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Ius soli, una strada per l’integrazione

La legge sullo ius soli è il riconoscimento della trasformazione dell’Italia da paese di emigrazione a paese di immigrazione. E riguarda ragazzi che nella maggioranza dei casi non si sentono “immigrati”, ma italiani. È semmai una riforma incompleta.

Lo spirito della riforma

Il 15 giugno sono scaduti i termini per la presentazione degli emendamenti alla proposta di legge per l’introduzione dello ius soli (modifiche alla legge 5 febbraio 1992, n. 91), approdata al Senato dopo quasi due anni dall’approvazione alla Camera, nel settembre 2015. La questione è indubbiamente complessa e interseca diverse materie, ma è innanzitutto una questione identitaria: con la definizione di chi è “italiano” si delimita la comunità, generando differenze fra “cittadini” e “stranieri”.

I promotori della riforma sostengono che sia anacronistico non concedere la cittadinanza a bambini nati in Italia, che hanno frequentato le scuole nel nostro paese e molto spesso non hanno mai visitato quello dei propri genitori. L’attuale modello, infatti, risale al periodo in cui l’Italia era un paese di emigranti, pensato per mantenere un legame con i figli degli italiani che si trasferivano in Argentina, Brasile o Australia. Oggi, indubbiamente, le dinamiche demografiche sono cambiate.

I dubbi degli scettici sono invece legati principalmente al possibile effetto della normativa sui fenomeni migratori. Si teme, insomma, che questa “concessione” possa attrarre nuovi immigrati. In secondo luogo, molti ritengono che il diritto “del suolo” non sia un criterio sufficiente per concedere la cittadinanza, che invece dovrebbe considerare fattori culturali, linguistici e, appunto, di sangue.

Del resto, anche in Europa la situazione è tutt’altro che omogenea: ogni paese, in base alla propria storia (e ai movimenti demografici e migratori), ha elaborato un proprio modello cercando di equilibrare ius soli e ius sanguinis. Alcuni presentano uno ius soli quasi automatico, legato alla regolarità del soggiorno dei genitori. In Francia, la cittadinanza può essere richiesta dai genitori a 13 anni, se il bambino ha vissuto stabilmente sul territorio per almeno 5 anni. Oltremanica, ha la cittadinanza chi nasce nel Regno Unito da un genitore legalmente «stabilito» (cioè con un permesso di soggiorno senza termine). In Germania, vige uno ius soli automatico se un genitore risiede regolarmente da almeno 8 anni. Oltre all’Italia, solo Austria e Danimarca non prevedono il meccanismo dell’acquisizione per i nati sul territorio nazionale.

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L’impatto (potenziale)

In base al testo in discussione al Senato, possiamo stimare il numero dei potenziali beneficiari della riforma. Con l’introduzione dello ius soli temperato, potrebbero acquisire la cittadinanza italiana i bambini e ragazzi nati in Italia dal 1999 a oggi (ovvero ancora minorenni) i cui genitori sono in possesso del permesso UE per soggiornanti di lungo periodo (cittadini extra-UE) o il “diritto di soggiorno permanente” (cittadini UE). Secondo una recente indagine Istat, circa il 65 per cento delle madri straniere risiede nel nostro paese da più di cinque anni. Se riportiamo questa percentuale al numero dei nati stranieri negli ultimi 17 anni (976mila) e ipotizziamo che nessuno di loro abbia lasciato l’Italia, si stima che i nati stranieri figli di genitori residenti da almeno 5 anni siano 635mila.

Secondo lo ius culturae, ottengono il diritto alla cittadinanza i minori stranieri, nati in Italia o arrivati entro il compimento del dodicesimo anno di età, qualora abbiano frequentato regolarmente un percorso formativo per almeno cinque anni nel territorio nazionalePartendo dai dati del ministero dell’Istruzione relativi all’anno scolastico 2015-2016 (secondo cui gli alunni stranieri nati all’estero erano il 58,7 per cento degli alunni stranieri complessivi, ovvero 478mila), possiamo stimare 166mila alunni nati all’estero che abbiano già completato cinque anni di scuola in Italia.

Sommando i potenziali beneficiari per ius soli e ius culturae si ottengono 800mila potenziali beneficiari immediati (circa l’80 per cento del milione di minori stranieri residenti al 2016), a cui vanno aggiunti i potenziali beneficiari che ogni anno acquisiranno il diritto (nuovi nati o coloro che completeranno i cinque anni di scuola), una cifra compresa tra 55 e 62mila.

La legge rappresenta dunque il riconoscimento di un cambiamento in corso nel nostro paese da oltre vent’anni: da paese di emigrazione a paese di immigrazione. Si tratta del riconoscimento formale di una condizione già in atto: questi ragazzi non sono “immigrati”, si sentono italiani a tutti gli effetti e, in molti casi, non hanno mai vissuto nel paese dei propri genitori. Peraltro, i timori dovuti al pericolo terrorismo o alla criminalità non sono oggettivamente legati alla cittadinanza: anche negando il diritto, non avremo allontanato i potenziali terroristi o criminali. Al contrario, il riconoscimento della cittadinanza può rappresentare un segnale positivo sulla strada dell’integrazione, che è la più efficace arma contro la radicalizzazione.

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Tuttavia, la riforma appare ancora parziale perché si occupa solo dei minori stranieri e lascia invariata la procedura di naturalizzazione degli adulti – che possono fare richiesta dopo dieci anni di residenza legale, che diventano almeno dodici prima di ottenere una risposta. Anche in questo caso il nostro paese è molto più rigido rispetto ad altri stati europei: in Belgio e Olanda si parla di 5 anni; in Germania 8; in Spagna 10, ridotti a 2 per le ex colonie di lingua ispanica.

Tabella 1 – La situazione in Europa

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Se lo straniero diventa cittadino

  1. giovanni dettori

    Certo che la affermazione “…il riconoscimento della cittadinanza può rappresentare un segnale positivo sulla strada dell’integrazione, che è la più efficace arma contro la radicalizzazione” mi lascia interdetto. Messa così sembra quasi che con questa legge ci si auguri di ridurre la criminalità e il terrorismo, da cui si deriva che sono fenomeni direttamente connaturati con gli immigrati e i loro discendenti. E’ una ben triste constatazione soprattutto dopo che illuminati pensatori e politici per anni ci hanno detto che queste persone erano delle “risorse”. Si accetta l’evidenza che non lo sono e che dobbiamo dare loro un qualche contentino per impedire che si incazzino e ci facciano ancora più male di quello che già ci fanno.

  2. Massimo Matteoli

    Ottimo articolo, lettura consigliata a chi rischia di rimanere vittima dei mercanti di paura che per un pugno di voti speculano anche sui bambini.

  3. Michele

    Continuo a non comprendere perché la cittadinanza per gli stranieri è impostata in quasi tutta Europa come un diritto e non come un traguardo. Io non discuto assolutamente circa la giustezza di far transitare gli immigrati nella cittadinanza. Ciò che mi colpisce è che ciò sia visto come un diritto quasi automatico e non come un processo di identificazione culturale il cui sbocco sta a 16-18 anni dopo qualche forma di verifica. Non comprendo perché, come sembrano dire gli autori, l’essere diventato un paese di immigrati comporti criteri più laschi nella cittadinanza. Non è vero forse il contrario? Non è vero che l’inserimento nel paese di (anche ottime) persone in arrivo da certi paesi significa l’importazione netta di Medioevo (diritti negati alle donne, libertà individuali inesistenti, identità tra stato e religione, superata in Europa già a partire dal ‘700, ect)? Non è quindi utile aprire le braccia alla cittadinanza ma dopo un forte processo di integrazione/assimilazione? Si sono analizzate meglio le esperienze di Francia e Regno Unito (dove in certi quartieri pare viga la Sharia Law al posto del diritto inglese)?

  4. Henri Schmit

    Ottimo. Anche per precisione. Ius soli può significare automatismo o esigere una richiesta di naturalizzazione. Il secondo modo sembra più appropriato perché integra nella cittadinanza un elemento di volontà e di accettazione dei valori civici, costituzionali. Così è nato in Francia sotto la Rivoluzione: nel 1793 bastava per votare un anno di residenza! Gli USA sono un caso a parte; il “citizenship-shopping” di chi vi fa nascere i figli è tollerato perché riguarda quasi solo turiste benestanti. Lo ius soli vero è quello che permette allo straniero (immigrato regolare o rifugiato) di chiedere la cittadinanza dopo una residenza stabile. Non sono scandalosi i tempi lunghi della residenza, ma sono umilianti le procedure italiane, minimo quattro, non due anni. E giusto prevedere condizioni più semplici per figli di stranieri nati e/o residenti da anni nel paese. Fino a pochi anni fa la questione riguardava i rapporti fra paesi dell’UE e i loro cittadini migranti; la doppia cittadinanza è un problema perché dà diritto a votare al livello nazionale, cioè là dov’è la sovranità. Ora si pensa solo agli immigrati extra-UE. Bisogna invece distinguere la questione dell’immigrazione da quella della cittadinanza. L’immigrato non sceglie il paese di destinazione in base alle condizioni di naturalizzazione, ma in base alla posizione geografica, al diritto d’immigrazione e d’asilo (non coordinato fra paesi UE), al mercato del lavoro e al benessere generale raggiungibile dai più deboli

  5. Davide Cerragni

    18 su 30 dei terroristi islamici negli ultimi anni provengono da paesi con lo Ius Soli.
    Solo 2 provengono da paesi senza.
    L’integrazione e la statistica sono una disonesta opinione?

    • Maurizio Cocucci

      Lo Ius Soli è rivolto a tutti gli stranieri, non solo a coloro di religione musulmana, che diversamente da quanto forse ritiene non sono tutti terroristi come non lo erano gli italiani negli anni di piombo.

      • Alberto

        La cittadinanza è solo ampliamento formale di natura giuridica. Tizio può essere completamente disinteressato alla tradizione, religione (per quello che può valere), cultura, appartenenza al sentirsi parte integrante del gruppo sociale in cui vive ma esserne cittadino. La vera integrazione avviene con la volontà di rinunciare a parte della propria identità natia per accogliere, in prevalenza, quella della nazione ospitante. Che senso ha affermare che Abdul è cittadino italiano, ha ottenuto il famoso pezzo di carta, se poi nega ad esempio la parità con il genere femminile o la “educa” con punizioni corporali …

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