In Italia le imprese sostengono una parte del costo della tutela della maternità. Indennizzarle completamente nei casi di lavoro a tempo indeterminato avrebbe l’effetto di incentivare un’occupazione femminile stabile. Quanto costerebbe la misura e tre ipotesi per finanziarla.
L’ISTITUTO DELLA MATERNITÀ
L’astensione obbligatoria dal lavoro per maternità e gli altri riposi consentiti alla madre nei primi anni di vita del bambino hanno lo scopo di proteggere la salute della lavoratrice e del bambino. In Europa, negli Usa e in altri paesi sono perciò previsti speciali diritti e garanzie per le madri che lavorano, con durata e forme differenti. (1) I criteri con i quali sono finanziate queste tutele hanno conseguenze economiche. Qui mi limito a considerare il caso italiano.
La legge italiana prevede l’astensione obbligatoria dal lavoro (il cosiddetto congedo di maternità) e successivamente riposi giornalieri e altri periodi di astensione facoltativa dal lavoro, finché il bambino non supera gli otto anni. Durante il congedo, l’Inps eroga alle lavoratrici l’80 per cento della retribuzione, con i corrispondenti contributi figurativi. Alcuni contratti collettivi pongono a carico dell’impresa il restante 20 per cento. Il periodo di congedo è computato “nell’anzianità di servizio a tutti gli effetti, compresi quelli relativi alla tredicesima mensilità, alla gratifica natalizia e alle ferie” (articolo 22, comma 3, legge 151 del 2001). Di conseguenza, durante il congedo per maternità la lavoratrice riceve il salario intero, in parte pagato dall’Inps e in parte, quando previsto dal Ccnl, dal datore di lavoro, che inoltre provvede interamente alla tredicesima, all’eventuale gratifica e al periodo di ferie, come se la lavoratrice non si fosse assentata dal lavoro. (2)
Ma la maternità impone all’impresa anche costi indiretti organizzativi. Prima dell’inizio del congedo di maternità, è necessario assumere un altro lavoratore e addestrarlo. Una parte dei compiti della dipendente assente è poi suddivisa fra i lavoratori più anziani che possiedono le competenze necessarie, ai quali vanno però pagati gli straordinari. Riorganizzare il lavoro per un’assenza per maternità ha dunque un costo per l’azienda, soprattutto per le competenze professionali che vengono a mancare.
UNA STIMA DEL COSTO PER LE IMPRESE
Ho calcolato il costo per il congedo di maternità di una lavoratrice. Nel 2008 il “costo” (in senso ampio) di un lavoratore era pari in media a 39.647 euro. (3) Non è possibile distinguere il costo per un uomo da quello per una donna. Peraltro, nel 2010, nelle imprese e istituzioni con almeno dieci addetti (esclusa la Pa) il differenziale salariale fra femmine e maschi era del 5,3 per cento. (4)
Supponendo tredici mensilità, sei rappresentano il costo di servizi lavorativi prestati, cinque sono pagate dall’Inps per l’80 per cento, una è relativa alle ferie e la restante alla tredicesima. Con questi dati, il costo sostenuto da un’impresa per un congedo di maternità nel 2008 era pari a 5.822 euro. In più, vi sono i costi per i riposi giornalieri e le astensioni facoltative dal lavoro, e quelli organizzativi.
Non sono costi irrilevanti e le imprese, a parità di produttività e salario, tendono a scegliere un uomo per coprire un posto di lavoro invece di una giovane donna. In Italia i costi della maternità sono una causa non trascurabile dei bassi tassi di occupazione delle donne fra i 25 e i 44 anni e della maggiore precarietà del lavoro femminile, fenomeni che a loro volta riducono il capitale umano delle donne. Con un contratto stabile, infatti, le imprese hanno convenienza a fornire maggiori competenze professionali al personale e il lavoratore si impegna di più per acquisirle.
COME FINANZIARE L’INDENNIZZO?
Una soluzione del problema è indennizzare completamente le imprese per i costi della maternità delle lavoratrici con contratto a tempo indeterminato.
Al 1° gennaio 2012, la popolazione femminile italiana della classe di età 15-44 anni era di 11.114.903 unità, mentre le donne della stessa classe di età con un lavoro dipendente a tempo indeterminato erano 3.569.000. (5) I nuovi nati, sempre nel 2012, sono stati 534.186. (6) Supponendo che i nati riguardino la popolazione femminile fra i 15 e i 44 anni e che si distribuiscano fra le lavoratrici con un contratto stabile di lavoro come fra le donne della stessa classe di età, i neonati con madre lavoratrice stabile sono stati 171.474. Nel 2008 il costo sostenuto dall’insieme dei datori di lavoro per il congedo di maternità era di poco inferiore a un miliardo di euro. Restano da calcolare i costi per le altre astensioni dal lavoro retribuite e i costi organizzativi della maternità, per la cui approssimazione mancano le informazioni necessarie.
Per il finanziamento del sussidio considero tre possibilità, tenendo conto che in Italia vi sono minimi salariali e disoccupazione femminile. Con la prima, ai datori di lavoro è fatto pagare un contributo per la maternità proporzionale al numero delle dipendenti stabili, secondo lo schema delle assicurazioni sociali. Per le imprese il costo unitario del lavoro femminile rimane uguale ma è eliminata l’incertezza sul costo della maternità. Molte imprese (soprattutto quelle piccole) sono avverse a questo tipo di rischio e l’indennizzo aumenta la convenienza ad assumere stabilmente personale femminile.
Con la seconda possibilità, il contributo per la maternità è fatto pagare per tutti i dipendenti, maschi e femmine, stabili e precari, come avviene ora in Italia. Si ha lo stesso effetto del caso precedente; in più diminuisce il costo del lavoro femminile stabile e cresce quello degli altri lavoratori. Si riducono la domanda di lavoro maschile e quella di lavoro femminile precario, mentre aumenta in misura maggiore la domanda di lavoro femminile stabile. In questo secondo caso, supponendo un indennizzo complessivo di un miliardo e mezzo di euro (per il congedo di maternità, gli altri costi diretti e i costi organizzativi) e tenendo conto che il numero dei dipendenti nel 2012 era 17.214.000, si avrebbe un costo medio aggiuntivo per dipendente di circa 87 euro all’anno. Se l’indennizzo fosse invece finanziato con la fiscalità generale, si produrrebbero meno distorsioni nell’economia. In quest’ultimo caso, trascurando gli effetti del prelievo fiscale, si avrebbe un aumento della domanda di personale femminile stabile
(1) Talvolta sono previste anche per il padre astensioni dal lavoro, retribuite e non retribuite, che qui però non considero.
(2) Per maggiori dettagli, si veda M. Gasbarrone, Maternità: pagano anche le imprese, Genere, 10.2.2012.
(3) Istat, La struttura del costo del lavoro in Italia. Anno 2008, Report, 8 settembre 2011, p. 2. L’indagine dell’Istat è quadriennale, ma i dati relativi al 2012 non sono stati ancora pubblicati.
(4) Istat, La struttura delle retribuzioni. Anno 2010, Report, febbraio 2013, tavola 14.
(5) I dati riportati sono tratti rispettivamente da Istat, Annuario statistico italiano 2013, Istat, Roma, novembre 2013, p. 33; e da I.Stat, Occupati, livello ripartizionale, nel maggio 2014.
(6) Istat, Natalità e fecondità della popolazione residente. Anno 2012. Report, Istat, Roma, 2013, p. 1.
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eccettodoveindicatoaltrimenti
Le imprese con meno di dieci dipendenti non fanno contratto o utilizzano contratti a tempo determinato, rinnovabili, quindi la maternità non rientra nei contratti e non è pagata e dopo i due o tre mesi del figlio/a la lavoratrice rischia di non essere riassunta.
Pietro Biroli
Quanto dura il congedo di maternita’ in Italia? E quello di paternita’? Guardando qua http://www.inps.it/portale/default.aspx?itemdir=5804 mi sembra che siano due mesi prima del parto e tre dopo. Un’altra soluzione per ridurre i disincentivi delle aziende ad assumere donne, sarebbe quella di introdurre un cogedo di paternita’ obbligatoria (magari riducendo quello di maternita’, oppure dividendo il “carico” a meta’ tra uomo e donna).
Giuseppe
Anche indennizzando completamente l’impresa, resta comunque il disagio creato dall’assenza della dipendente nel corso del periodo di maternità: di conseguenza i datori di lavoro tendono a preferire assumere uomini. Quindi occorre introdurre un congedo obbligatorio anche per gli uomini, magari riducendo quello femminile.
Maria Grazia Brinchi
Giuseppe Cusin mette sul piatto un istituto, quello della maternità finora considerato “liturgicamente” inattaccabile ma che quotidianamente – da sempre – è oggetto di confutazioni, aggressioni di ogni genere con l’intento di minarne l’esistenza e la funzionalità.
Un dato è evidente: la maternità per la maggior parte delle imprese (piccole, medie e grandi che siano) è un peso ed un costo che, però, è ugualmente sostenuto da lavoratori, Stato e imprese in un sistema integrato di azioni atte a favorire un sempre più facile accesso per le donne al mercato del lavoro e, contestualmente, a rendere le imprese più efficienti e, dunque, più competitive perché faranno affidamento su forze lavoro competenti, preparate e innovative. Un sistema perciò dove le reciproche convenienze – degli imprenditori, dei lavoratori e delle lavoratrici e dello Stato – concorrono a creare una cultura sociale senza la quale non è possibile, ed è anzi paradossale, parlare di responsabilità sociale a tutto campo, in quanto almeno uno dei tre soggetti è perdente in ogni modo perché penalizzato da misure che non vorrebbe assolutamente prendere; e andiamo nello specifico: l’astensione obbligatoria dal lavoro per maternità, come ci ricorda Cusin, insieme agli altri riposi consentiti alla madre nei primi anni di vita del bambino, hanno lo scopo di proteggere la salute della lavoratrice e del bambino fino – badate bene – al raggiungimento dell’ottavo anno di età del minore. Altrimenti perché sarebbe nata nel nostro Paese una delle leggi di tutela della maternità migliori del mondo? Ovunque, In Europa come negli Usa e in altri paesi sono previsti speciali diritti e garanzie per le madri che lavorano, con durata e forme differenti. Questo lo disciplina la Convenzione Onu sulla Protezione della Maternità e voglio ricordare come i criteri con i quali sono finanziate queste tutele hanno certamente conseguenze economiche rilevanti sul sistema imprese e sul sistema Paese, ma hanno, cosa più rilevante dal punto di vista della crescita di una coscienza civile, profonde ripercussioni sugli stili di vita di milioni di donne e uomini che, attraverso le tutele dei diritti acquisiti, hanno cambiato radicalmente il volto della società in cui sono inseriti.
E l’impresa, il posto di lavoro, la bottega, sono parte integrante della società e non un ente alieno che solo per alcune ore (le otto ore di lavoro giornaliere definite contrattualmente).viene a contatto con donne e uomini che di questa impresa sono il motore e lo sviluppo. Se viene messa in discussione tutta la normativa relativa ai congedi di maternità perché considerata poco favorevole alle esigenze dell’impresa, ci troviamo di fronte al paradosso che l’impresa, per ragioni economiche, si consideri al di fuori del suo contesto sociale di riferimento e perciò autorizzata a rivedere – secondo le sue convenienze – regole concordate, violandole, ignorandole o facendo ricorso al sostegno governativo, se del caso. Ed ecco dunque i casi più o meno conclamati di dimissioni di lavoratrici alla nascita del primo figlio, le famigerate dimissioni in bianco sempre negate ma reali. Ed ecco il reiterato riferimento da parte degli imprenditori ai costi della maternità. E possiamo discuterne, ma in maniera aperta, senza pregiudizi e senza la pretesa – come invece sembra suggerire Cusin – di addossare per intero i costi della maternità alla fiscalità generale: per due motivi. Primo, perché l’impresa ha anche dei doveri sociali che è tenuta a ottemperare. Secondo, perché non si possono addossare allo Stato costi che oggi non è in grado di sostenere. Ognuno deve fare la sua parte e ancor quando si sceglie un uomo anziché una donna per un posto di lavoro si deve essere consapevoli di operare una discriminazione non avallata da giustificazioni valide. Perché la maternità – che nel nostro Paese è al livello più basso in Europa – non può essere il facile alibi per le imprese per non investire in tecnologia, innovazione e ricerca, ivi compreso il cambiamento di una organizzazione del lavoro ancora modellata su un prototipo gerarchico maschile. Dice sempre Cusin che nel 2008 aveva calcolato il costo per congedo di maternità per una lavoratrice e che era pari a 5.882 euro. A questo costo aggiungeva i riposi giornalieri e le astensioni facoltative dal lavoro, e quelli organizzativi. Questi secondo l’economista erano i motivi concreti per non occupare donne. Di fronte a tali dichiarazioni non sappiamo cosa dire perché tutte le aziende in Europa sono alle prese con il problema maternità ma non ne hanno fatto un totem e anzi, attraverso una diversa organizzazione del lavoro, hanno superato ampiamente il gap di natalità che invece è presente nel nostro Paese. Se per una donna fare un figlio costa all’azienda quasi 6000 euro annui, mi chiedo come – data l’attuale crisi economica del paese che colpisce tutti, cittadini e imprese pubbliche e private, – la situazione possa risolversi. Seguire l’esempio indicato da Cusin, ovvero indennizzare da parte dello Stato completamente le aziende ritengo non sia una via perseguibile, visto anche l’attuale impoverimento del nostro welfare e la notevole attuale pressione fiscale. “Far pagare un contributo per la maternità proporzionale al numero delle dipendenti stabili, secondo lo schema delle assicurazioni sociali” potrebbe essere materia di riflessione perché – sempre secondo i calcoli di Cusin – “per le imprese il costo unitario del lavoro femminile rimarrebbe uguale ma verrebbe eliminata l’incertezza sul costo della maternità e questa modalità aumenterebbe per le aziende più piccole la convenienza ad assumere stabilmente personale femminile”. Cusin nelle sue riflessioni avanza anche la proposta di “far pagare il contributo per la maternità a tutti i dipendenti, maschi e femmine, stabili e precari”. Ma questa idea che per l’economista avrebbe l’effetto di far diminuire il costo del lavoro femminile stabile contribuendo alla crescita di quello degli altri lavoratori non può – a nostro avviso – non essere materia di una seria negoziazione tra le parti. Del coinvolgimento dei rappresentanti dei lavoratori e degli imprenditori Cusin non fa menzione in questa fase. Molto pragmaticamente, l’economista afferma che con questa modalità si ridurrebbe la domanda di lavoro maschile e quella di lavoro femminile precario, mentre aumenterebbe in misura maggiore la domanda di lavoro femminile stabile. Secondo i calcoli di Cusin, supponendo un indennizzo complessivo di un miliardo e mezzo di euro (per il congedo di maternità, gli altri costi diretti e i costi organizzativi) e tenendo conto che il numero dei dipendenti nel 2012 era 17.214.000, si avrebbe un costo medio aggiuntivo per dipendente di circa 87 euro all’anno”. Minima spesa pro capite, dunque, ma con l’obiettivo alto della stabilità occupazionale delle donne. “Se l’indennizzo fosse invece finanziato con la fiscalità generale, si produrrebbero meno distorsioni nell’economia. In quest’ultimo caso, trascurando gli effetti del prelievo fiscale, si avrebbe un aumento della domanda di personale femminile stabile”. Ma ne siamo sicuri? Anche perché Cusin non si è espresso sui costi della conciliazione vita-lavoro che, in questo caso, sono assolutamente sfavorevoli alle lavoratrici con un sempre più progressivo aumento della povertà delle famiglie. Quello che da queste riflessioni, e relativi conteggi, emerge è l’assolute esenzione per il sistema delle imprese da ogni tipo di coinvolgimento e onere in materia di tutela della maternità: tutto viene demandato alla partecipazione dei lavoratori o alla fiscalità generale. Ma alla fiscalità generale, proprio per un solido contributo alla maternità (correlata al lavoro femminile e non), spetta prioritariamente rimettere in sesto il nostro sistema sociale che priva le donne di asili nido, di sostegni alle famiglie, di sostegno al reddito, di interventi sistemici per l’assistenza all’handicap e alla non autosufficienza senza, peraltro, offrire aiuti concreti a migliaia di donne tuttora sprovviste di strumenti contrattuali e perciò a rischio di vulnerabilità e disagio sociale. Misure che allineerebbero il nostro Paese con gli interventi attivati in tutti gli Stati membri della Comunità a favore delle donne e del lavoro femminile e che contribuirebbero non poco ad innalzare i tassi di natalità nel nostro Paese, mai così bassi come ora. Il saggio del Professor Cusin è un notevole contributo che in termini di razionalizzazione di spesa per le aziende ha una sua validità e deve esser valutato come proposta su cui affrontare una riflessione di merito. Tuttavia non possiamo accettare che l’azienda, in nome di una sua sostenibilità sui mercati, debba essere “liberata” da oneri sociali ai quali è vincolata perché ipoteticamente ne frenerebbero lo sviluppo. Questo, infatti, non è coerente con i dichiarati intenti di molti imprenditori nostrani di aderire all’invito della Commissione europea a declinare il valore della Responsabilità Sociale di Impresa; valore che è nullo se non viene coniugato con quelli ben più alti della procreazione, di una buona maternità e di buona occupazione per tutti, perché i costi, se opportunamente previsti, potrebbero rivelarsi un guadagno: per le imprese in primis.
Ryoga007
Mah, il difetto della posizione che questo lungo commento rappresenta è che non chiarisce l’enorme equivoco di fondo: cos’è questa fantomatica responsabilità sociale d’impresa? Ci si perde facilmente in generalizzazioni e utopie per spiegare quello che le imprese “dovrebbero” fare, moralisticamente incolpandole se la realtà poi non si conforma ai nostri modelli ideali. Altra cosa è costruire un sistema di incentivi che porti le aziende ad assumere comportamenti positivi per la collettività. Possiamo raccontarcele quanto vogliamo sul Bene Comune, ma il datore di lavoro prenderà decisioni basate al tornaconto suo e della sua impresa, e a queste condizioni se può evitare di assumere una donna di 25-40 anni, magari sposata, lo fa. Le cose sono due, o si continua ad ululare alla Luna in perfetto stile italiano risolvendo zero, o si mette mano alla normativa per far si che il Bene Comune e quello della singola impresa (non del sistema, perché poi sono in singoli a prendere decisioni) coincidano.
Maria Grazia Brinchi
Il difetto della sua posizione invece è quello di affermare che alle imprese debba essere concessa l’esenzione completa da ogni forma di coinvolgimento sociale che metta a repentaglio i loro profitti. La responsabilità sociale di impresa è un impegno delle imprese ad attuare al loro interno una buona organizzazione del lavoro che sia equamente divisa tra datori di lavoro e lavoratori: è molto comodo scaricare sulla fiscalità o sul contributo dei lavoratori, oneri che sono dell’azienda. Interessante sarebbe se riflettendo sulla maternità si introducesse il congedo obbligatorio di paternità, anche riducendo quello femminile. Questo porterebbe a due risultati: una riduzione del pay gap che penalizza le donne; e la fine del problema maternità perché finalmente anche i padri se ne farebbero carico e gli imprenditori non dovrebbero essere più costretti ad assumere uomini perché più convenienti. Una domanda è d’obbligo: la maternità è un valore o un fastidio sociale? parliamone.
Ryoga007
Qualunque cosa Lei pensi e auspichi, le singole aziende agiranno per massimizzare gli interessi dei loro azionisti. E’ possibile che singole imprese decidano di pensare di loro iniziativa a valori più alti (soprattutto in momenti di ciclo economico favorevole), ma darlo per scontato sui grandi numeri e’ ingenuo e fallimentare. Parlare di “impegno” e termini come “molto comodo” e’ del tutto privo di concretezza, nel momento in cui il modello di comportamento che Lei ha in mente contrasta con gli incentivi che poi saranno dati al singolo imprenditore e questo rimane libero di prendere decisioni per la propria azienda. Ergo, o si modificano gli incentivi in questione (la sua proposta sul congedo di paternità obbligatorio è un modo) e si rende conveniente investire sulle donne, o si finisce come al solito a parlare di alti principi senza produrre alcun risultato.