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Italiani per scelta

Un disegno di legge dà agli immigrati la possibilità di chiedere la cittadinanza italiana dopo cinque anni di residenza, oltre a prevederla dalla nascita per i loro figli nati in Italia. Ci allineiamo così agli standard internazionali. Si tratta di un’offerta pubblica di integrazione, che deve essere accompagnata da un impegno serio nel combattere le discriminazioni. Giusta la richiesta di giuramento di fedeltà alla nostra Costituzione a chi chiede di diventare cittadino italiano. Ed è un’occasione per riflettere sulla nostra identità nazionale.

Il disegno di legge governativo sulla concessione della cittadinanza italiana agli immigrati dopo cinque anni di residenza, e dalla nascita per i loro figli nati in Italia, sta sollevando ampie discussioni e polemiche, non sempre adeguatamente informate, né motivate. Vorrei dunque cercare di chiarire alcuni punti controversi.

Cittadinanza e integrazione

La cittadinanza dopo cinque anni non è un’apertura “buonista”, ipergenerosa, eccessiva rispetto agli standard internazionali. Vale lo stesso criterio in Francia, nel Regno Unito, negli Stati Uniti, per non parlare dei tre anni del Canada e dei due dell’Australia. Erano anomali, semmai, i dieci anni della normativa precedente, a cui faceva seguito un’istruttoria che durava in media tre anni e una risposta discrezionale (nella metà dei casi, negativa), da parte delle autorità italiane. (1)
Proprio su quest’ultimo punto occorrerà che le norme siano chiare, e lascino poco spazio a quelle interpretazioni e applicazioni discrezionali da parte delle burocrazie che tanta parte hanno avuto finora nei procedimenti amministrativi riguardanti le istanze degli immigrati.
Anche per la cittadinanza concessa alla nascita esistono importanti precedenti, a partire da Stati Uniti e del Regno Unito. E la norma consente di sanare l’anomalia che faceva di una parte dei figli di immigrati degli apolidi, rendeva incerto il loro diritto a risiedere in Italia una volta raggiunta la maggiore età e contrastava con la richiesta di piena e leale integrazione nel nostro paese. Contrariamente a ciò che alcuni hanno scritto, lo ius soli (e lo ius domicilii) si stanno imponendo come criteri per la concessione della cittadinanza nella maggior parte dei paesi avanzati.
La possibilità di accedere più agevolmente alla cittadinanza corrisponde per l’appunto a un’offerta pubblica di integrazione. Era in sé contraddittoria l’idea che gli immigrati, e ancor più i loro figli, dovessero “integrarsi” (qualunque significato si voglia dare a questo termine) in un sistema socio-politico che programmaticamente li escludeva: per esempio, insegnare il valore della democrazia, della partecipazione e della parità giuridica tra gli individui, entrava in contrasto con il fatto che ai ragazzi immigrati e ai loro genitori era di fatto negata la possibilità di diventare italiani. L’opportunità è invece concessa senza difficoltà ai discendenti di antichi emigranti italiani, anche se del tutto ignari della nostra lingua, storia, e cultura, a patto che riescano a superare l’estenuante trafila burocratica presso i nostri consolati all’estero. (2)
Nello stesso tempo, è evidente che la cittadinanza non è una bacchetta magica che produce automaticamente l’integrazione. Se gli immigrati saranno permanentemente discriminati nel lavoro, nel sistema educativo, nel mercato abitativo, se per fare un esempio, i loro titoli di studio continueranno a incontrare difficoltà pressoché insuperabili all’atto del riconoscimento, diventare cittadini non basterà. Servirà quindi un impegno serio a combattere le discriminazioni e a costruire effettive opportunità di integrazione. Proporrei al riguardo l’istituzione di un’agenzia o di un’Authority che renda visibile e pubblico l’impegno del nostro paese in proposito: su questo terreno siamo comunque notevolmente in ritardo rispetto al Centro e al Nord dell’Europa

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La lealtà verso l’Italia

Il problema della lealtà nei confronti del nostro paese da parte dei nuovi cittadini merita qualche ulteriore riflessione. Si può pensare di rendere più rigoroso, per esempio, non solo il test linguistico, ma anche l’accertamento della conoscenza degli elementi basilari della nostra storia, delle norme costituzionali, del funzionamento delle istituzioni politiche, in base al presupposto che chi chiede di diventare cittadino deve conoscere il sistema a cui intende partecipare.
Non sembra invece opportuno imporre la rinuncia alla precedente cittadinanza. A livello internazionale, si va nella direzione opposta, con crescenti aperture verso la doppia cittadinanza, considerata la formula che meglio rispetta l’identità composita dei migranti. (3) In alcuni paesi, come il Marocco, la rinuncia è impossibile, mentre in altri casi, per esempio in Argentina, le norme riconoscono tale facoltà agli italiani. In ogni caso, però, una tale previsione rende i nuovi italiani stranieri nella loro patria d’origine, e più difficile sia il loro ritorno, sia la realizzazione di investimenti economici nei luoghi d’origine.
Pretendere di valutare opinioni e atteggiamenti in materia politica, religiosa, morale, mi sembra invece problematico da realizzare e pericoloso sotto il profilo istituzionale: l’idea di uno Stato che si arroga il diritto di scrutare i cuori e le menti di chi domanda di diventare cittadino per valutare se manifesta i giusti “valori”, suscita brividi inquietanti. Mi pare invece sensata la richiesta di giuramento di fedeltà alla Costituzione, contenuta nel disegno di legge; difficile, però, andare oltre.

Una riflessione sull’”italianità”

I calcoli di comodo su chi saranno i beneficiari del voto degli immigrati hanno poco senso. In realtà, non lo sappiamo. Chi viene dall’Europa dell’Est, chi professa uno spiccato orientamento religioso cattolico od ortodosso, o forse anche islamico, chi è impegnato in un’attività indipendente o aspira a intraprenderla, potrebbe non votare a sinistra. Anche il voto di scambio va messo nel conto. Ciò che invece mi pare possibile e auspicabile è che divenga più civile il linguaggio politico riferito agli immigrati. Se guardassimo all’esperienza dell’immigrazione meridionale dei passati decenni, potremmo scoprire che anche verso quei nostri concittadini esistevano pregiudizi e discriminazioni. Ma il fatto che potessero votare ha contribuito in maniera decisiva a impedire che gli atteggiamenti più ostili risalissero fino ai piani alti della scena politica. Oggi invece in Italia abbiamo politici di rilievo nazionale che possono rivolgersi agli immigrati con epiteti sprezzanti, possono speculare su ansie e paure degli italiani per nascita, costruire fortune elettorali sulla chiusura verso gli immigrati, senza temere conseguenze di sorta.
Credo che le emozioni che il tema suscita abbiano a che fare con una dimensione nascosta e raramente resa esplicita: siamo abituati a “naturalizzare” l’appartenenza alla comunità nazionale, a dare per scontato che essere italiani significhi far parte di una popolazione omogenea, composta da persone che condividono terra, sangue, lingua, e per molti anche una religione. Aprire le porte della cittadinanza ad altri, che in modo evidente non condividono questi elementi, significa mettere in discussione l’idea “naturalizzata”, o se si vuole “etnica”, di italianità. Pensare che si possa diventare italiani per scelta, anche se si viene da un paese classificato come povero, o arretrato, o meno sviluppato, significa dover ripensare in che cosa consiste l’essere italiani. Chiedere ai nuovi italiani di condividere un certo insieme di valori, significa averlo definito e accettato. Ma se cominciassimo a discutere su quali sono i nostri valori irrinunciabili, ci accorgeremmo che un pluralismo sempre più accentuato di orientamenti rende tale operazione alquanto aleatoria per la stessa popolazione italiana per nascita. Con il senso di relatività che deriva dalla consapevolezza che le nostre nazioni sono in realtà “comunità immaginate”, forse un dibattito del genere potrebbe aiutare noi stessi a riflettere un po’ più a fondo sulla nostra identità nazionale.

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(1)
La normativa sulla cittadinanza è stata varata con voto unanime del Parlamento nel 1992, proprio quando l’Italia cominciava a ricevere flussi consistenti di immigrati. In base ad essa vengono normalmente rigettate le istanze di chi ha lavorato in nero, magari per anni, e non può esibire una denuncia dei redditi con valori ritenuti “adeguati”: una forma curiosa ma non infrequente, di colpevolizzazione delle vittime.
(2) Un ben più massiccio recupero della cittadinanza, ai sensi della legge del 1992, tra i discendenti di nostri emigranti in aree come l’America Latina, è stato frenato molto semplicemente dal fatto che i consolati non sono stati dotati del personale necessario.
(3) Oltre ai casi citati nella scheda qui sotto, anche Belgio, Svezia, Finlandia e altri paesi riconoscono la doppia nazionalità.

Tabella

 

Naturalizzazione                Ius soli                  Minori                   Rinuncia

 

 

Canada                                  3 anni                                                                No                          No                         

 

Francia                                  5 anni (*)                              No                                                      No

 

Germania                               8 anni                                    No (°)                                                                            

 

Regno Unito                        5 anni (**)                            No (°°)                                               No

 

Spagna                                  10 anni (***)                        No                          No                         

 

Stati Uniti                             5 anni                                                                No                         

 

 

 

(*) è prevista una deroga in caso di particolari legami con le istituzioni o la cultura francesi

(**) regole diverse (più favorevoli) valgono per i cittadini di alcune ex colonie

(***) bastano 2 anni per i cittadini filippini o di paesi ispano-americani

(°) ma se uno dei due genitori risiede legalmente nel paese da almeno 8 anni il figlio riceve la cittadinanza alla nascita

(°°) ma se uno dei due genitori risiede da tempo legalmente nel paese il figlio riceve la cittadinanza alla nascita

 

Nota alla tabella:

sotto la voce ‘naturalizzazione’ indico gli anni di residenza richiesti a un immigrato adulto per ottenere la cittadinanza;

sotto la voce ‘ius soli’ indico la previsione o meno dell’acquisto della cittadinanza alla nascita per il mero fatto di essere nati nel territorio

sotto la voce ‘minori’ indico l’esistenza o meno di regole particolari che consentano al figlio, nato o meno nel territorio, di un immigrato di ottenere la cittadinanza prima della maggiore età

sotto la voce ‘rinuncia’ indico se l’ottenimento della cittadinanza implichi o meno rinuncia a quella d’origine

 

 

(Scheda elaborata da Ennio Codini, Università Cattolica e Fondazione Ismu)

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  1. Nico Mazza

    Per costituire uno “standard internazionale” il quadro normativo riassunto nella tabella prodotta si presenta alquanto disomogeneo, anche non considerando gli svariati criteri di valutazione delle domande di cittadinanza nei diversi paesi.
    Molto omogenei sembrano in compenso i dati sugli effetti concernenti la coesione sociale, trascurati dall’Autore. In Gran Bretagna l’81% dei musulmani rivendica una identità islamica, contro un 7% che privilegia la nazionalità; dati simili in Spagna e Germania, e solo relativamente migliori in Francia (Corriere 15/08/2006).
    Negli USA la ispanizzazione della Florida ha prodotto una emigrazione di massa dei cittadini anglofoni, 140.000 dalla sola Miami nell’arco di un decennio (S.Huntington-La Nuova America).
    In Italia abbiamo un caso da manuale di cittadinanza senza alcuna integrazione socio-culturale costituito dalla minoranza di lingua tedesca altoatesina. Privilegi economici e norme di protezione (le “discriminazioni positive” auspicate dall’Autore) non hanno impedito che questa comunità richiedesse all’Austria l’assunzione costituzionale della “funzione di Potenza tutrice”(!) (Corriere 05/09/2006). In realtà la tendenza di una popolazione “altra” ad integrarsi, anzichè a costituire comunità separate, sembra proprio rispondere ad un banale calcolo di convenienza. E la concessione agevolata della cittadinanza, magari doppia, al costo di un burocratico giuramento di fedeltà, va evidentemente nella direzione della non-integrazione. Con provvedimenti di questo genere l’Italia “aperta” auspicata dall’Autore avrebbe la felice prospettiva di passare dallo status identitario di “comunità immaginata” a quello, ben più aleatorio, di comunità immaginaria. Con quale beneficio per il Sistema-paese tutto da capire.

    • La redazione

      Mi rendo conto che il tema della concessione della cittadinanza susciti emozioni e reazioni profonde. La tendenza delle legislazioni va verso una maggiore apertura all’acquisizione della cittadinanza, anche in paesi in passato molto “etnici”, e dunque chiusi, come la Germania. Negandola, non si otterrebbe certo una maggiore integrazione degli immigrati, semmai si inasprirebbero le chiusure reciproche: come sta avvenendo nel caso dei
      mussulmani in Europa. Non concedendo, o ritardando la concessione della cittadinanza, sarebbero meglio integrati? Negando la doppia cittadinanza (anch’essa sempre più diffusa, nel mondo) si ottiene l’effetto paradossale di spingere a radicarsi qui anche coloro che avrebbero interesse ad un certo punto, a tornare in patria, o a investire nei luoghi di provenienza. Non si avrebbe certo ottenuto una maggiore identificazione sostanziale con il nostro paese. Se il giuramento può essere solo un atto burocratico, ed è
      vero, questo vale anche per la scelta drastica della cittadinanza. Quando parlo dell’importanza del giuramento, che peraltro già esiste, come un altro lettore ha ricordato, intendo sottolineare l’investimento simbolico in un
      rituale civile che dia maggior valore a questo momento ufficiale di ingresso nella comunità dei cittadini.
      Il caso della minoranza tedesca è molto particolare: annessa con una guerra, è maggioranza in una determinata provincia di confine, con uno Stato-nazione confinante che ne ptarocina le rivendicazioni. Non mi pare ci siano nel mondo esempi analoghi riferiti a popolazioni immigrate.
      La paura dell’ispanizzazione dell’America nutrita da Huntington e da altri americani WASP è contraddetta da studi come quelli di Portes, sulla vitalità economica e cultura dell’immigrazione cubana, che ha contribuito a risollevare l’economia dii Miami; in ogni caso, il teorico dello scontro di
      civiltà non mi sembra una buona guida per la costruzione dell’Italia multietnica che, piaccia o meno, sarà ineluttabilmente parte del nostro
      futuro. Si tratta di decidere se gestire il cambiamento cercando di contemperare gli interessi delle diverse parti in gioco, oppure soltanto difendersi, finendo poi per dover accettare le immancabili sanatorie.

      m.a.

  2. luigi antonelli

    ho sempre molta difficoltà a condividere gli accostamenti con altri paesi a forte immigrazione in quanto le loro storie individuali descrivono una traettoria non imitabile.I nuovi paesi completamente disabitati quali USA CANADA ED ARGENTINA avevano necessità ovviamente diverse causa il momento storico (dovevano popolarsi)l’estensione del territorio e la ricchezza .I paesi europei quali francia ,inghilterra,spagna provengono da storie coloniali che implicano necessariamente una contaminazione sia in termini di CULTURA CHE DI LINGUA.Sottolineo l’elemento lingua in quanto è essenziale per facilitare l’integrazione.Perchè non prendere esempio dall’olanda che negli anni ha mostrato massima apertura all’immigrazione con consequenze nefaste tali da imporre una drastica rivisitazione delle loro leggi che sono diventate oggi tra le più restrittive in europa?L’italia necessariamente deve aprirsi all’immigrazione ma deve farlo pragmaticamente con regole certe e con una visione proiettata almeno a 50anni disegnando l’ipotetico paese che vuole costruire.Bisogna quindi immediatamente interrompere i flussi d’immigrazione “SUBITA ” passando ad un programma di immigrazione “SCELTA”in quanto deve essere il Paese ospitante a poter decidere il PROFILO DELL’IMMIGRANTE CHE VUOLE INTEGRARE.Lo sò in Italia quando si affronta quest’argomento immediatamente si solleva un coro di obiezioni .Però tutti i paesi oggetto di immigrazione hanno fatto questi tipi di scelte SELETTIVE IN BASE ALLE PROPRIE NECESSITA’e sarebbe opportuno che anche l’Italia incominci a ragionare co angolazioni nuove abbandanando i vecchi schemi incrostati di ideologia sessantottina.

    • La redazione

      Non sono un sessantottino, anche soltanto per motivi di età, e per molti aspetti mi ritengo un conservatore.
      Sarei d’accordo con Lei su vari aspetti, per es. l’importanza della conoscenza linguistica per l’integrazione degli immigrati, la necessità di governare l’immigrazione, di scegliere il profilo degli immigrati che si desiderano. Aggiungerei che la principale differenza tra la politica migratoria italiana e quella di altri paesi è la scarsa attenzione all’immigrazione qualificata.
      C’è solo un problema: chi sgoverna l’immigrazione? Chi favorisce arrivi spontanei e non programmati? Provi a pensare alle Sue conoscenze, e magari alla Sua parentela: quanti hanno fatto ricorso ad un’assistente domiciliare
      straniera per i loro anziani, senza metterla in regola? In seguito, le sanatorie diventano necessarie, poi i ricongiungimenti familiari, poi la fuoriuscita dai lavori iniziali alla ricerca di altri sbocchi, ecc.
      Quindi siamo noi italiani a scegliere una politica migratoria fai-da-te, continuando a negare in sede ufficiale di aver bisogno ogni anno di un consistente numero di lavoratori stranierei.

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