Assicurare maggiore parità di genere produce non solo società più eque, ma anche più benessere economico. Anche in Italia la situazione sembra migliorata, almeno in alcuni campi. Ma vanno rimosse le radici profonde dei divari. Altrimenti, il processo sarà molto lungo e con possibili distorsioni.
DATI SUL DIVARIO DI GENERE
Oggi una donna è presidente della Federal Reserve, una è a capo del Fondo monetario internazionale, una guida la principale economia europea, altre due sono governatrici della banca centrale russa e di quella israeliana.
Si tratta di risultati importanti, probabilmente inimmaginabili solo pochi anni fa.
Tuttavia, come sottolineato anche da Christine Lagarde in occasione dell’uscita dello studio dello staff del Fondo monetario internazionale “Women, Work, and the Economy”, il problema del “soffitto di cristallo” è solo una parte della storia. Se misurato attraverso il Pil, il contributo delle donne all’economia mondiale resta ben al di sotto del suo potenziale. La partecipazione femminile al mercato del lavoro è ovunque inferiore a quella maschile. E anche quando le donne lavorano, è maggiore la probabilità, rispetto agli uomini, che abbiano impieghi informali, sottopagati, precari.
Il Global Gender Gap Report del 2013, che misura in 139 paesi i differenziali di genere rispetto all’accesso alle risorse e alle opportunità, mostra per la prima volta da diversi anni un miglioramento nella posizione dell’Italia, che risale dall’ottantesimo al settantunesimo posto. Certo non è un piazzamento di cui essere fieri, ma potrebbe rappresentare un segnale dell’avvio di un percorso. I progressi maggiori sono però quelli della sua componente “political empowerment”, per cui l’Italia si colloca al quarantaquattresimo posto (era al settantunesimo), mentre sul fronte delle opportunità e della partecipazione economica ci fermiamo al novantasettesimo posto (dal centunesimo).
Cosa sta dietro a questa posizione così arretrata e quali sono le radici profonde di questi divari?
Alcune indicazioni vengono da un progetto di ricerca condotto recentemente in Banca d’Italia sul ruolo delle donne nell’economia italiana.
Analizzando i divari nella partecipazione alla vita economica con alcuni indicatori, abbiamo una fotografia della situazione attuale, con luci e ombre.
LE OMBRE
Il tasso di occupazione femminile resta distante da quello maschile, al 46,8 per cento (nel secondo trimestre del 2013), con un divario di 18,1 punti. Anche se la distanza tra i due tassi è in graduale diminuzione (negli ultimi anni anche per la maggiore permanenza nel mercato del lavoro delle senior dovuta alle riforme pensionistiche e per la concentrazione delle donne nei settori meno colpiti dalla crisi), resta molto ampia soprattutto nel Mezzogiorno, oltre il 23 per cento. La maggiore difficoltà di accesso al mercato del lavoro è evidente anche per le giovani donne appena laureate: tra i laureati specialistici biennali, a un anno dalla laurea lavora il 55,5 per cento delle donne e il 63 per cento degli uomini. (1) Questi ultimi guadagnano il 32 per cento in più, solo per laureate e laureati in economia non sembrano esservi differenze significative nel reddito. I divari salariali restano in generale elevati: a parità di caratteristiche del lavoratore e della posizione ricoperta, nel 2008 hanno raggiunto il 13 per cento Tuttavia, i divari potrebbero essersi in parte ridotti per effetto della crisi, che in alcuni paesi europei ha implicato una diminuzione della componente variabile dei salari, tipicamente più elevata per gli uomini.
LE LUCI
Sta crescendo la presenza femminile nei consigli di amministrazione delle imprese, almeno per quelle quotate e quelle controllate dalle amministrazioni pubbliche, per effetto della legge 120/2011. Nell’agosto 2013, nelle quotate le donne avevano superato il 17 per cento, in quelle controllate direttamente dal ministero dell’Economia il 20 per cento. Nelle sole banche la percentuale di donne direttore generale, presenti in consigli di amministrazione o nei collegi sindacali, dal 7 per cento del 2011 ha superato il 10 per cento a giugno 2013. Stanno crescendo anche le imprese femminili: nei primi nove mesi del 2013 sono cresciute dello 0,27 per cento, contro lo 0,05 per cento di quelle maschili: rappresentano oggi il 23,6 per cento del totale, nonostante sperimentino spesso maggiori difficoltà nell’accesso al credito, accentuatesi durante la crisi finanziaria. (2)
Ovviamente, questi dati aggregati nascondono realtà complesse e un’elevata variabilità, ma suggeriscono che il gender gap nel sistema economico sia sì ancora significativo, ma in progressiva riduzione. Possiamo allora concludere che l’evoluzione è ormai inarrestabile, che è sufficiente attendere, diciamo, una generazione?
Potrebbero suggerirlo il fatto che i risultati scolastici delle ragazze sono (ovunque, non solo in Italia) mediamente superiori (si laureano con voti migliori e in tempi più contenuti), anche se persiste un minore orientamento verso le materie scientifiche; che le loro motivazioni e determinazione appaiono superiori; che in tutti i paesi avanzati il tema è oggetto di grande attenzione e di risposte di policy: per esempio, anche in Germania dal 2016 il 30 per cento delle nuove nomine nei consigli di sorveglianza dovrà essere femminile. (3)
Ma resta vero che il progresso potrebbe essere molto lento e associato a possibili distorsioni, qualora non venisse accompagnato dalla rimozione delle radici profonde dei divari. Un esempio: l’imposizione di quote di genere per i consigli di amministrazione produrrà un ingresso significativo di donne ai vertici, ma solo se verranno rimossi a valle gli ostacoli alla crescita professionale delle donne il processo risulterà non reversibile e assicurerà i benefici che si auspicano.
Quali sono gli ostacoli che vanno rimossi? Quali le radici “profonde” dei divari?
L’ampiezza, la persistenza e la pervasività dei divari di genere – che insistono su donne con caratteristiche differenti per età, livello di istruzione, qualifica professionale, status familiare, residenza geografica – suggeriscono che essi risiedano in una molteplicità di cause, che hanno effetti sia sulla domanda che sull’offerta di lavoro.
Sulla domanda di lavoro da parte delle imprese incidono le scelte di istruzione, spesso gli stereotipi, i fenomeni di discriminazione implicita, in parte associati alle diverse attitudini e preferenze di uomini e donne non esplicitamente riconosciuti. Sul fronte dell’offerta, ci sono vincoli di natura spesso culturale, le difficoltà di conciliazione tra vita e lavoro, in alcuni casi la scarsa convenienza (sul piano fiscale) a entrare sul mercato per il secondo percettore di reddito.
È ormai diffusa la consapevolezza che assicurare maggiore parità di genere produca non solo società più eque, ma anche maggiore benessere economico. (4) È quindi necessario uno sforzo su più fronti: quello culturale, che coinvolge i media e la formazione scolastica; quello relativo all’organizzazione del lavoro e il welfare aziendale, che coinvolge le imprese, pubbliche e private, grandi e piccole; quello relativo all’organizzazione della società, che coinvolge le amministrazioni pubbliche, spesso locali; quello relativo agli incentivi privati, come ad esempio la tassazione, e tutto quanto rende più conveniente condividere l’attività di cura piuttosto che lasciarla solo a un membro della coppia.
* Le opinioni espresse nell’articolo non coinvolgono l’Istituzione di appartenenza
(1) AlmaLaurea (2013), XV Rapporto sulla condizione occupazionale dei laureati.
(2) Si veda Alesina, A.F., F. Lotti e P.E. Mistrulli (2013), “Do women pay more for credit? Evidence from Italy”, Journal of the European Economic Association, 11(1), 45-66. E Cesaroni, M.F. F.Lotti e P.E. Mistrulli (2013), “Female firms and banks’ lending behaviour: what happened during the great recession?” Banca d’Italia, QEF n. 177.
(3) Sui risultati scolastici delle ragazze si veda Oecd (2012), Education at a glance, Paris; e Oecd (2012), Grade expectations. How marks and education policies shape students’ ambitions, Paris.
(4) World Bank (2012), Gender equality and development, World Development Report, Washington.
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AM
Speriamo che con papa Francesco anche la Chiesa si muova verso la parità di diritti fra umo e donna. Forse presto avremo parroci di sesso femminile.