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Italia sempre più a corto di grandi imprese

L’Italia ha poche grandi imprese. E due di queste stanno per diventare “straniere”. Per la crescita non bastano le vitalissime multinazionali tascabili, per avere un futuro nella competizione mondiale servono anche i grandi gruppi. Un problema di rilevanza strategica per il paese.

DUE GRUPPI (NON PIÙ) ITALIANI

In Italia abbiamo poche grandi imprese, e due delle poche che abbiamo si apprestano a passare sotto il controllo di entità esterne al nostro paese.
A causa della cessione a termine, a Rosneft, di una quota che le darà il controllo di fatto, fra qualche anno in Pirelli comanderà la finanza russa, che assume peso crescente in area energetica: si vedano gli accordi con Erg e Saras, rispettivamente di Lukoil e della stessa Rosneft. Vista l’aggressività della Russia di Putin e gli standard di comportamento dei suoi oligarchi, c’è di che preoccuparsi e molto. Per l’Italia erano meglio i liguri Malacalza, respinti da Marco Tronchetti Provera; questi ha però preferito accordarsi prima con Clessidra, poi con Rosneft, che gli garantisce, per qualche anno ancora, il ruolo di capo azienda. E meno male che Prysmian, una delle nostre poche public company, sfuggirà alle grinfie di Rosneft: Pirelli la cedette a un fondo di private equity nel 2005, con il brillante intento di rafforzare la propria presa su Telecom Italia.
L’altro grande gruppo che si appresta a cambiare bandiera è Exor/Fiat; lo spostamento della sede legale in Olanda è il naturale approdo di un percorso che fra l’altro moltiplica magicamente, grazie alle comodità della legge olandese, la percentuale di possesso della famiglia sabauda. I suoi esponenti han sempre guardato con alterigia l’Italia alle cui casse, checché ne dica il presidente John Elkann, hanno attinto spesso, in guerra e in pace. La nascita del gruppo Fca dà l’occasione giusta per de-italianizzarsi e prendere le distanze dai parenti poveri.
Sull’orlo dell’abisso, Fiat nel 2004 pescò dal mazzo come amministratore delegato Sergio Marchionne, abile a negoziare prima l’uscita dall’accordo con la General Motors, poi a cogliere l’occasione Chrysler; onore al suo fegato, che agli americani mancò. Oggi Fiat, come Fca, torna alla vita, ma dovrebbe pensare a cautelarsi nel caso che Marchionne voglia, o debba, lasciare prima della scadenza del 2018.
Potrebbero ballare tanti soldi, tanto più che il suo stile di gestione è molto personalizzato. Bianca Carretto scrive che Marchionne mette a punto i piani in solitudine, neanche i suoi manager sanno cosa presenterà agli analisti; non è lo stile di gestione di un grande gruppo globale. (1) Dal 2004, certo, è molto salito il corso dell’azione; lauta parte del beneficio è stata girata al manager che in dieci anni ha portato a casa 300 milioni. Solo il 25 per cento di questi compensi sono dovuti all’effettivo conseguimento dei risultati, sempre deludenti rispetto ai piani succedutisi nel tempo, come ricorda Andrea Malan. (2)
Non altrettanto bene va all’Italia, la cui industria automobilistica da anni sta evaporando. Nel 2003 Fiat costruiva qui più di un milione di auto, oggi sono 380 mila; il Regno Unito, che non ha “suoi” costruttori, ne produce un milione e mezzo. Come scrive (Nelmerito.com) Aldo Enrietti, in Italia si producono meno del 30 per cento delle auto vendute nel paese in un anno, contro il 220 per cento in Spagna, il 175 per cento in Germania e il 90 per cento in Francia. Se anziché in numero di auto si ragionasse in milioni di euro, sarebbe molto peggio.
Fiat è un’impresa privata, non le spetta sostenere l’occupazione in Italia. Il loquace vertice Fca dovrebbe però spiegare quale caratteristica nostra abbia tanto ostacolato costruire qui auto. Se la risposta chiama in causa i sindacati, Fiat ha i sindacati che ha meritato e lo sa. Come mai Volkswagen (che ha distribuito 3 miliardi in bonus di fine anno ai dipendenti) produce auto e moto in Italia, e produrrebbe qui l’Alfa se Fca la vendesse? Perché la meccanica italiana brilla nel mondo per tutto, tranne le auto? Speriamo che, per una volta, gli ambiziosi piani di spostamenti sull’alto di gamma, quelli not for the fainthearted, non per i deboli di cuore, diventino realtà. Solo in tal caso l’industria automobilistica tornerebbe in Italia. Peccato che i previsti 50 miliardi di investimenti in cinque anni si innestino su una situazione finanziaria già tesa, senza che sia previsto un aumento di capitale. La sola fonte finanziaria prevista è il cash flow di Fca: come a dire che il piano diventerà realtà solo se nei primi anni il gruppo guadagnerà tanto da autofinanziarlo. Sarà molto difficile.

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LA FOTOGRAFIA DEL CAPITALISMO ITALIANO

I due casi inducono a scrutare il panorama dell’insieme dei nostri grandi gruppi. Se allarghiamo lo sguardo, non è esaltante il panorama del nostro capitalismo che esce dalle statistiche 2012 di R&S (società di studi del gruppo Mediobanca) sulle imprese manifatturiere e di servizi (escluse banche, assicurazioni e servizi finanziari). Solo ventisei gruppi operanti in Italia hanno un valore aggiunto (VA) superiore al miliardo, per un totale di 150 miliardi (il 10 per cento del Pil). Di questi, il 53 per cento, (80 miliardi) fa capo a otto gruppi a maggioranza pubblica, il 43 per cento a quattordici gruppi privati italiani (il dato di Luxottica, che non lo pubblica, è solo rozzamente stimato), mentre il 4 per cento è realizzato da quattro gruppi a controllo estero.
Rispetto al 2011 escono dal novero dei “grandi” due gruppi: Riva e Costa Crociere, a causa di due drammi nazionali (il disastro ambientale di Taranto e il naufragio di Costa Concordia) che non ci hanno coperto di gloria nel mondo. Mancano invece alcuni nomi che dovrebbero esserci, specie nella moda e nell’alimentare; forse emergono altrove, per quella riluttanza, non solo fiscale, a chiamarsi italiani propria di alcuni nostri industriali, convinti che il paese non li meriti. Il che è spesso vero, ma in senso opposto a quanto pensano.
Meno male che ci sono le vitalissime multinazionali tascabili, come ci ricorda R&S, molte delle quali hanno VA inferiore al miliardo. Solo certe dimensioni, tuttavia, consentono di varare programmi di ampio respiro e assumere rischi importanti, senza i quali non si cresce. Solo sopra date dimensioni servono management e servizi professionali di alto livello, i quali, a loro volta, portano sviluppo urbano di qualità e rendono più attraente venire da fuori a vivere qui. Un Paese le cui grandi città non ospitano il quartier generale di un elevato numero di grandi imprese private ha, nella competizione mondiale, meno futuro.
Un terzo di quel 43 per cento di VA generato dai privati italiani fa capo a due gruppi “figli del pubblico”, creati dalle privatizzazioni di Autostrade e Telecom Italia. Mentre la prima, nel gruppo Edizione, ha poi avuto sviluppi importanti, la seconda viene via via smontata per ridurre i debiti addossatigli da una serie di operazioni finanziarie di corto respiro.
Se questa è la fotografia dei numeri del 2012, in prospettiva l’incidenza delle nostre imprese private sul VA totale crollerà. Come abbiamo appena visto, due di quella sparuta pattuglia di quattordici gruppi privati potranno ancora definirsi a controllo italiano solo per poco. Se li consideriamo già a controllo estero, la relativa incidenza sale, mentre quella dei gruppi a controllo italiano precipita dal 43 al 25 per cento. Via Fiat e Pirelli, l’Italia avrà ancor meno grandi imprese; è un tema enorme, di cui bisogna farsi carico, ma che il paese non avverte nella sua importanza strategica.

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                             R&S classifica 2012- VA> 1000 milioni

  1. ENI                        33557 SM
  2. EXOR                   23927 PV
  3. ENEL                    20330 SM
  4. TELECOM IT     15541 PP
  5. POSTE IT             7925 SM
  6. FINMECC           6237 SM
  7. FFSS ITAL            5598 SM
  8. EDIZIONE           5536 PP
  9. LUXOTTICA      40000 PV *
  10. SNAM                   3055 SM
  11. WIND                   2462 PE
  12. FININVEST         2366 PV
  13. PIRELLI              2235 PV
  14. DEAGOSTINI     1908 PV
  15. TERNA                 1654 SM
  16. PRYSMIAN         1605 PV
  17. ITALMOBIL.      1598 PV
  18. A2A                       1594 SM
  19. PRADA                 1575 PV
  20. SUPERMKTS IT  1305 PV
  21. N PIGNONE        1254 PE
  22. EDISON               1231 PE
  23. BARILLA            1145 PV
  24. PARMALAT        1112 PE
  25. MENARINI         1078 PV
  26. COFIDE               1077 PV

————-
Tot.                    150905
=======

8 SM      79950    53,0
12 PV     43819    29,0
2 PP        21077    14,0
4 PE       6059       4,0

———–
Tot.         150905  100,0
======   ====

* dato solo stimato

SM – Statali/municipali
PV – Privati “veri”
PP – Privati ex pubblici
PE  Privati esteri

 

(1) Corriere della Sera, 6 maggio 2014.
(2) Il Sole-24 Ore, 22 aprile 2014.

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18 commenti

  1. Bumblebee

    Articolo scritto in fretta e che contiene alcune inesattezze.
    1. Costa Crociere è stato ceduto al Gruppo Carnival nell’anno 2000; l’incidente del Giglio ha dimostrato la terribile debolezza – culpa in eligendi – del management italiano, cui la casa madre americana aveva improvvidamente (come i fatti hanno dimostrato) dato fiducia, lasciando autonomia a Genova; dopo l’incidente, è ovvio che la direzione venga trasferita negli USA. L’incidente del porto di Genova ha confermato l’incapacità del paese di produrre manager (privati e pubblici) in grado di comandare con equilibrio e buonsenso, valutando in anticipo le conseguenze delle proprie azioni/omissioni. (anche l’incidente di Linate, a suo tempo, aveva mostrato la debolezza organizzativa insita nelle grandi organizzazioni italiane).
    2. Fiat ha smesso di produrre auto in Italia dall’inizio degli anni ’90, in cui il finto imprenditore Giovanni Agnelli decise di non investire più in nuovi modelli e dei dedicarsi alla finanza (alberghi, distribuzione, eccetera); si trattava di impresa che aveva sempre prodotto auto di qualità mediocre, perché fino ad allora operante in un mercato monopolistico (vedi assorbimento di Alfa Romeo e impedimento a Ford di acquistarla). Quando il mercato venne aperto, l’avviamento monopolistico evaporò e il mediocre management di Fiat – anche per la debole guida di Agnelli – non fu in grado di reggere la concorrenza. Vogliamo ricordare il cambiamento di cinque capi in cinque anni, prima di Marchionne?
    3.La grande industria italiana, purtroppo, è nata “assistita” (dallo stato, al tempo di Crispi in poi; dal dopoguerra, dalle corporazioni sindacali) e in seguito non è mai riuscita ad avere una vita autonoma. Ci siamo scordati di Termini Imerese, di Pomigliano e di Melfi, eccetera? Di Genova Cornigliano, e, ieri e oggi, di Taranto?
    D’altra parte, non abbiamo sostenuto per decenni che: “piccolo è bello”? Moltissime aziende che avevano avuto origine in Italia, quando sono cresciute non hanno saputo (tra l’altro) innovare i prodotti e sono state acquisite da imprenditori esteri: vedi, ad esempio Borghi, e Zanussi nel campo degli elettrodomestici. In altri paesi, per esempio la Corea, si è cominciato come imitatori e oggi si producono prodotti innovativi: Samsung ad esempio.
    4. Resistono in Italia e rimangono competitivi, anche all’estero, i settori in cui prevale la cultura “artigianale” – per esempio quello delle macchine utensili, in cui ogni progetto, anche di grandissimo valore, viene fatto “su misura”, e in quantità relativamente limitata.
    5. Un paese in cui non funzionano alcuni servizi essenziali, del tipo: giustizia, scuola e ricerca, fisco, amministrazione pubblica, non può che regredire rispetto ai concorrenti; senza questi servizi, manca al paese anche la cultura organizzativa, che permette il funzionamento dei grandi complessi; è da questi servizi che l’Italia deve ricominciare se vuole riguadagnare posizione nel mondo.

    • Amegighi

      Inutile sottilizzare tanto. L’articolo è chiaro come è altrettanto chiaro dove stiamo andando. Cioè verso una produzione da paese di serie B.
      L’autore ha messo in ballo un aspetto importante: manager di livello e competenti. Produrre farmaci o bulloni o componenti elettroniche non è la stessa cosa, ma vedo invece sempre le stesse persone che girano da un’impresa all’altra come se conoscere ciò che producono non sia importante.
      Altro aspetto che ci si dimentica è il settore R&S (non la rivista…). Investiamo poco in ricerca (1% circa contro cifre triple dell’UE e ancora maggiori di USA, Giappone e, ora, anche Cina). E senza ricerca e innovazione non si va da nessuna parte. Si continua a parlare di PMI, quasi a giustificare l’impossibilità di investire, ma a me sembra che queste PMI siano arretrate. Perchè non sviluppare un settore PMI fatto da piccole imprese molto impegnate nella produzione tecnologica avanzata e collegate veramente con le Università e i centri di ricerca ? I Max Planck tedeschi con il loro accompagnamento di Startup attorno, così come altri distretti importanti (Silicon Valley/ Stanford o SanDiego/ Biotech companies) dovrebbero essere un esempio a cui guardare.
      Da noi invece esiste un numero immenso di “parchi di ricerca”, più utili per i vari Governatori regionali piuttosto che per incentivare realmente la crescita e sviluppo di startup.

    • Guest

      Condivido in toto. E spiace, ovviamente. Si confronti il Gci!

    • aldo

      La cultura del “piccolo e bello” è stata voluta dalla politica in quanto (non conosco bene le percentuali) se esistono 5.500 milioni di imprese sotto i 10 dipendenti, di cui il 70% solo con imprenditore e dove il terreno non è fertile, perchè nei primi 5 anni di vita muore il 40% delle imprese, significa solo una cosa:”io ti tartasso tanto se chiudi, altri aprono”. Così è andato avanti per anni e così vengono coperti i costi della burocrazia e della politica. Con le illusioni non si costruisce un capitalismo sano ma di convivenza e tartassamento della base. Banale esempio: se su 10 di utile, 6 allo stato, 2 di anticipo Iva, 1 qualcuno non paga, si è già in mano allo Stato e alle banche. Eppure sulla carta sei un virtuoso con 10.000euro al mese. Sulla carta. In realtà sei un disgraziato. E qualcuno pretende che gli imprenditori investano? Più fai peggio è, così si spiegano anche i redditi bassi.

    • Guest

      Condivido in toto.
      Mi permetto di rimarcare una ‘parolaccia’: R&D! (sostanzialmente inutile riportare la corrispondente locuzione Italiana; esiste solo a livello lessicale)
      Occorre aggregare ed internazionalizzare I distretti di eccellenza (che ancora resistono); punto 3 sopra.
      Sembra di ri-scoprire l’acqua calda ogni volta, per n volte.Ma come e’ bella la munifica poppa di mamma-stato!
      E poi il sistema pensionistico! Senza trascurare I baby pensionati a 55 anni di eta’!

    • rob

      Le tue 33 righe valgono in termini di memoria storica e di progetti futuri più di tutte le inutili chiacchiere che una classe politica a dir poco mediocre fa da 40 anni a questa parte. 20 anni fa in piena riforma della “bufala federalista” sostenni che un sistema rigido come il nostro all’apertura del mondo globale sarebbe crollato a confronto di sistemi più snelli ma anche più meritocratici. Il suo post mi conforta. Per sintetizzare quello che lei dice basti pensare alla creazione della Golf da parte della Germania, prodotto di qualità che ha conquistato il mondo, a cui rispondemmo con Arnia e Alfasud frutto di uno scellerato accordo tra pseudo-imprenditori- sindacalisti e politici da strapazzo. Nel primo caso il mercato fu il mondo nel secondo i vigili urbani degli 8000 Comuni italiani. Tedesco pragmatico, italiano furbo!

      • AM

        Mi pare di ricordare che la Golf fosse stata progettata da un italiano che prima aveva offerto il progetto alla Fiat ricevendo un cortese rifiuto.

        • rob

          Nel 2010 il Gruppo Volkwagen ha acquisito il 90,1% del capitale della Italdesign Giugiaro. In pratica modo di fare da economia reale e non intrallazzi furbi tipo Cassa del Mezzogiorno, Arna, carrette per la pubblica burocratica amministrazione, etc.

      • maurizio d'argento

        E ricordiamoci anche che la Golf fu disegnata da Giugiaro e che la Fiat più recentemente si è persa Da Silva a favore di Audi.

  2. pierpier

    In gran parte si è persa la cultura manageriale sia del pubblico che del privato, se non fosse stato per Mattei non ci sarebbe l’Eni. O vogliamo confrontare Tronchetti con Pirelli o Marchionne con Valletta? Oltre alla mancanza di qualsiasi visione industriale sostituita dall’arraffamento sistematico sia pubblico che privato.

    • rob

      Si è perso il concetto di sistema-Paese. Sostituito dai Masanielli del sistema regionalistico-localistico. Attenzione abbiamo avuto come Ministro dell Riforme tale Bossi Umberto: la commedia all’italiana elavata alla massima potenza.

  3. AM

    Questa struttura carente di grandi imprese ha tante cause. Non ultima lo strapotere dei sindacati in passato.

  4. Massimo Matteoli

    Il problema è indubbio, ma d’altra parte se superata la soglia dei 500 dipendenti sembra quasi che un’epidemia falci le imprese italiane una ragione ci sarà pure. Intanto ripeto, da non economista, i miei dubbi sui calcoli relativi al deficit di produttività che colpisce le nostre aziende. Se fosse vero, almeno nelle dimensioni che ci dicono, come si spiega il successo ininterrotto del nostro export (cioè delle imprese che affrontano la concorrenza più dura) dall’entrata dell’euro in poi. Siamo secondi solo alla Germania e non mi sembra affatto un risultato da poco. La capacità del sistema produttivo è perciò molto più forte di quanto comunemente si creda.
    Se vogliamo far crescere le imprese dobbiamo, però, puntare sulle imprese e sulla cultura di impresa, .
    Non si tratta di un gioco di parole, perché fare impresa significa unire lavoro e capitale, significa favorire le assunzioni a tempo indeterminato su quelle precarie, tutelare il lavoro e la professionalità dei dipendenti, premiare fiscalmente gli investimenti rispetto alla rendita (perché in Italia le tasse le abbiamo ridotte, ma a favore dei grandi proprietari immobiliari con la cedolare secca). Purtroppo la strada che seguiamo è stata esattamente il contrario e visto il precariato burocratizzato all’italiana che ne è derivato (anche in questo la nostra fantasia non ha limiti) mi sembra che i risultati del paese siano anche troppo buoni.

    • maurizio d'argento

      Un mio maestro nella di consulenza manageriale, mentre insieme presentavamo un progetto in una di queste “fantastiche” piccole-medie imprese mi disse “qui non riusciremo a fare niente, questa azienda ha un limite imprenditoriale!”
      Ho imparato a mie spese che i “padroni delle ferriere” italiani hanno una cultura che definirei “contadina” alla “mastro Don Gesualdo”, sono attaccati, come lui, alla “robba”, sono dei capporalsergenti controllori di uomini e non di processi, preferiscono morire con la propria creatura aziendale che vederla crescere e, appena possono, fanno il palazzo, anziché il capannone grattacielo Lancia a Torino (poi la lancia fallì) grattacielo Pirelli a Milano poi la Pirelli vendette alla Sumitomo giapponese la Dunlop e così via.

  5. Enrico

    Mancano le condizioni base per crescere, cioè la libertà di “fare” (fare impresa in particolare). Bisognerebbe chiedersi come mai negli Usa si creano aziende di grandi dimensioni, anche colossi, dal nulla e sempre a cavallo dell’innovazione, mentre da noi no. Steve Jobs e Bill Gates hanno iniziato entrambi in un garage: se fossero stati in Italia li avrebbero fatti chiudere ed al massimo quel garage sarebbe diventato la loro casa.

  6. giulioPolemico

    Gli italiani non sono un popolo settentrionale e quindi non danno nessuna importanza al pensiero razionale, alla scienza, e cioè a fisica, matematica, chimica, biologia, etc. Anzi, le considerano cose astruse, noiose, tristi, e del tutto inutili. Senza la scienza non possono esistere industrie, e senza industrie non può esistere sviluppo e vita civile normale: come uniche industrie rimangono la criminalità e quello stipendificio per comprare voti che è la Pa.
    Quindi gli italiani continuano a rifiutare la fatica, la dedizione, l’impegno necessari a studiare le faticose discipline scientifiche: i pochi che le hanno studiate, o scappano all’estero o lavorano in nero come camerieri in pizzeria e gli altri che hanno studiato qualcosa sono tutti filosofi, creativi, esperti di comunicazione con visione olistica e globale, etc. Insomma sommi cultori del profondo nulla.
    Rimangono allora i settori dell’agricoltura e dell’artigianato che, lungi dal dover essere disprezzati, da soli non potranno mai garantire all’Italia di non andare indietro. Una seconda e attinente considerazione: ma dove vuole andare l’Italia se gli italiani non sanno neanche parlare, e tanto meno scrivere, in italiano? Non conosciamo neanche le più elementari regole per comunicare a voce tra noi! Ma dove crediamo di andare?

    • rob

      In Finlandia l’attenzione alla lingua latina è molto maggiore che da noi. Io perito chimico con 5 anni di ITIS sono arrivato alla convinzione che escluso Liceo Classico e Scientifico le altre scuole non sono che corsi di specializzazione durata massima 8-12 mesi. Ma poi di tutti i prof. che ne facciamo? Non ci vuole dedizione e impegno per una versione di greco? Marchionne da bravo filosofo ha azzerato la pletora di sindacalisti con 6 mesi.

  7. maurizio d'argento

    Il 4 agosto 1971 fu firmato un importante accordo sindacale per il gruppo Fiat, in quella occasione Umberto Agnelli tenne una prolusione importantissima denunciando la tendenza del capitalismo italiano più alla rendita che al profitto e invitando a una associazione tra produttori per rilanciare il paese. L’invito fu rifiutato e il resto della storia è noto. Mi preme sottolineare come la propensione alla rendita favorisca il “mattone”, la corruzione e tutti i mali del paese.

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