelle le riforme del mercato del lavoro, specifico subito di essere sempre stata ferocemente contraria a queste riforme, tanto alla privatizzazione del Collocamento, quanto al conferimento agli Enti Locali della materia Collocamento. Contraria alla privatizzazione del Collocamento (direte voi: ce lo chiedeva l’Europa; non sempre l’Europa ha ragione, replico io da europeista convinta) perché, ma questa è una posizione
personale, scuola, sanità, infrastrutture e lavoro devono essere amministrate e gestite SOLO dallo Stato. Contraria al passaggio di tale materia agli Enti Locali, ritenendo che errore più grande non potesse essere fatto e per
inesperienza e inadeguatezza di questi ultimi e del loro personale e perché la materia medesima ne risulta frammentata. Inoltre, più complessivamente, l’esperienza di federalismo soft, cioè il decentramento amministrativo, è, come si vede oggi, naufragata miseramente. È stata invece chiara la volontà del Ministero di “mollare la presa” sull’ex-Collocamento, come mostra la vicenda dell’informatizzazione che si è andata disperdendo in mille rivoli.
Insomma: una strategia perdente su tutta la linea e non basta citare le eccellenze o promuovere le “buone pratiche”.
Il dibattito che ora dopo oltre dieci anni si rianima riguardo ai Centri Impiego e ad una loro possibile riforma, mi dimostra che siamo al punto di partenza, o forse messi peggio perché più divisi, anziché essere più uniti e omogenei circa la quantità e qualità dei servizi e le opportunità offerte agli aspiranti lavoratori. Si parla nuovamente di questioni che evidentemente non sono state risolte quando sono state affrontate, per il semplice motivo che o non potevano essere risolte con un
decreto dalla volontà riformatrice o perché il metodo era errato.
Nell’articolo conclusivo del 22 novembre, vi riferite principalmente al rapporto tra pubblico e privato. Mette
conto ricordare che il Collocamento prima e il Centro Impiego poi sono sempre stati disponibili e collaborativi: era la legge ad imporcelo. Piuttosto le aziende sono sempre state molto restie ad esplicitare i loro fabbisogni
occupazionali per favorire l’incontro domanda /offerta, ovvero consentire una migliore programmazione anche di attività di formazione.
Alla concorrenza/competizione costruttiva tra pubblico e privato non ho mai creduto, giacché la scelta fu di lasciare gli incollocabili al pubblico, che tanto, si sa, è inefficiente.
Quanto al privato, esso ha ormai un suo mercato consolidato e mi pare difficile possa essere riconvertito o convinto ad operare in modo diverso da quello messo
a punto e sicuramente ottimale per l’organizzazione d’impresa. Insomma, il problema è del pubblico, non del privato: il settore pubblico è servente la collettività – dunque anche il settore privato in questa materia – e non il
contrario.
Circa la ripartizione dei compiti tra pubblico e privato esemplificata – un primo profiling a cura del pubblico e
la fase successiva seguita dal privato – potrebbe indurre in confusione il disoccupato (che si sentirebbe sballottato da una parte ad un’altra), nonché rappresentare una difficile distinzione di ruoli e di compiti tra i due soggetti nella presa in carico dei disoccupati più problematici.
Circa le competenze professionali (linguistiche, econometriche ecc.) che si propone gli operatori dei
Centri Impiego debbano avere, questo fatto implicherebbe una loro retribuzione adeguata (la conoscenza di due lingue straniere può essere messa meglio a frutto ed essere ben più redditizia che sedere presso i Centri Impiego provinciali). Sarebbe invece necessaria una loro preparazione specialistica di livello universitario finalizzata all’inserimento in questo ambito specifico di servizi: intendo con questo la creazione di corsi di laurea specificamente dedicati alla formazione di operatori di questo tipo da destinare, tanto nel settore pubblico quanto nel settore privato. In altri termini chi lavora in questo settore, sia con un datore pubblico che privato, DEVE avere alle spalle questo tipo di studio specialistico che ingloba materie come: le storie (economica,
sociale, contemporanea); il diritto del lavoro; il diritto UE; le psicologie attinenti a questo ramo; le sociologie attinenti a questo ramo; la statistica economica; le politiche sociali; l’economia del lavoro; le lingue straniere;
stage in centri impiego degli altri paesi europei.
C’è interesse a fare tutto questo? Altrimenti ci si affida solo alle capacità, dedizione e risorse del singolo impiegato che, per miracolo, trae ancora motivazione da un lavoro sottopagato e misconosciuto (già è un dipendente pubblico, in più inutile perché non in
grado di “mandare a lavorare” nessuno).
Infine: perché fare sempre e solo le riforme nel chiuso dei laboratori degli ”esperti”? Perché non provare a sentire l’opinione dei tanti impiegati dei Centri Impiego che ogni giorno soffrono il dramma della disoccupazione (anche se stanno dall’altra parte)?
Solo loro sono in grado di dire quali sono i punti deboli dell’organizzazione del governo del mercato del lavoro e come intervenire sugli eventuali punti di forza, sviluppandoli.
Cordialità.
Adele Bianco
http://www.adelebianco.it
adele.bianco@unich.it
Adele Bianco
Gentili Autori,
avevo visto quando è uscito il Vostro articolo e mi aveva lasciato non poche perplessità; solo ora intervengo nel dibattito. Tanto per sgombrare il campo, avendo vissuto sulla mia pelle le riforme del mercato del lavoro, specifico subito di essere sempre stata ferocemente contraria a queste riforme, tanto alla privatizzazione del Collocamento, quanto al conferimento agli Enti Locali della materia Collocamento. Contraria alla privatizzazione del Collocamento (direte voi: ce lo chiedeva l’Europa; non sempre l’Europa ha ragione, replico io da europeista convinta) perché, ma questa è una posizione personale, scuola, sanità, infrastrutture e lavoro devono essere amministrate e gestite SOLO dallo Stato. Contraria al passaggio di tale materia agli Enti Locali, ritenendo che errore più grande non potesse essere fatto e per inesperienza e inadeguatezza di questi ultimi e del loro personale e perché la materia medesima ne risulta frammentata. Inoltre, più complessivamente, l’esperienza di federalismo soft, cioè il decentramento amministrativo, è, come si vede oggi, naufragata miseramente. È stata invece chiara la volontà del Ministero di “mollare la presa” sull’ex-Collocamento, come mostra la vicenda dell’informatizzazione che si è andata disperdendo in mille rivoli.
Insomma: una strategia perdente su tutta la linea e non basta citare le eccellenze o promuovere le “buone pratiche”.
Il dibattito che ora dopo oltre dieci anni si rianima riguardo ai Centri Impiego e ad una loro possibile riforma, mi dimostra che siamo al punto di partenza, o forse messi peggio perché più divisi, anziché essere più uniti e omogenei circa la quantità e qualità dei servizi e le opportunità offerte agli aspiranti lavoratori. Si parla nuovamente di questioni che evidentemente non sono state risolte quando sono state affrontate, per il semplice motivo che o non potevano essere risolte con un decreto dalla volontà riformatrice o perché il metodo era errato.
Nell’articolo conclusivo del 22 novembre, vi riferite principalmente al rapporto tra pubblico e privato. Mette conto ricordare che il Collocamento prima e il Centro Impiego poi sono sempre stati disponibili e collaborativi: era la legge ad imporcelo. Piuttosto le aziende sono sempre state molto restie ad esplicitare i loro fabbisogni occupazionali per favorire l?incontro domanda /offerta, ovvero consentire una migliore programmazione anche di attività di formazione.
Alla concorrenza/competizione costruttiva tra pubblico e privato non ho mai creduto, giacché la scelta fu di lasciare gli incollocabili al pubblico, che tanto, si sa, è inefficiente. Quanto al privato, esso ha ormai un suo mercato consolidato e mi pare difficile possa essere riconvertito o convinto ad operare in modo diverso da quello messo a punto e sicuramente ottimale per l’organizzazione d’impresa. Insomma, il problema è del pubblico, non del privato: il settore pubblico è servente la collettività – dunque anche il settore privato in questa materia – e non il contrario.
Circa la ripartizione dei compiti tra pubblico e privato esemplificata – un primo profiling a cura del pubblico e la fase successiva seguita dal privato – potrebbe indurre in confusione il disoccupato (che si sentirebbe sballottato da una parte ad un’altra), nonché rappresentare una difficile distinzione di ruoli e di compiti tra i due soggetti nella presa in carico dei disoccupati più problematici.
Circa le competenze professionali (linguistiche, econometriche ecc.) che si propone gli operatori dei Centri Impiego debbano avere, questo fatto implicherebbe una loro retribuzione adeguata (la conoscenza di due lingue straniere può essere messa meglio a frutto ed essere ben più redditizia che sedere presso i Centri Impiego provinciali). Sarebbe invece necessaria una loro preparazione specialistica di livello universitario finalizzata all’inserimento in questo ambito specifico di servizi: intendo con questo la creazione di corsi di laurea specificamente dedicati alla formazione di operatori di questo tipo da destinare, tanto nel settore pubblico quanto nel settore privato. In altri termini chi lavora in questo settore, sia con un datore pubblico che privato, DEVE avere alle spalle questo tipo di studio specialistico che ingloba materie come: le storie (economica, sociale, contemporanea); il diritto del lavoro; il diritto UE; le psicologie attinenti a questo ramo; le sociologie attinenti a questo ramo; la statistica economica; le politiche sociali; l’economia del lavoro; le lingue straniere; stage in centri impiego degli altri paesi europei.
C’è interesse a fare tutto questo? Altrimenti ci si affida solo alle capacità, dedizione e risorse del singolo impiegato che, per miracolo, trae ancora motivazione da un lavoro sottopagato e misconosciuto (già è un dipendente pubblico, sicuramente un raccomandato, un mangiapane a tradimento e inutile perché non in grado di “mandare a lavorare” nessuno).
Infine: perché fare sempre e solo le riforme nel chiuso dei laboratori degli “esperti”? Perché non provare a sentire l’opinione dei tanti impiegati dei Centri Impiego che ogni giorno soffrono il dramma della disoccupazione (anche se stanno dall’altra parte)? Solo loro sono in grado di dire quali sono i punti deboli dell’organizzazione del governo del mercato del lavoro e come intervenire sugli eventuali punti di forza, sviluppandoli.
Se solo li si fosse considerati e ascoltati a suo tempo ……!
Cordialità
Adele Bianco
http://www.adelebianco.it adele.bianco@unich.it