Il governo Monti ha il merito di aver fatto scomparire il tema dell’immigrazione dall’agenda politica e ha così contribuito alla normalizzazione della presenza degli immigrati in Italia. Anche il varo della ennesima sanatoria sembra non aver suscitato troppi contrasti. L’obiettivo è ancora una volta quello di far emergere uno zoccolo di lavoro sommerso, che distorce l’economia, produce concorrenza sleale ed evade gli obblighi fiscali e contributivi. Tuttavia, esistono alternative possibili alle regolarizzazioni di massa, che sono sempre una sconfessione della legalità.

C’è una costante nelle politiche migratorie italiane: è il ricorso alle sanatorie come principale dispositivo di governo dei flussi migratori. Ne hanno attuate governi di ogni colore, a partire dagli anni Ottanta. Le più importanti sono sei, le ultime due (2002 e 2009) a opera di governi guidati da Silvio Berlusconi, a dispetto di una retorica della fermezza nei confronti di immigrati e rom. Tutto ciò fa sì che l’Italia detenga il primato europeo delle regolarizzazioni di massa. Se aggiungessimo le sanatorie mascherate mediante i decreti flussi e altri provvedimenti minori, il totale sarebbe ancora più alto.

UNA QUESTIONE “NORMALIZZATA”

Nel pieno dell’estate, anche il governo Monti ha varato la sua sanatoria, sotto le vesti di un decreto legge (109, del 16 luglio 2012) che recepisce finalmente una direttiva europea sullo sfruttamento dei lavoratori immigrati in condizione irregolare (n. 52 del 2009) e istituisce, tra l’altro, uno speciale permesso di soggiorno di natura umanitaria per i lavoratori sommersi che denuncino i datori di lavoro che li sfruttano, come richiesto da tempo da sindacati e organizzazioni sociali. Una norma transitoria consente però ai datori di lavoro di mettersi in regola, presentando un’autodenuncia tra il 15 settembre e il 15 ottobre, dietro versamento di un contributo forfetario di 1.000 euro per ogni lavoratore regolarizzato e debitamente assunto.
Due punti vanno ascritti all’attivo del governo in carica. Il primo è quello di non palesare le contraddizioni del precedente, tra discorsi improntati a una severità inflessibile e pratiche di tolleranza non dichiarata. Mario Monti ha voluto un ministro con delega alle questioni dell’integrazione, nella persona di un noto esponente cattolico come Andrea Riccardi, ma ha avuto cura di tenersi lontano da un tema così scottante. Ha mantenuto bassi i toni sull’argomento, evitando di impegnarsi sulla questione della riforma del codice della cittadinanza e rinunciando a emanare un decreto flussi per nuovi ingressi di lavoratori nel 2012. Dal punto di vista comunicativo, la grande novità del governo Monti sulla questione è quella, un po’ paradossale, della scomparsa dell’immigrazione dall’agenda politica: proprio questa sobrietà, per usare un termine caro al premier, ha contribuito allanormalizzazione della presenza degli immigrati in Italia. Quasi d’incanto, il tema è scomparso dai notiziari e sembra sceso di molto anche nelle preoccupazioni quotidiane degli italiani, oggi dirette verso ben altri aspetti. Dopo questa sorta di cura disintossicante, anche il varo della sanatoria sembra essere passato senza troppi contrasti. Si tenterà ancora una volta di far emergere uno zoccolo di lavoro sommerso, che distorce l’economia, produce concorrenza sleale ed evade gli obblighi fiscali e contributivi.
Il secondo punto all’attivo concerne il coraggio di muoversi in controtendenza rispetto allo scenario europeo: anche Spagna e Grecia, compagne di strada dell’Italia nella politica delle grandi sanatorie, hanno dichiarato chiusa quella stagione, allineandosi, almeno a parole, con l’arcigno atteggiamento dei paesi del Nord-Europa, dove da sempre il pragmatismo mediterraneo in materia è stato giudicato malevolmente, come prova di istituzioni deboli e politiche poco serie.

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LE TRE ALTERNATIVE

Rimane un dubbio non nuovo: le sanatorie non sono mai una scelta politica elegante. Significano una sconfessione della legalità, una resa dello Stato e delle sue leggi di fronte a comportamenti individuali che, diventando massa, ne decretano l’irrilevanza. A quel punto, la fermezza risulta controproducente e persino irragionevole. Ma in tal modo si comunica un messaggio di friabilità del diritto e si incentivano nuove trasgressioni.
Ma quali potrebbero essere le alternative? Bisogna ammettere che un certo tasso di irregolarità accompagna sempre la regolazione politica dei movimenti migratori. Come abbiamo dovuto imparare in questi anni, le chiusure rigide compromettono altri interessi, come il turismo o l’ingresso di studenti, e possono entrare in contrasto con i diritti umani tutelati dai trattati internazionali. La condanna dei respingimenti in mare da parte della corte di Strasburgo è una pagina nera delle nostre istituzioni che brucia ancora. Detto questo, almeno tre alternative alle sanatorie di massa potrebbero essere esplorate.
La prima riguarda le regolarizzazioni caso per caso, silenziosamente attuate da diversi paesi: persone che soggiornano da tempo sul territorio, non hanno carichi penali, lavorano, o hanno legami familiari stabili, magari figli nati qui, a un certo momento possono chiedere e ottenere un permesso di soggiorno.
La seconda possibilità è quella della conversione del permesso di soggiorno, già in vigore per chi consegue un titolo di studio in Italia: persone che entrano per turismo o per studio e trovano qualcuno disposto ad assumerle, potrebbero essere autorizzate a entrare subito nel mercato del lavoro regolare, cominciando quindi a pagare tasse e contributi. Si può pensare di prevedere prudenzialmente delle quote, o di limitare questa opportunità ad alcuni settori, come quello domestico-assistenziale, particolarmente esposto al lavoro nero. Credo sia da preferirsi un accesso facilitato al lavoro regolare in luogo del deplorevole mercato informale dell’assistenza a domicilio.
La terza possibile alternativa riguarda il ripristino dell’istituto dello sponsor (già previsto dalla legge Turco-Napolitano e subito dopo abrogato dalla Bossi-Fini), eventualmente riveduto e corretto. Ingresso per ricerca di lavoro per alcuni mesi, sotto una congrua fidejussione e la responsabilità di un garante, magari riservato a chi possa documentare la conoscenza previa della lingua italiana. Oppure sotto la supervisione di un soggetto (ente locale, sindacato, organizzazione di categoria, istituzione religiosa) disposto a farsi carico della formazione e dell’orientamento al lavoro: in luogo dei viaggi della speranza e del passaggio per i gironi danteschi dell’economia sommersa, è possibile concepire qualche soluzione più civile e più conveniente per tutti.

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