Lavoce.info

Il segreto della ripresa tedesca*

Si attribuisce spesso alle riforme “Hartz” del mercato del lavoro il successo tedesco nella crescita industriale e nell’abbattimento della disoccupazione. Il risultato di una ricerca dice invece che la chiave di volta è stata il decentramento della contrattazione dai Lander alle singole imprese.

Dalla fine degli anni Novanta fino ai primi Duemila, la Germania era spesso definita “il malato d’Europa”.
Oggi, dopo la grande recessione, la Germania è descritta come una grande potenza economica. Il numero totale di disoccupati è sceso da 5 milioni nel 2005 a circa 3 milioni nel 2008, mentre il tasso di disoccupazione è sceso al 7,7 per cento nel 2010. L’export ha raggiunto un picco di 1700 miliardi di dollari nel 2011, che è uguale alla metà del Pil del paese e al 7,7 per cento dell’export mondiale.

OGGI TUTTI AL TRAINO DEI TEDESCHI

[tweetable]Come ha fatto la Germania, con il quarto Pil mondiale(dopo Stati Uniti, Cina e Giappone) a trasformarsi da “malato d’Europa” a locomotiva del continente?[/tweetable] In una recente pubblicazione abbiamo concluso che:
– L’incredibile trasformazione dell’economia tedesca è dovuta a un processo di decentralizzazione della contrattazione del lavoro senza precedenti. Ciò ha portato a una riduzione del costo del lavoro e alla crescita della competitività.
– Questo processo di decentralizzazione è stato reso possibile dalla struttura e dall’autonomia dei sindacati tedeschi. In un momento difficile per l’economia del paese, i sindacati hanno mostrato di essere molto più flessibili di quanto si potesse immaginare.
– Le riforme Hartz(2002-2005) non hanno giocato un ruolo essenziale. Sia il processo di decentralizzazione della contrattazione sia il miglioramento della competitività dell’industria tedesca sono iniziati alla metà degli anni Novanta, quasi un decennio prima.

LA POLITICA, DA SOLA, NON BASTA

La politica -se non ci fosse stata l’autonomia nella negoziazione dei salari- da sola non sarebbe riuscita a realizzare una tale decentralizzazione.
La ricerca offre spunti interessanti su quello che i paesi europei in crisi possono imparare dall’esperienza tedesca. Paesi come Francia e Italia, hanno istituzioni sindacali più centralizzate e molto meno autonome sul piano legislativo rispetto alla Germania.
I potenziali cambiamenti di sistema dovrebbero quindi affidarsi alla politica.
L’esperienza tedesca non offre comunque specifiche raccomandazioni sul tipo di riforme politiche da realizzare. Il caso tedesco porta invece l’attenzione sulle riforme che nell’ambito delle relazioni industriali hanno spostato la contrattazione salariale a livello aziendale nel pieno coinvolgimento dei rappresentanti dei lavoratori.

COME SI FA A MIGLIORARE LA COMPETITIVITÀ?

Il grafico 1 mostra i costi unitari relativi del lavoro in dollari dell’economia di alcuni paesi aggiustato in base alla composizione mutevole dei mercati in cui competono. Si vede che dal 1995, la competitività della Germania è cresciuta costantemente, mentre quella di alcuni suoi importanti partner commerciali europei come ltalia e Spagna è scesa costantemente oppure è rimasta invariata come nel caso della Francia.
Abbiamo concluso che nei primi anni Novanta, il sistema di relazioni industriali tedesco ha consentito un incremento senza precedenti della decentralizzazione (o localizzazione) della negoziazione che fissa gli stipendi, gli orari e gli altri aspetti delle condizioni lavorative da livello collettivo nazionale a livello di singola azienda o singolo lavoratore. Questo processo ha consentito di ridurre gli stipendi, in particolar modo nella parte più bassa della distribuzione salariale, e ha infine migliorato la competitività dell’economia.
Il sistema tedesco delle relazioni industriali non si basa sulla legislazione, ma invece sui contratti e gli accordi di tre attori principali:

Leggi anche:  Il triennio peggiore per i salari italiani

Grafico 1:
Grafico produttività tedesca
Fonte: OECD Economic Indicators.

i sindacati nazionali, le associazioni degli industriali e i rappresentanti dei lavoratori nelle aziende medie e grandi. Due maggiori sviluppi hanno contribuito a questo cambiamento: una forte riduzione della parte di lavoratori coperti da accordi sindacali e l’aumento degli accordi in deroga a quelli nazionali che ha rafforzato i rappresentanti dei lavoratori nelle aziende rispetto ai sindacati generali.

LO SCARSO CONTRIBUTO DELLE RIFORME HARTZ

Le cosiddette riforme “Hartz”, indirizzate al mercato del lavoro e realizzate dal Governo di Gerhard Schröder non sono state determinanti nel processo che ha portato al miglioramento della competitività dell’industria. Le riforme sono state implementate quasi un decennio dopo che questo processo di decentralizzazione e rafforzamento della competitività era cominciato. Le riforme avevano l’obiettivo di incentivare la ricerca di lavoro ma hanno contribuito poco al principale fattore che ha determinato il miglioramento della competitività, cioè la moderazione salariale a partire dalla metà degli anni Novanta.

DELOCALIZZAZIONE INDUSTRIALE E FLESSIBILITÀ

Perché la Germania ha visto un declino dei lavoratori sindacalizzati e una crescita di accordi industriali in deroga ai contratti collettivi solo a partire dalla metà degli anni Novanta e non prima?
Abbiamo concluso che il costo della riunificazione tedesca, unito alla rapida ascesa di un contesto globale sempre più competitivo, rendeva sempre più costoso per le aziende tedesche pagare gli alti salari negoziati coi sindacati. Le nuove opportunità di delocalizzazione della produzione in Europa dell’Est hanno cambiato gli equilibri di potere fra sindacati e associazioni degli industriali.
Questi cambiamenti hanno spinto i sindacati e i rappresentanti dei lavoratori a fare delle concessioni sui contratti collettivi di settore per non essere ulteriormente marginalizzati.
Le concessioni sono spesso sfociate in una riduzione degli stipendi. Di conseguenza, il mercato del lavoro tedesco si è dimostrato molto più flessibile di quanto si pensasse.
Perché gli altri paesi dell’Europa continentale non hanno reagito allo stesso modo della Germania?
Il sistema di relazioni industriali negli altri paesi non consente le stesse capacità di adattamento di quello tedesco. Molte del[tweetable]le regole che in Germania sono determinate dai contratti di lavoro sono leggi dello stato in altri paesi[/tweetable] (come il salario minimo in Francia) o implementate a livello nazionale(come ad esempio nel caso di accordi sindacali che si estendono a tutte le aziende) e richiedono comunque l’assenso ai massimi livelli per essere cambiate (anche a livello politico).

Leggi anche:  Bilancio positivo per l'occupazione nel 2023

UNA LEZIONE PER L’EUROPA

Anche se a volte si sente dire che alcuni paesi dell’Europa continentale dovrebbero adottare la loro versione delle riforme Hartz, la raccomandazione potrebbe essere fuorviante.
È stata la specifica struttura delle relazioni industriali tedesche che ha aperto la strada alla notevole decentralizzazione della negoziazione salariale.
Non dovrebbero essere quindi le riforme Hartz le politiche che la Germania raccomanda all’Europa (raccomandazioni spesso date da economisti tedeschi come Rinne e Zimmermann nel 2013 o da politici come la cancelliera Angela Merkel in un discorso nel febbraio 2013) ma riforme mirate al sistema di relazioni industriali, che possano sia decentralizzare la contrattazione sia coinvolgere i rappresentanti dei lavoratori in modo da assicurare di nuovo benefici occupazionali quando le condizioni economiche migliorano.

* Il testo integrale in inglese su Vox

Fonti:

Dustmann, C., Fitzenberger, B., Schönberg, U., Spitz-Oener, A. (2014): From Sick Man of Europe to Economic Superstar: Germany’s Resurgent Economy. Journal of Economic Perspectives 28(1), pp. 167-188; also available as CReAM Discussion Paper No. 06/14 at http://www.cream-migration.org/publ_uploads/CDP_06_14.pdf
OECD (2004, 2007, 2012). Employment Outlook, OECD Publishing, Various Issues, Paris.
Rinne, U., Zimmermann, K.F. (2013). Is Germany the North Star of Labor Market Policy?, IMF Economic Review, 61(4), 702-729.
Visser, J. (2013). Wage Bargaining Institutions – from crisis to crisis. Economic Papers 488,
European Commission, Brussels [downloaded from
http://ec.europa.eu/economy_finance/publications/economic_paper/2013/ecp488_en.htm on January 28, 2014].

Lavoce è di tutti: sostienila!

Lavoce.info non ospita pubblicità e, a differenza di molti altri siti di informazione, l’accesso ai nostri articoli è completamente gratuito. L’impegno dei redattori è volontario, ma le donazioni sono fondamentali per sostenere i costi del nostro sito. Il tuo contributo rafforzerebbe la nostra indipendenza e ci aiuterebbe a migliorare la nostra offerta di informazione libera, professionale e gratuita. Grazie del tuo aiuto!

Leggi anche:  L'alternanza scuola-lavoro? A volte porta all'università

Precedente

L’auto cinese: un gigante finanziario con poca tecnologia

Successivo

Start-up: se la crescita passa da un collo di bottiglia

52 commenti

  1. Emanuele

    “Le concessioni sono spesso sfociate in una riduzione degli stipendi. Di conseguenza, il mercato del lavoro tedesco si è dimostrato molto più flessibile di quanto si pensasse. Perché gli altri paesi dell’Europa continentale non hanno reagito allo stesso modo della Germania?”
    Forse perché, a differenza dei tedeschi, altri popoli non sono disposti ad accettare l’ipotesi che la mancata competitività sia esclusivamente dovuta ai salari, visto che la percentuale di questi sul Pil è in crollo verticale. In altre parole, perché non si potrebbe migliorare la competitività riducendo la parte dovuta alle rendite sul costo del prodotto finale? Così, tanto per cambiare disco ogni tanto.

  2. Stefano

    Il sistema tedesco di recuperare la competitività (e fare una guerra commerciale strisciante agli altri Paesi europei con una riduzione dell’inflazione interna molto al di sotto dei parametri stabiliti da Maastricht) ha funzionato perché gli altri Paesi europei ed il mondo non erano in fase di recessione, quindi la domanda estera di prodotti tedeschi ha compensato il calo della domanda interna dovuto alla riduzione dei salari degli operai tedeschi. Poi l’introduzione dell’euro ha impedito agli altri Paesi europei di reagire con una svalutazione monetaria alla svalutazione economica effettuata dalla Germania ed ha consolidato il vantaggio competitivo tedesco ormai non recuperabile (anche i francesi se ne stanno accorgendo). Adottare le politiche tedesche oggi in una fase di recessione globale vuole dire impoverire le classi medie dei Paesi europei con l’effetto che anche i tedeschi si vedranno ridurre le esportazioni in Europa. Tralascio poi che tali politiche hanno incrementato la diseguaglianza in Germania perché nella nuova occupazione i tedeschi considerano forme di lavoro precario che creano “consumatori interni deboli”, (con effetti sui consumi interni ormai evidenti) e che rendono l’economia tedesca strettamente dipendente dalle esportazioni: una faglia di futuri terremoti finanziari (R. Rajan, “terremoti finanziari”). Inoltre dubito che tali politiche di austerity possano favorire il processo di integrazione europea nell’opinione pubblica.

  3. Maurizio Cocucci

    L’articolo è molto interessante e sarebbe buona cosa se anziché essere animati dall’atavico istinto di invidia verso chi ottiene risultati migliori fossimo un po’ più umili da cogliere invece spunti da adottare. L’esempio relativo alla decentralizzazione degli accordi è uno di questi. Perché un lavoratore deve essere accompagnato da norme di legge e da contratti che coinvolgono interi settori invece di essere assistito dai rappresentanti locali? Perché allo stesso modo un orario di lavoro non può essere concordato azienda per azienda? Una risposta è semplice: perché così i sindacati pensano di conseguire maggior potere quando poi la realtà, in particolare quella nostra, dimostra il contrario dove le sigle sindacali si sono via via moltiplicate vista la crescente disaffezione dei lavoratori verso i sindacati storici. Inoltre l’articolo mi piace perché smonta molti luoghi comuni che vedono il successo tedesco come conseguenza dell’adozione dell’euro e delle riforme Hartz e in particolare la modifica dei contratti atipici noti come minijob e midijob. L’unico punto che a mio avviso non è chiaro e che potrebbe dar luogo a interpretazioni errate è quello relativo alla riduzione dei salari, vero da una parte ma non come potrebbe apparire. Un operaio o un impiegato tedesco mediamente guadagna oggi sempre di più di uno italiano o spagnolo. Quando si parla di riduzione occorre guardare al punto di partenza, ovvero a quanto guadagnavano a prezzi costanti negli anni ’90 visto che oggi il costo del lavoro tedesco è comunque superiore a quello di altri Paesi tra cui l’Italia, ergo noi con la nostra politica centralizzata, pseudogarantista e apparentemente ricca di diritti guadagniamo meno, abbiamo tassi di disoccupazione vergognosamente alti e produttività inferiori. Qualche riflessione sarebbe il caso di farla, possibilmente mettendo la parte l’invidia.

  4. Guest

    Grazie (enfasi d’obbligo).Editoriale davvero molto utile.

  5. Marcello

    Gli autori spiegano molto bene che il successo dell’economia tedesca avviene attraverso una seconda svalutazione competitiva. La prima è stata durante il passaggio dal marco (moneta forte) all’euro (moneta più debole perché il suo valore era media di un paniere di valute con forza ben diversa). Al contrario l’Italia nel passaggio da lira ad euro ha in realtà rivalutato rendendo meno competitivi i propri prodotti sul mercato. La seconda svalutazione sta appunto nella riduzione dei salari. In entrambe i casi a rimetterci sono i lavoratori. Qualcuno dirà che è meglio che perdere il lavoro. Direi che vedersi ridurre il salario è meglio di morire di tumore o cose simili; non è che disegnando scenari peggiori possiamo vedere per forza il bicchiere pieno. La Germania inoltre non è il motore dell’europa, ma casomai la sua economia viene trainata dal continente. Il dato di surplus commerciale rispetto ai paesi europei, sopratutto del sud, sta a dimostrarlo. Se la Germania fosse così forte fuori dall’Europa e poi riversasse parte del surplus verso gli altri paesi europei suoi fornitori allora tanto di cappello ai teutonici, ma purtroppo i fatti ci dicono diversamente. Cosa accadrà poi, mi domando, quando i milioni di minijob e di lavoratori a stipendi abbassati arriveranno all’età della pensione? Quale pensione riceveranno? Cosa accadrà allora al mercato interno tedesco? Io comincerei a domandarmelo se fossi un economista tedesco invece che impegnare le mie energie a convincere della superiorità germanica popolazioni europee stanche degli inutili sacrifici imposti dalla Sig.ra Merkel e colpevolmente accettati supinamente da inetti politici locali. La Storia dovrebbe insegnare qualcosa.

    • Jacopo Piletti

      Infatti loro spendono meno di noi nelle pensioni rispetto al Pil, noi invece abbiamo mangiato più di quello che producevamo (vedi pensioni retributive a 50 anni) e noi giovani dobbiamo pagare le loro pensioni: bella roba!

      • Marcello

        Spendere meno di pensioni non è un vanto o un aspetto positivo. Secondo i dati elaborati dal ministero del Lavoro tedesco, a partire dal 2030 più di un terzo dei pensionati tedeschi dovranno cavarsela con 688 euro lordi al mese. Non è un granchè anche perchè vorra dire aveve molti milioni di nuovi poveri che ridurranno il traino economico del mercato interno tedesco. Ma ancor di più renderanno poveri e fragili dei vecchi. Non è un gran successo economico a mio parere. Certamente questo ha messo un po’ meglio il bilancio statale per ora, ma non per l’immediato futuro. Noi in Italia abbiamo sicuramente speso in parte male per clientelismo politico e corruzione, ma abbiamo solo anticipato quello che accadrà negli altri paesi anche perchè abbiamo una percentuale di popolazione anziana più alta. E’ possibile che se muore meno gente questo diventi un fatto negativo?

        • gmn

          ci sono due modi di deprimere le pensioni di domani: uno è pagare tanto le pensioni di oggi e non lasciare spazio all’accumulazione per il futuro, il secondo è non fare pagare i contributi;
          se la Germania ha scelto il secondo noi abbiamo scelto il primo?

    • Maurizio Cocucci

      La cancelliera Merkel non ha imposto nulla, quella politica che chiamiamo di austerity non è altro che l’applicazione dei parametri di Maastricht decisi quando la Sig.ra Merkel era solo una esponente della Cdu. Tali parametri furono da noi sottoscritti a suo tempo cosi come recentemente abbiamo sottoscritto il patto chiamato Fiscal Compact i cui contenuti sono frutto di una intesa franco-tedesca e appoggiati in pieno da molti Paesi. Anzi, siamo andati oltre inserendo il pareggio di bilancio in Costituzione senza che fosse richiesto. L’Italia di fronte alla crisi nel 2008 non fece nulla, anzi come sappiamo si preferì negarne l’esistenza per non spaventare una popolazione che taluni politici considerano immatura. Ovvio che se ti chiami fuori saranno gli altri a rimboccarsi le maniche e a proporre qualcosa. Per ciò che riguarda le pensioni preoccupiamoci noi delle nostre perché guardando ai bilanci recenti dell’Inps ho motivo di non essere tranquillo. Oltre al fatto che spesso i sussidi l’Inps stessa li paga con mesi di ritardo mentre il tedesco se lo vede ricevere entro un mese.

      • Marcello

        Può un individuo chiedere a un altro di rispettare patti che lui per primo non ha rispettato? E lo può fare la Germania? Prima di noi ha sforato allegramente il vincolo del 3% di rapporto deficit/PIL (valore che abbiamo imparato nasce da una correlazione taroccata e comunque di scarso valore economico). Poi ha deliberatamente e continuativamente trasgredito proprio al trattato di Maastricht quando non ha assolutamente coordinato le sue politiche fiscali con gli altri paesi. E questo lo ha fatto la Merkel e anche il suo predecessore quindi di cosa stiamo parlando? Di trattati che valgono solo per i nemici? Che vanno imposti con la forza delle banche?

        • Maurizio Cocucci

          Il vincolo del rapporto deficit/PIl a mia memoria è stato disatteso da tutti, quando si è proposto attraverso il Fiscal Compact di rispettarlo pena sanzioni pesanti Gran Bretagna e Repubblica Ceca non lo hanno sottoscritto. Noi sì. Quindi non lamentiamoci se poi la Commissione Europea, alla quale è delegato il compito di controllore, ci richiama. Chi era al governo allora ed il suo predecessore erano favorevoli entrambi, quindi assumiamoci le responsabilità invece che assegnarle ad altri. Per ciò che concerne le politiche fiscali la situazione è molto diversa: ogni Paese ha seguito la propria strada, Italia compresa che per fare un esempio di fronte alla richiesta di ridurre le tasse sul lavoro trasferendole sul patrimonio ha voluto fare di testa propria con la ben nota farsa dell’Imu, imposta che c’è in tutto il mondo, non solo in tutta Europa. Il dato del 3% viene invece da una equazione matematica partendo da variabili prefissate come il rapporto debito/Pil al 60% e una crescita nominale del 5% annuo del Pil, dato quest’ultimo indubbiamente anacronistico ma la storia del valore inventato a tavolino è una bufala. Inoltre tale vincolo non è rigido, solo che la Ue chiede riforme in cambio perché concedere deroghe per poi correre in aiuto al Paese in questione perché i mercati perdono la fiducia nella sua possibilità di rimborso sarebbe incoerente oltre che sbagliato.

          • Marcello

            Io non sto dando la colpa ad altri. So benissimo che l’Italia ha delle colpe, ma non siamo i soli. Noi i “compitini a casa” li stiamo facendo, ora li facciano anche gli altri. In primis la Germania che non rispetta l’art.119 dei trattati europei che recita:
            “Ai fini enunciati all’articolo 3 del trattato sull’Unione europea, l’azione degli Stati membri e dell’Unione comprende, alle condizioni previste dai trattati, l’adozione di una politica economica che è fondata sullo stretto coordinamento delle politiche economiche degli Stati membri, sul mercato interno e sulla definizione di obiettivi comuni, condotta conformemente al principio di un’economia di mercato aperta e in libera concorrenza”.
            (se i nostri precedenti governanti sono stati così poco avveduti da non dire nulla ciò non vuol dire che non lo possano fare ora i nuovi. In particolare devono chiedere ai paesi in surplus di scambio commerciale di riequilibrare la bilancia).
            “2. Parallelamente, alle condizioni e secondo le procedure previste dai trattati, questa azione comprende una moneta unica, l’euro, nonché la definizione e la conduzione di una politica monetaria e di una politica del cambio uniche, che abbiano l’obiettivo principale di mantenere la stabilità dei prezzi e, fatto salvo questo obiettivo, di sostenere le politiche economiche generali nell’Unione conformemente al principio di un’economia di mercato aperta e in libera concorrenza.
            3. Queste azioni degli Stati membri e dell’Unione implicano il rispetto dei seguenti principi direttivi: prezzi stabili, finanze pubbliche e condizioni monetarie sane nonché bilancia dei pagamenti sostenibile”.
            Ciò non è possibile se le politiche sono a vantaggio solo di alcuni e non di tutti. Così come la signora Merkel ci impone (ma chi è per imporci qualcosa? Siamo noi i debitori) i compiti a casa anche noi lo possiamo fare e da una posizione di forza (se i soldi li rivuoi indietro permettici di darteli).

          • alexx_g

            Vogliamo distorcere la storia a piacimento? Purtroppo non fa fede la sua memoria, ma quello che e’ successo veramente:
            Il rapporto deficit/PIL e’ stato sforato da Germania (prima) e Francia a seguire, con relativa irritazione degli altri paesi (si legga articoli dell’Economist del 2003). Si guardi anche i rapporti dell’ECOFIN (http://ec.europa.eu/economy_finance/economic_governance/sgp/deficit/index_en.htm) . Primo report di sforamento per la Germania: 19.11.2002, Francia 02.04.2003

            Quanto al patto di stabilità, mi trova i calcoli esatti per arrivare al 3%, o al 60%, o magari qualche paper scientifico a supporto? Intanto legga questa storiella:
            http://www.leparisien.fr/espace-premium/actu/le-chiffre-est-ne-sur-un-coin-de-table-28-09-2012-2185515.php

  6. EzioP1

    Che la competitività della Germania stia tutta nella sola negoziazione sindacale decentralizzata e nel
    conseguente risultato di riduzione dei salari forse lascia spazio a qualche dubbio circa il benessere dei tedeschi. Infatti i consumi interni si sono ridimensionati e il Pil è compensato dalle maggiori
    esportazioni. Ma c’è da domandarsi fino a quando un sistema costrittivo all’interno e espansivo all’esterno può reggere. Inoltre se ai tedeschi viene ridotta la capacità di acquisto di beni c’è da
    domandarsi chi beneficia della maggiore competitività. L’immigrazione è certamente un fenomeno che serve a mantenere l’equilibrio salari-produzione, ma questo produce un abbassamento del livello dei consumi interni con conseguenze socio-economiche che vediamo in Germania e anche negli altri paese dove, per altro verso,
    il nuovo equilibrio si sta realizzando.

  7. Enrico

    “Le concessioni sono spesso sfociate in una riduzione degli stipendi. Di conseguenza, il mercato del lavoro tedesco si è dimostrato molto più flessibile di quanto si pensasse. Perché gli altri paesi dell’Europa continentale non hanno reagito allo stesso modo della Germania?”
    Concordo che se le condizioni al contorno non consentono certi salari non resta molto da scegliere (piuttosto che niente è meglio piuttosto), però la flessibilità consta anche nell’aumento dei salari quando l’economia è in salute. Domando (non polemicamente) agli autori: si è verificata questa circostanza in Germania?

  8. alberto ferrari

    Francamente inviterei a leggere l’articolo di Keynes “The question of high wages” del 1930. La mia impressione è che in Germania si è diminuito il valore nominale dei salari scambiandoli con una maggiore protezione sociale. Solo così si sono convinti i lavoratori. Insomma come pensava Keynes rafforzare il senso di appartenenza ad una comunità che tutela tutti, vale di più che innalzare individualisticamente i salari.

  9. Massimo Matteoli

    Secondo gli autori il successo tedesco si deve alla riduzione dei salari ed alla riduzione delle garanzie del lavoro. Domanda: cosa succederà quando l’enorme attuale quota di export (il 50 % circa del PIL !) dovrà necessariamente ridursi? Non sono un economista ma a lume di naso quelli che oggi sono venduti come elementi di forza si trasformeranno in tragici elementi di debolezza.
    E questo a tacere dei costi “politici” che una sfasatura continua nel tempo così accentuata tra Germania e resto del continente rischia di produrre. Forse è il caso di ripensare un modello che basandosi in maniera ossessiva sull’export rischia alla fine di portare i tedeschi e tutti noi nel baratro.

    • Fabio Tamburrini

      Il problema è che in un’area monetaria, la riduzione del surplus tedesco infra-euro non è assicurato da alcun processo automatico. I tedeschi potrebbero continuare ad esportare più di quanto importano dal sud, continuando ad accumulare crediti verso i Piigs. In assenza di reale convergenza di produttività da parte della periferia, il gioco è a somma positiva solo per la Germania.

  10. Mario Bianchi

    Fosse cosi facile l’Italia sarebbe in grande ripresa economica dato il livello infimo raggiunto dai salari, vicino alla soglia di mera sussistenza, dei lavoratori italiani e l’estrema volatilità dei contratti di lavoro che ormai non ha quasi più nessuno.

    • Jacopo Piletti

      Peccato che il contorno in italia non aiuta (tasse corruzione, energia, etc.)

  11. Marcomassimo

    I tedeschi hanno fatto benissimo e sono stati bravissimi; una grande storica potenza industriale costretta finalmente a fare le pulci sulla spesa e mettersi a stecchetto; resta il fatto che erano abituati molto bene da decenni e invece adesso hanno fenomeni di sfruttamento dei lavoratori pure là; da italiani dovremmo godere come ricci della cosa; per gli italiani arrangiarsi e soffrire sta nel Dna; la realtà è che quello della competitività, al netto di un giusta efficienza, è un gorgo infinito di gioco al ribasso globale in cui quello che è certo è solamente il decadimento delle condizioni dei lavoratori e l’elevamento dei profitti; diciamo che un tempo tra i popoli c’erano le guerre, adesso c’è questo gioco suicida di massa che può fare senza dubbio meno morti, però danni del tutto paragonabili.

  12. rob

    A mio avviso la competività della Germania passa attraverso un punto fondamentale: programmazione industriale e sociale. Possiamo fare e delocalizzare tutti i contratti che vogliamo ma se un Paese produce la Golf e un altro l’ Arna o l’Alfa Sud il mercato ti boccia e i contratti non servono a nulla. Possiamo ridistribuire ricchezza soltanto quando la produciamo non viceversa. Allora l’articolo è fuorviante perché sostiene che il punto focale del successo tedesco sia la contrattazione del lavoro. La contrattazione fa parte di una visione lungimirante e programmatica del Paese, ma senza progetti e pianificazioni a lungo termine non si va da nessuna parte. Inoltre, per mia esperienza, la Germania ha una esportazione “vera” a differenza dell’Italia dove l’esportazione al 50% è propaganda e non realtà. In questo Paese si confonde l’economia sociale con l’economia fittizia, la seconda è un prendersi per i fondelli di un gioco che dura poco.

  13. Jacopo Piletti

    Eh ma qua vogliono la botte piena e la moglie ubriaca: vogliono essere competitivi con salari alti e inflazione bassa (con ovviamente la disoccupazione al 3%)

  14. Maurizio Cocucci

    Non è mia intenzione fare l’avvocato difensore della Germania sfatando molti luoghi comuni infondati, al contrario vorrei suggerire di analizzare il modello tedesco e pensare di imitare se non tutto almeno alcuni aspetti. Uno dei luoghi comuni più diffusi riguarda la presunta riduzione dei salari in Germania nel corso di questi ultimi anni. Questa affermazione, seppur purtroppo riportata anche da giornalisti e da alcuni economisti, è del tutto infondata. La crescita dei salari nel tempo è stata invece in linea con l’aumento dei prezzi quindi la crescita reale semmai è stata quasi nulla ma questo non ha inciso negativamente sul potere di acquisto nel tempo. I dati ufficiali sono disponibili al sito dell’ente di statistica di Wiesbaden DESTATIS. Semmai è corretto affermare che è diminuito il costo del lavoro per unità di prodotto a causa della maggiore crescita della produttività rispetto ai salari. Ma non è la stessa cosa di affermare che i salari sono diminuiti. Anche vedendo il contesto da altri punti di vista si può verificare l’inconsistenza di questa tesi. Ad esempio prendendo in considerazione il costo del lavoro (più alto in Germania) ed il livello medio delle retribuzioni. A questo proposito suggerisco di leggere un articolo interessante pubblicato il 27/02/2012 da Il Sole 24 Ore: Stipendi, italiani ultimi tra i big europei (secondo dati Eurostat) All’interno dell’articolo sono inclusi diversi grafici interattivi che confrontano i dati per le maggiori economie europee.

    • rob

      Maurizio
      hai ragione , la crescita di un Paese non passa attraverso la riduzione dei salari cosa che la germania non ha fatto. Bastano 4 nomi per capire in sintesi cosa fa crescere un Paese come la Germania: VW, Henkel, Bayer, Bosh. Questi 4 nomi leader fanno capire come i diversi settori c’è stato un progetto partito da lontano che oggi gli consente di essere primi. Parliamo della Germania che ha risorse che noi ci sogniamo, quindi a maggior ragione l’ Italia doveva puntare, con una pianificazione produttiva lungimirante, a sviluppare settori di eccellenza. Li avevamo nell’auto, nella chimica, nell’elettronica (Alfa Romeo-Lancia- Montedison- Olivetti etc) . Ma il Paese dei “furbi da bar dello sport” cosa ha fatto? La Panda, l’ Arna, la varecchina, i quadri elettrici in sostanza bassa qualità che oggi neanche i cinesi fanno più! In compenso però abbiamo sviluppato una “economia” che nessuno paese al mondo ha: la burocrazia politica! I posti fittizi creati dalla follia del “federalismo” e del “regionalismo” sono tra diretti e indiretti a mio avviso oltre 2 milioni. Ma non producono nulla perchè fittizi!Non solo in 30 anni hanno distrutto, in larga parte della popolazione, il concetto di cultura del lavoro e del merito. Cultura del lavoro intesa come la consapevolezza di fare e operare per imparare un mestiere o una professione. Quale cultura del lavoro si insegna ad un ragazzo che fa l’accertatore di sosta? Interi comparti dall’edilizia all’agricoltura non sono più competenza dell’Italiano. Però sono cresciuti a dismisura compro oro e slot machine. Segno che qualcuno, che politicamente doveva indirizzare il Paese verso scelte difficili ma lungimiranti, ha pensato bene di lavarsene le mani regalando e illudendo il prossimo con un piatto di minestra che satolla lo stomaco ma appassisce la mente!

  15. Matteo

    Se un paese all’interno di un’unione valutaria comprime il costo del lavoro aumentando competitività ed esportazioni, forse, è avvantaggiato dal fatto che la sua moneta non si rivaluta aggiustandosi alla reale condizione economica ma rimane fissa obbligando gli altri paesi a fare altrettanto oppure rimanendo meno competitivi.

    • gmn

      Se un paese rivaluta sarà meno competitivo
      ma intanto compra prodotti e servizi relativamente svalutati all’estero. A questo punto però questi prodotti e servizi stanno sul mercato solo grazie alla rivalutazione altrui, non mi sembra un gran risultato strutturale.

  16. Luca

    Leggo che il successo della Germania non sarebbe dovuto alle riforme Hartz ma al decentramento della contrattazione lavorativa. Scusate, ma cosa cambia? Tutte e due le cose servivano a pagare di meno i lavoratori. Quindi, i successi della Germania sono dovuti alla maggiore competitività ottenuta grazie alla svalutazione del fattore lavoro. Come sono stati ottenuti questi risultati? Non saprei, ma Hartz, che oltre ad essere stato l’ideatore dell’omonima riforma era anche capo del personale della Volkswagen, ha appena ammesso di aver corrotto i sindacalisti:
    http://www.ilsole24ore.com/art/SoleOnLine4/Finanza%20e%20Mercati/2007/01/Hartz_Volkswagen_18gen.shtml

    • Maurizio Cocucci

      Le riforme Hartz non hanno comportato una riduzione dei salari. Il primo pacchetto del Hartz Konzept ha riguardato la promozione della formazione professionale (apprendistato) attraverso l’ufficio federale del lavoro (Bundesanstalt für Arbeit) e la gestione da parte di questi degli assegni di sostentamento al reddito. Il secondo pacchetto la modifica dei contratti atipici noti con il nome di minijob e midijob, l’introduzione della forma societaria individuale chiamata Ich-AG e l’aumento del numero dei centri per il lavoro. Il terzo pacchetto la trasformazione degli uffici federali del lavoro in agenzie federali per il lavoro (Bundesagentur für Arbeit) con una nuova impostazione organizzativa. Il quarto ed ultimo pacchetto ha riguardato la riforma delle misure di sostentamento al reddito, in particolare con la riduzione del periodo in cui si ha diritto all’ assegno di disoccupazione (Arbeitslosengeld) e l’introduzione dell’Hartz IV. Di tutto questo spesso l’attenzione si è rivolta in particolare ai minijob però male interpretandoli perchè trattasi di contratti atipici, a tempo parziale e spesso a tempo determinato, ergo quando compriamo un’ autovettura, un aspirapolvere, una lavastoviglie o qualsiasi altro prodotto al suo interno di minijob non c’è quasi nulla. I minijob riguardano facilmente la cameriera che ci porta la birra al tavolo o quella del ristorante, la donna delle pulizie in albergo o quella che lavora presso abitazioni private. Due terzi di coloro che hanno questo tipo di contratto sono donne perchè utili a conciliare lavoro e famiglia, gli studenti che lavorando qualche ora alla settimana ricevono un piccolo reddito per pagarsi gli studi e poi anche i pensionati che, più sfortunati di tanti italiani, sono andati in pensione tutti con il metodo contributivo e per molti l’assegno è basso, così con il minijob ha un reddito extra. Insomma si dovrebbe analizzare bene chi sono i minijobber prima di stroncarli, visto che a farlo sono gli stranieri e non i tedeschi.

      • Luca

        Scusa, ma cosa c’entra che lo fanno gli stranieri e non i tedeschi?
        Il problema della bilancia commerciale riguarda importazioni ed esportazioni che dipendono dal luogo di origine del prodotto, non di chi li compra.
        Il “successo” della Germania è basato sulle esportazioni di prodotti più competitivi grazie alla svalutazione del fattore lavoro (tedesco o straniero in ogni caso riceve uno stipendio da un’azienda tedesca). Sempre se vogliamo chiamare successo la costruzione di una società con enormi disuguaglianze.
        Le riforme Hartz come la contrattazione decentrata del lavoro sono stati gli strumenti di questa politica.

        • Maurizio Cocucci

          Forse non era chiaro, per stranieri intendo che le critiche ai minijob provengono dall’estero (rispetto alla Germania), non dai cittadini non tedeschi residenti in Germania. Questo deriva dal fatto che le informazioni circa questo genere di contratti vengono male interpretate e riportate, addirittura pensando che si applichino anche verso coloro che lavorano 40 ore alla settimana percependo così 450 euro al massimo mensili (oppure 850 euro se midijob). Più che portare dati ufficiali che dimostrano redditi lordi più alti rispetto ai nostri e rispetto a diversi altri Paesi, dimostrare poi che il costo del lavoro è più alto in Germania (31,5 euro l’ora contro i 27-28 dell’Italia) a fronte di un cuneo fiscale sostanzialmente eguale al nostro, il che dimostra che le retribuzioni nette sono più alte da loro, non so cosa si possa fare per dimostrare l’infondatezza di simili affermazioni. Sostenere che i prodotti su cui si fonda l’export tedesco siano competitivi semplicemente perché costano meno è completamente privo di fondamento. Per ciò che concerne più completamente le riforme Hartz io le ho scritto come si compongono, ora minijob a parte mi dica di tutto il resto cosa influisce sul livello dei salari. La distribuzione del reddito in Germania è tra le più equilibrate al mondo dopo i Paesi scandinavi, migliore rispetto ai Paesi anglosassoni e all’Italia.

          • Luca

            Certo che il costo del lavoro è più alto in Germania che in Italia. Ed è per questo che per essere competitivi non è socialmente giusto svalutare ulteriormente il fattore lavoro italiano (più flessibilità, contrattazione decentrata etc.).
            Invece, il costo del capitale in Italia è maggiore rispetto alla Germania.

          • gmn

            E però se non riusciamo a vendere uno spillo
            e la Pa costa uno sproposito rispetto ai servizi resi
            da dove si comincia?

      • alexx_g

        Ma davvero? Nessuna riduzione dei salari? Sono le mamme che lavorano ad usare i contratti temporanei?

        Lo chieda ai lavoratori della BMW:
        http://www.zeit.de/2013/48/werkvertraege-bmw-leipzig-autoindustrie
        …..
        Hartz-IV-Empfänger, die helfen, teure BMW zu bauen – geht das?

        Seit 23 Jahren ist Jens Köhler bei BMW und seit 2002 in Leipzig mit dabei. Der Sachse ist stolz auf sein Werk, nicht aber darauf, “dass die Schere bei den Einkommen immer größer wird”.

        Lange Zeit haben die Leiharbeiter niemanden interessiert

        Eines aber wundert ihn. “Die Situation im November 2013 ist die gleiche wie im Mai 2005, als das Werk offiziell mit der Serienproduktion begann”, sagt Köhler. “Schon damals gab es das Konstrukt, dass BMW die Endfertigung macht und Zulieferer und Dienstleistungspartner auf dem Gelände zuarbeiten. Aber lange Zeit hat das niemanden interessiert, weder Politik, noch Gewerkschaften oder die Medien”, kritisiert er.

        Das hat sich gründlich geändert. Hungerlohn am Fließband hieß eine in der ARD Mitte Mai gleich nach der Tagesschau gesendete Reportage. Ein Reporter hatte sich nach Wallraff-Manier als Leiharbeiter bei einer Logistikfirma eingeschlichen, die im Auftrag von Daimler im Untertürkheimer Mercedes-Werk Zylinderblöcke verpackt. Am Ende des Bandes wuchtete der getarnte Reporter Seite an Seite mit einer Daimler-Mitarbeiterin die schweren Teile in Versandkisten. Er zum Stundenlohn von 8,19 Euro, sie zu einem fast dreimal so hohen Gehalt. Bis heute ist strittig, ob die Art des Einsatzes rechtlich in Ordnung war. Unstrittig ist allerdings der eklatante Lohnunterschied.

        Die Branche war aufgeschreckt. Gerieten doch die mit Rekordgewinnen glänzenden deutschen Autokonzerne in den Verdacht, sich genauso mit “Lohndumping” zu bereichern wie die zuvor mit haarsträubenden Arbeitsverhältnissen aufgefallenen Schlachthofbetreiber.

  17. Mi sembra che venga trascurato un fattore, a mio parere essenziale, che ha contribuito all’aumento della competitività e della produttività in Germania: gli enormi investimenti in innovazione e automazione fatti dalle Industrie tedesche, anche dalle più piccole. Per lavoro ho avuto modo di visitare fabbriche italiane e tedesche negli ultimi anni. In Germania si è investito nell’automazione dei processi produttivi, in Italia in singole macchine tanto che ci vuole un bel po’ di manodopera per trasportare i pezzi prodotti da una macchina alla prossima, mentre in Germania molte produzioni sono integrate in una linea di produzione completamente automatica. L’intervento umano è necessario solo in caso di guasti, quindi il personale presente monitora le macchine al computer e deve essere perciò altamente qualificato. Anche negli uffici in Germania si è cercato di sfruttare al massimo le potenzialità informatiche.

    • rob

      “Anche negli uffici in Germania si è cercato di sfruttare al massimo le potenzialità informatiche”
      Provi a inviare 10 e-mail al pubblico e al privato in Italia e vede quanti le rispondono! Da una crisi di mancato ammodernamento si esce, da una profonda e lunga crisi culturale e generazionale ho molti dubbi. Si imbocca una strada che cambia la storia di un Paese portandolo alla povertà.

    • Luca

      Scusa, ma come fai a dire che la Germania investe? Ti sei fatto due conti?
      Y=C+I+X-M
      Y=prodotto (PIL)
      C=consumi (privati e pubblici)
      I=investimenti
      X=esportazioni
      M=importazioni
      Se Y-C-I=X-M; e Y-C=S; allora S-I=X-M
      Ora, come è possibile che un paese in continuo surplus di esportazioni (X-M) abbia anche un alto livello di investimenti? Se I è alto significa che il risparmio S deve essere altissimo. E, S e I sono valori fisiologici.
      Infatti, se guardi i valori scopri che gli investimenti in Germania sono i più bassi d’Europa:
      http://4.bp.blogspot.com/-N5DTshDfIpc/UptL0nn7fvI/AAAAAAAAApg/yAYgqqwHtSQ/s1600/Investimenti.JPG
      http://goofynomics.blogspot.it/2013/12/eh-ma-i-tedeschi-hanno-investito.html

      • Maurizio Cocucci

        Caro Sig. Luca, mi auguro che il Prof. Bagnai non veda ciò che ha scritto perché potrebbe darle una insufficienza! Lei non si è accorto che manca un dato essenziale: la spesa pubblica espressa con la lettera “G”. Venendo comunque al contesto Lei probabilmente non ha colto ciò che la Sig.ra Manzin ha scritto, ovvero che le imprese tedesche hanno operato ingenti investimenti in tecnologia al fine di aumentare la produttività perché Lei replica con un grafico tratto dal blog del prof. Bagnai, il quale mostra che in riferimento al PIL gli investimenti privati della Germania sono inferiori a quelli di altri Paesi. Il simpatico ex On. Di Pietro direbbe: “che c’azzecca?”. Intanto un raffronto del genere è troppo vago e poi una cosa (ammettendo che i dati siano corretti) è dire il 20% circa di un Pil di 2.700 miliardi di euro (Pil 2012) quale è il dato per la Germania e un’altra cosa è dire il 20% (circa) di 192,5 miliardi della Finlandia (Pil 2012) oppure il 27% 1.020 miliardi di euro. (Pil 2012). Come può vedere le percentuali rispetto al Pil sono poco significative perché in valore assoluto gli investimenti tedeschi sono ingenti e maggiori di tutti gli altri Paesi. A titolo di esempio si può citare il caso della Volkswagen che per il quinquennio 2014-2018 ha previsto un piano di investimenti per circa 83 miliardi di euro. Inoltre ciò che ha scritto la Sig.ra Manzin, che si basa sull’esperienza personale e non su dati statistici di scarsa utilità, si può verificare prendendo due dati: il costo del lavoro orario (più alto in Germania rispetto a quello italiano e spagnolo) e il costo del lavoro per unità di prodotto che è invece più basso e questo risultato lo si ottiene in un solo modo: con una alta (o maggiore) produttività. E come si ottiene una alta produttività? All’epoca dell’Antica Roma con gli schiavi, in quella moderna investendo in tecnologia e organizzazione del lavoro.

        • Fabio Tamburrini

          Questi commenti sbrigativi sono miopi quanto quelli dei sostenitori acritici di Bagnai. E’ un fatto che il livello degli investimenti in Germania, dal ’99 in poi, si è attestato a livelli inferiori alla media dell’Europa meridionale: il motivo è ovvio: i capitali tedeschi sono andati in Spagna, Irlanda, Grecia, Portogallo e Italia. Questo è effettivamente un problema per la Germania: non lo si può negare.

        • Luca

          Posso accettare un’insufficienza, se motivata. Però guardi che se lei separa i consumi in pubblici e privati (C e G) la formula non cambia. Inoltre, il grafico di Bagnai mostrava gli investimenti sia pubblici che privati (peraltro entrambi inferiori alla media UE). Gli investimenti si confrontano in rapporto a qualcosa, ad esempio al Pil. Non ha alcun senso farlo in valori assoluti, perché per un’impresa che fattura 100 eseguire 20 di investimento è molto mentre una che ne fattura 1.000.000 con 20 ci cambia, al massimo, le scarpe del personale di magazzino. Svalutare il fattore lavoro, come ha fatto la Germania per essere competitiva, mi sembra abbia molto più a che fare con l’antica Roma degli schiavi che con la tecnologia futuristica.

          • Maurizio Cocucci

            Non ha alcun senso raffrontare il rapporto investimenti sul Pil tra Paesi se non al fine di analisi più ampie, ad esempio per verificare possibili cause di una scarsa produttività. Ora, se la Germania ha un rapporto investimenti sul Pil inferiore agli altri Paesi ma la sua produttività è aumentata più che altrove cosa le suggerisce? Ma soprattutto si può affermare che investe poco? Poco rispetto a cosa? L’obiettivo di una azienda è quello di essere più competitiva, non di battere il record di investimenti sul fatturato. Se loro partono da un determinato costo relativo e nel corso del tempo è diminuito, come chiaramente è rappresentato nel grafico, cosa importa se lo hanno ottenuto investendo meno sul Pil in termini percentuali rispetto ad altri che invece non hanno registrato lo stesso comportamento? Eventualmente si può ipotizzare che abbiano investito meglio.

      • Dottor Gambanelli

        E dai, nel 2014 col modellino keynesiano.

        • Luca

          Sì, uso ancora la matematica nel 2014. Lei cosa propone?

          • Dottor Gambanelli

            Ma guarda sono d’accordissimo sull’usare la matematica. Ma se il punto è usare la matematica, perché non usare le equazioni della fluido-dinamica? Le equazioni di Maxwell? La tabellina del 5? Con tutto il rispetto, non facciamo i finti tonti: c’è un bel po’ di matematica al mondo, anche al di fuori del modellino Keynesiano. Che, fra le altre cose, di matematica ne contiene assai poca – ed è proprio questo il suo problema. Sarebbe il caso di soffermarsi anche sulla validità economica di quello di cui si parla, non solo sul fatto che ci siano delle x con dei più e dei per.

          • Luca

            Le ho mostrato semplicemente che il livello di investimenti tedesco è molto basso e le ho anche fatto vedere perché.

  18. Marcomassimo

    Dice il saggio keynesiano: “La competitività è quella perniciosa ossessione collettiva autolesionista internazionale per cui tutti sono impegnati a produrre spasmodicamente a prezzi sempre più bassi per consumatori che avranno a quel punto comunque salari sempre troppo bassi per potersele comparare; in altre parole ognuno vuole alleggerire la barca spostando i disoccupati in campo avverso ma la somma globale dei disoccupati alla fine aumenta a dismisura e fa affondare allegramente tutti.

  19. marcello

    Magari fosse così semplice la storia! Se si prendono due dati semplici semplici e li si analizza forse il miracolo tedesco appare meno esportabile. Se si usa il deflatore implicito del PIL, particolarmente rilevante nel rappresentare la dinamica dei prezzi in paesi con elevato outsourcng and esternalizzazione, la dinamica tedesca risulta un terzo di quella italiana, paese simile per grado di esternalizzaizone, e doppia della Francia. Inoltre i mini-job riguardano oltre 7 milioni di lavoratori, ovvero il 25% degli occupati, che in particolari settori di terziario arrivano al 60%. Inoltre vorrei ricordare che la Germania ha un tasso d’investimento, per tutti gli anni 2000, inferiore alla media Ue, inferiore a quello italiano, e meno della metà di quello francese. Quindi un sistema di prezzi stabile e lavori, anche qualificati, a basso salario hanno consentito di trasferire gli incrementi di produttività interamente ai profitti, a differenza di quanto fatto dalla Francia, per esempio. E’ questo l’esempio da seguire? Con il salario di un minijob e le integrazioni sociali in Germania si vive, in italia si fa la fame!

    • Maurizio Cocucci

      Francamente la prima parte non l’ho capita, non ho capito di quale dinamica si parla. Per quanto riguarda l’ossessione degli italiani, i minijob, dei 7,4 milioni complessivi 2,6 milioni sono coloro che abbinano un contratto minijob ad un contratto regolare (a tempo pieno o parziale) e 4,8 milioni coloro che hanno solo uno o più minijob. Questo genere di contratti (Geringfügige Beschäftigung) esistono dal 1977, hanno subito una riforma nel 1999 per merito del cancelliere Schröder per renderli più interessanti ma soprattutto per far emergere i compensi in nero in maniera tale da ridurre i sussidi federali. Non prevedendo imposte e oneri previdenziali onerosi i datori di lavoro non hanno alcun interesse a rischiare pesanti sanzioni pagando irregolarmente. Il loro numero nel 1999 era di 3,9 milioni e quindi al 2012 sono aumentati di 900 mila unità (riferito a chi possiede solo minijob). Molto meno dell’aumento dei contratti regolari. Due terzi dei minijobber sono donne che preferiscono lavori part-time, circa 850 mila sono studenti per pagarsi gli studi e 800 mila circa sono i pensionati per integrare un assegno basso. I minijob esistono anche in Italia, con altro nome e diversa disciplina normativa ma dello stesso genere, ad esempio con i lavori socialmente utili o i lavori minori pagati in nero. Le statistiche riguardanti le ore di lavoro settimanali dei minijob e i compensi medi orari sono riportati nella figura (testo in tedesco – fonte Diw Berlino). Se si conoscono correttamente i minijob fanno meno paura.

  20. marcello

    La dinamica è quella dei prezzi come registrata dal deflatore implicito del PIL, che se per la Germania vale 10 in un decennio per l’italia vale 30. La conseguenza è un sistema di prezzi stabili, in cui gli aumenti di produttività dei fattori possono essere distribuiti ai profitti. In Italia viceversa la dinamica dei salari non è riuscita nemmeno a recuperare la dinamica del deflatore. Di conseguenza il costo nominale per unità di lavoro è rimasto pressoché costante in Germania, mentre è cresciuto di 20 punti in Italia. Circa la marginalità dei minijob è proprio Idw che contraddice quanto affermato e rileva che lo strutturale sottoinvestmento della Germania è stato compensato solo dalla inesistente dinamica salariale. Nel 2011 il salario minimo nella ex Rft era di 6,46 euro, nella ex Ddr di 6,21 euro, inoltre la coda lunga del salario fa si che nella ex Ddr circa il 48% degli occupati riceva meno di 7 euro ora e oltre il 61% dei minijober abbia un’età compresa tra i 25 e i 54 anni. Se è vero che i minijob sono in termini relativi più diffusi nel terziario, è altrettanto vero che raggiungono il 16% nelle costruzioni e oltre il 10% nell’industria manifatturiera. Come sempre i dati possono essere usati per dire una cosa e il suo contrario, come saggiamente ricordava spesso Siro Lombardini.

    • Maurizio Cocucci

      Con la prima parte si conferma quello che è un totem della cultura tedesca: la stabilità dei prezzi. Noi per decenni non abbiamo mai avuto la stessa sensibilità e la conseguenza è che si assottiglia il vantaggio competitivo relativo ai fattori della produzione. Parlo di vantaggio competitivo iniziale italiano perchè considerando l’insieme dei due fattori fondamentali, capitale e lavoro, saremmo più competitivi, però poi a valle perdiamo sul terreno della produttività, sul costo dei servizi, sul fronte dei costi legati alla burocrazia e in particolare sul peso fiscale. Ergo se riducessimo il carico fiscale allineandolo a quello tedesco, se facessimo un taglio drastico alla burocrazia e aumentassimo l’efficienza dei servizi con investimenti degni di questo nome, il sistema Italia tornerebbe pienamente competitivo senza buttarsi in avventure alquanto discutibili come quello del ritorno ad una propria moneta. Riguardo i dati dei salari minimi in Germania credo che siano un po’ datati, tenendo comunque conto che sono rilevazioni statistiche visto che fino ad oggi non era previsto un salario minimo. Ma in particolare sono di nessuna utilità nell’analisi della competitività di una azienda (o di un sistema Paese) perchè si prendono i valori medi. Sui minijob insisto nell’informarsi meglio perchè trattandosi di forme contrattuali particolari contraddistinte da un cuneo fiscale alquanto esiguo sono soggetti a limitazioni normative. Se poi osserva la figura che ho allegato in una precedente risposta può verificare che la maggior parte di questi contratti prevede un numero di ore lavorative settimanali decisamente basso (entro le 15 ore) quindi anche da qui può intuire che non possono riguardare personale di produzione.

Lascia un commento

Non vengono pubblicati i commenti che contengono volgarità, termini offensivi, espressioni diffamatorie, espressioni razziste, sessiste, omofobiche o violente. Non vengono pubblicati gli indirizzi web inseriti a scopo promozionale. Invitiamo inoltre i lettori a firmare i propri commenti con nome e cognome.

Powered by WordPress & Theme by Anders Norén