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Cosa frena e cosa spinge la crescita del Sud

Ridurre i divari territoriali è cruciale per riattivare la crescita di tutto il nostro paese. Ma è inutile ripetere luoghi comuni sugli interventi della politica nazionale al Sud. Più utile capire le ragioni per le quali alcune politiche hanno funzionato.

Il rapporto Svimez 2019

Dopo quattro anni di crescita, nel 2019 il Mezzogiorno farà registrare una flessione del Pil dello 0,2 per cento, mentre nel 2020 è previsto solo un aumento di pari importo. La componente della domanda interna più dinamica nei quattro anni di crescita è stata quella per investimenti privati, mentre i consumi sono rimasti deboli e gli investimenti pubblici sono risultati ancora una volta in flessione, con la sola eccezione del 2015 (anno conclusivo per la spesa del periodo di programmazione europea 2007-13). Permangono divari pesanti nella dotazione di infrastrutture e servizi, nell’incidenza della povertà, nella presenza di lavoratori in condizioni di povertà (working poor) – quelli a tempo parziale e con occupazioni precarie. Il saldo demografico naturale (differenza tra nati e morti) è ormai da qualche anno diventato negativo anche per il Sud (lo è da tempo per il Centro-Nord) e procede il trend di invecchiamento della popolazione. Queste le principali ombre che, sulla condizione del Mezzogiorno d’Italia, emergono dal Rapporto Svimez 2019.

Non mancano alcune note positive: il tasso di crescita delle esportazioni è da qualche anno maggiore per le imprese operanti al Sud rispetto a quello, pur positivo, delle imprese che operano al Centro-Nord. Insieme con questo indicatore, la dinamica positiva degli investimenti privati testimonia che è attivo “un tessuto di imprese industriali che è in grado di cogliere le sfide dei mercati”. Positiva anche la crescita delle imprese innovative, sia start-up che piccole o medie imprese. Esistono, proprio nel Mezzogiorno, precondizioni importanti per una crescita basata sul cosiddetto green new deal, dal rilievo dei settori agricolo e alimentare alla crescita accentuata delle imprese biotech, con un valore della bioeconomia meridionale compreso tra i 50 e i 60 miliardi di euro.

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Un luogo comune da sfatare

Il Rapporto si conclude sottolineando che ridurre i divari territoriali è essenziale per riattivare la crescita complessiva del paese e che non è sostenibile una divaricazione di politiche tra assistenza per il Sud e sviluppo per il Nord. Conclusione che ritengo del tutto condivisibile, come pure i punti essenziali dell’analisi che ho prima sommariamente richiamato.

Mi lascia invece perplesso il riemergere a tratti nel Rapporto di un luogo comune che ritengo sostanzialmente aprioristico: alla politica nazionale viene imputato di aver disinvestito dal Mezzogiorno, di aver svilito invece che valorizzato le interdipendenze con il Centro-Nord, di aver indebolito il contributo del “motore interno” che poteva essere costituito da una ripresa dell’economia meridionale.

Un luogo comune non suffragato da quanto si sostiene nel Rapporto stesso: per esempio laddove si osserva che il buon andamento degli investimenti privati è stato sostenuto da strumenti di incentivazione nazionali come contratti di sviluppo, credito d’imposta Sud, Industria 4.0; o dove si rileva che la riduzione degli investimenti pubblici è da ricondurre, più che a scarsità di risorse, soprattutto a vincoli burocratici e carenze attuative particolarmente vistose nelle amministrazioni meridionali.

Invece di ripetere le accuse di disinvestimento, sarebbe stato più utile distinguere tra diverse impostazioni della politica nazionale. Credito d’imposta Sud e Industria 4.0 hanno funzionato perché si tratta di incentivi certi e automatici, di cui le imprese possono usufruire senza passare per procedure burocratiche o, peggio, intermediazioni politiche.

Questa osservazione induce a pensare che per sbloccare anche gli investimenti pubblici è necessario sfoltire la giungla delle autorizzazioni e delle procedure, nella quale si annidano spesso opportunità di intermediazione che vengono utilizzate da quelle che, sulla scorta di Daron Acemoglu e James Robinson, possiamo chiamare istituzioni “estrattive”. E va corrispondentemente rivalutato un ruolo forte di guida, coordinamento e monitoraggio, delle politiche nazionali su quelle regionali e locali, il contrario di quanto fatto per molti anni fino all’inizio del decennio, anni caratterizzati non da carenza di risorse ma dal ritrarsi della politica nazionale proprio dalla responsabilità di esercitare quella funzione di direzione che le è propria.

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  1. Proposta: tra i numerosissimi studi sugli effetti delle politiche per il sud, perché non si iniziano a censire quelli che rispettano gli standard condivisi dalla comunità scientifica internazionale (spoiler: sono molti meno)? Nel Regno Unito lo fanno (https://whatworksgrowth.org/) e la cosa aiuta a mettere in primo piano le voci autorevoli rispetto al rumore di fondo.
    Guglielmo Barone

  2. Nunzio Scicchitano

    Il problema principale e sempre quello e inutile girarci intorno se non si eliminano le mafie le camorre la ndrangheta e tutte le forme di violenza non ci sarà mai sviluppo il vero dramma del sud e solo quello non ce nemmeno la volontà politica di farlo perché sono collusi e corruttibili quindi il sud e destinato a morire altro che nord basterebbe eliminare questi parassiti e il sud sarebbe la forza trainante di questo paese tra bellezze naturali cultura cibo clima ecc. ecc. non ce ne sarebbe per nessuno cordiali saluti

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