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Questione meridionale, problema di tutta l’Italia

La scarsa produttività del lavoro nel Sud è dovuta anche a problemi strutturali. La strategia più efficace è dunque una politica di investimenti per migliorare capitale umano, efficienza della burocrazia e trasporti, oltre al rispetto delle regole.

Vent’anni di bassa crescita

Nell’ultimo ventennio, l’economia italiana ha registrato risultati deludenti, in assoluto e nella comparazione internazionale (tabella 1).

Tabella 1 – Pil in termini reali (vma %)

Fonte: Annual Macro-Economic Database of the European Commission (Ameco).

Conviene ricordarlo anche per raffreddare entusiasmi eccessivi dopo il ritorno alla crescita oltre l’1,5 per cento, come accaduto nell’ultimo quarto dello scorso anno, a prescindere dal verosimile nuovo rallentamento che potrebbe manifestarsi già a inizio 2018.Fonte: Annual Macro-Economic Database of the European Commission (Ameco).

La tendenza a risultati peggiori degli altri paesi è distribuita in modo omogeneo lungo le diverse fasi di crescita-recessione-crescita, come si vede nella tabella 1. Infatti, il semplice calcolo dello scarto tra variazione media del Pil in Italia rispetto all’Unione europea nei diversi periodi evidenzia una penalizzazione del nostro paese che è pari all’1 per cento medio annuo nel primo periodo, si acuisce all’1,5 per cento durante la crisi e ritorna all’1,1 per cento durante l’ultima fase di ripresa.
Il che di per sé indica un problema nella struttura del nostro sistema socio-economico: appare in qualche misura indifferente alle fasi del ciclo, comportandosi peggio in modo costante rispetto al resto dell’Europa (e del mondo).

Il problema è la produttività totale dei fattori, cioè quella parte di prodotto che non è spiegata dall’impiego di lavoro e capitale dentro il motore del sistema come, per esempio, calcolato dalla Commissione europea (tabella 2).

Tabella 2 – Produttività totale dei fattori – (vma %)

Fonte: Annual Macro-Economic Database of the European Commission (Ameco); i dati relativi a Giappone, Australia e Canada non sono stati inclusi perché non disponibili nel periodo considerato nell’analisi empirica.

In un nostro recente lavoro, con dati regionali per l’Italia, abbiamo stimato un modello dove si è ipotizzato che la Ptf dipenda da quattro indici che misurano, rispettivamente, la qualità del capitale umano, l’accessibilità infrastrutturale, il livello di carico burocratico e il livello di illegalità. Questi indici spiegano le accelerazioni o i ritardi di produttività che non sono colti dallo stock di capitale produttivo e dall’occupazione. Nella figura 1 si riportano le dinamiche stimate per la Ptf per le quattro ripartizioni geografiche.

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Figura 1 – La Ptf per le macroaree italiane nel periodo 1996-2017

Elaborazione e stime Ufficio studi Confcommercio su dati Istat e Ameco.

Politiche per il Sud

Premesso che le nostre stime aggregate per l’Italia indicano una dinamica della Ptf più piatta di quella evidenziata dai calcoli della Commissione europea, sembra emergere una divaricazione territoriale radicale nel Mezzogiorno rispetto al resto del paese. Se queste stime sono attendibili, hanno implicazioni decisive in termini di politiche.
Per esempio, Tito Boeri in un recente articolo su lavoce.info evidenzia che in media i differenziali di produttività del lavoro tra un’azienda in Lombardia e una in Sicilia sono intorno al 30 per cento, mentre le differenze nei salari nominali a parità di qualifiche e nello stesso settore sono nell’ordine del 5 per cento. Di conseguenza, per rendere più competitive le aziende meridionali, Boeri suggerisce di adottare politiche che portino i salari in linea con i livelli di produttività locali.
I risultati del nostro esercizio portano a indicazioni differenti. Poiché le cause della scarsa produttività del lavoro nel Sud sono imputabili in larga misura alla produttività totale dei fattori – cioè a inefficienze strutturali, materiali e non – una politica di investimenti diretta a migliorare il capitale umano, l’efficienza burocratica, il sistema dei trasporti e ad accrescere il rispetto delle regole, costituirebbe una strategia più efficace della deflazione salariale.
Già Paolo Sylos Labini insisteva sui divari civili tra Nord e Sud, alludendo a disfunzioni più profonde di quelle meramente economiche – il cui processo emendativo non potrebbe certo passare dall’assistenzialismo. Se ripensiamo alle sue suggestioni, che senso avrebbe equalizzare il salario reale alla produttività del lavoro quando questa è strutturalmente inadeguata (anche) in ragione di un contesto deteriorato in modo intollerabile? Suonerebbe come una condanna all’emarginazione, seppure in nome dell’efficienza economica.

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  1. tito speer

    Chi non è piu’ giovane sorride quando si tratta di meridione perchè dal dopoguerra si parla del problema meridionale dicendo, piu’ o meno, sempre le stesse cose. Miliardi di parole sono state spese sull’argomento. Ma nessuno dice che è solo con una rivoluzione culturale che il sud potrà avicinarsi al nord e ne ha tutte le potenzialità e capacità. Ma una rivoluzione culturale è lenta e necessità di politici,di intellettuali, di sociologi. di economisti, di giornalisti capaci e intelligenti che abbiano attenzione nella società meridionale. Cosa che, forse è una utopia perchè manca un leader, uno statista, una guida che ne coordini le attività.

    • bob

      ..ma perchè il Sud deve avvicinarsi al Nord? A quale Nord? A Nord c’è uno statista? Oppure l’ Italia evoluta vogliamo far credere che sia di quelli con le corna in testa? Non sarebbe meglio parlare di Paese, soprattutto alla luce di nuovi scenari mondiali?

  2. enzo

    Mi sembra che gli indici scelti siano abbastanza complessi da ricavare. Come sono stati costruiti? sappiamo che il problema delle ipotesi economiche sono i presupposti su cui si basano. Sono stati testati su valori storici? esistono su serie storica correlazioni tra gli andamenti della ptf e pil (anche su dati di macroregioni euopee)? L’ipotesi di Boeri non mi convince : la vera questione è perché in italia non si parla di differenze di produttività e magari salariale tra aziende, piuttosto che fra territori.

  3. Chiara Fabbri

    Grazie del bell’articolo, il meridione d’Italia e i suoi cittadini sono stati completamente abbandonati in questi anni. Riportare il discorso pubblico sulla necessita’di garantire al Sud livelli minimi di investimento su scuola, sicurezza, trasporti, e’una questione urgente. Da troppo tempo chiunque scrive sul Sud lo fa solo per additare le evidenti carenze, senza mai proporre soluzioni credibili, incluse le necessarie risorse. Ad esempio ogni anno assistiamo alla liturgia delle valutazioni INVALSI, senza che i risultati deludenti delle scuole del sud si traducano in un aumento dei fondi per garantire il tempo pieno. Bene iniziare a parlare di nuovo di cosa fare per il meridione, andando oltre le liturgiche lamentazioni sui mali atavici.

    • bob

      lei che parla di scuola e di cultura si è mai fatta un giro in Veneto?

  4. Roberto

    Forse adesso anche il nord è un modello da ripensare. Forte industrializzazione urbanizzazione caotica e inquinamento ma comunque fragile e sensibile agli umori dell’ economia. Il mezzogiorno potrebbe diventare la California dell’ Europa se solo investisse in cultura dell ‘ ambiente e nella sicurezza.

    • Marco

      Lo stanno già facendo e molto bene altri paesi del sud del mediterraneo. Spagna Portogallo e aggiungo Grecia. Le quali spendono i fondi europei BENE ( vedere i mezzi di trasporto in spagna. La nuova Lisbona etc etc ) Quindi non serve dire POTREBBE serve dire facciamo. Perchè altrimenti le Californie le fanno gli altri ! Saluti

  5. Giuseppe Scrofina

    Anch’io ringrazio gli autori per le stesse ragioni ben espresse da Chiara Fabbri, proporre soluzioni per il dramma del Sud magari non cambierà lo stato di cose, ma contrasta col silenzio e l’invisibilita’ che fanno andare indietro il Meridione. Però
    non vedo incompatibilità tra la linea sostenuta da Bella e Di Sanzo e la proposta di Boeri, che, da quanto riferito in quest’articolo, mi ricorda le c.d. (dagli oppositori) “gabbie salariali” esistenti per i dipendenti statali fino agli anni 70. Penso che ci sia del buono in entrambe e che in generale sia da perseguire l’integrazione delle idee e la collaborazione tra studiosi.

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