Decarbonizzare l’economia europea in meno di trent’anni non è certo un’impresa facile. Per conseguire gli obiettivi stringenti che si è data, l’Unione europea deve stabilire regole coerenti anche nei settori dell’edilizia residenziale e dei trasporti.
Gli obiettivi dell’Unione europea
È possibile decarbonizzare un’economia, basata per il 70 per cento sui combustibili fossili, in meno di 30 anni? È possibile, da qui al 2030, ridurre le emissioni di gas serra del 55 per cento rispetto al livello del 1990, come il pacchetto “Fit for 55” richiede? Sono obiettivi realistici oppure no? E la strategia dell’Unione europea è efficace?
Nella ricerca di una risposta a queste domande, un primo indizio ci viene dai numeri. L’Unione europea ha centrato, senza troppe difficoltà – complice anche la crisi economica del 2008 – l’obiettivo di riduzione delle emissioni del 20 per cento entro il 2020. Tra il 1990 e il 2019 – causa Covid, non consideriamo il 2020 e il 2021 – le emissioni dell’Ue sono diminuite a un tasso medio annuo dell’1 per cento, che sale all’1,7 per cento nel periodo 2010-2019. Ridurre le emissioni del 55 per cento nel 2030, come stabilito dal pacchetto “Fit for 55”, implicherebbe un tasso medio annuo pari al – 4,4 per cento. Anche ipotizzando un forte contributo da parte del sequestro e stoccaggio della CO2, via natura o tecnologia, e dunque un tasso di decrescita intorno al 4 per cento , la distanza tra il dato storico e il target rimane considerevole: tra 2,4 e 4 volte. Nella figura 1 riportiamo la serie storica dei tassi di variazione delle emissioni di gas serra anno su anno.
Figura 1
Dalla figura, si può vedere come il valore scenda sotto il 4 per cento solo in tre casi, due dei quali associati a contrazioni vigorose dell’economia (crisi 2009 e Covid 2020). Solo in un caso, nel 2019, il tasso scende oltre il 4 per cento indipendentemente dal ciclo economico. Ecco allora la domanda: si può replicare ogni anno la performance del 2019, un unicum in 31 anni di storia, da qui al 2030 e poi dal 2030 al 2050?
Il sistema Ets
Il buon senso autorizza a ritenere che la sfida sia molto ardua, se non impossibile. Il successo richiederebbe misure efficienti e chiare, e ciò non sta accadendo. L’Ue controlla circa il 40 per cento delle proprie emissioni (elettrico, industria, trasporto aereo) attraverso l’Ets (Emissions Trading System), un sistema “cap & trade”, basato sui permessi di inquinamento negoziabili: una volta definito il cap (livello massimo delle emissioni), le imprese possono rispettarlo abbattendo le proprie emissioni oppure acquistando permessi da imprese che riducono più del richiesto.
Il punto di forza dei permessi è quello del controllo esatto delle emissioni complessive, mentre il punto di debolezza concerne il prezzo che, in relazione al gioco della domanda e dell’offerta di permessi, può subire variazioni considerevoli. Dopo anni di bassi prezzi e di inefficienza dell’Ets, le quotazioni hanno cominciato a crescere dal 2018, anche a seguito della riforma che ha introdotto la Market Stability Reserve. Oggi i prezzi viaggiano intorno ai 90 euro per tonnellata.
Lo scorso dicembre, l’Unione europea ha annunciato una nuova riforma dell’Ets, che abbassa il cap fino al 62 per cento nel 2030 dall’attuale 43 per cento, portando il tasso di riduzione annuo al 4,3-4,4 per cento dall’attuale 2,2 per cento: un raddoppio. Di certo, ciò pone una questione di crescita dei prezzi della CO2 e di conseguenza dell’energia. Business e consumatori saranno in grado di sostenerla? In che misura la Ue potrà contribuire al sostegno economico degli agenti e, più in generale, della transizione?
La chiarezza che manca
Al di là degli aspetti critici, si può comunque affermare che l’Ue dispone di uno strumento e di un piano per controllare il 40 per cento dei propri gas serra. Il problema si pone per il restante 60 per cento. Qui non sembra esservi né un piano coerente né uno strumento prescelto.
Nella riforma di dicembre, l’Ue ha annunciato di voler estendere l’Ets, tra il 2024 e il 2029, tanto al settore residenziale quanto a quello dei trasporti, sia su strada che marittimi. Si tratta di ambiti tradizionalmente non controllati dallo strumento dei permessi, a ragione dell’elevatissimo numero di agenti coinvolti. L’Unione europea ritiene, ottimisticamente, di poterlo fare assegnando i cap ai distributori di energia.
I problemi che si pongono sono almeno tre: l’effettivo controllo delle emissioni di milioni di agenti sparsi sul territorio europeo; la capacità di assorbimento, da parte dei consumatori, dei più alti prezzi indotti da cap che si andranno sempre più stringendo; la coesistenza dello strumento con le altre politiche che l’Ue ha in programma proprio per il settore residenziale e quello dei trasporti. Sul primo, è stata proposta una direttiva che prevede una progressiva crescita dei livelli di efficienza energetica degli edifici che dovranno raggiungere la classe E entro il 2030 e la D entro il 2033. Sui trasporti, l’Ue prevede l’obbligo di vendita di veicoli elettrici a partire dal 2035, con l’eccezione dei veicoli dotati di motori endotermici alimentati con e-fuels. Per il momento l’eccezione non concerne i veicoli alimentati con biocarburanti, settore nel quale l’Italia è avanti.
Dunque, da una parte l’Ue pianifica di controllare anche le emissioni non-Ets attraverso l’Ets, perciò portandole nel perimetro di uno strumento di policy basato sul segnale di prezzo. Dall’altra, congettura un piano di efficienza energetica fondato sullo standard ambientale, ovvero sul command & control. La coesistenza delle due vie non è possibile, avendo come effetto l’indebolimento di uno dei due strumenti. È ciò che accadde proprio all’Ets quando i prezzi crollarono a causa di un surplus di quote indotto anche dai sussidi alle rinnovabili.
Un analogo dualismo si pone nel settore dei trasporti dove l’estensione dell’Ets confliggerebbe con lo standard tecnologico rappresentato dall’auto elettrica. La mancanza di chiarezza nel disegno delle politiche – amplificato dagli stop and go sulla questione dell’auto elettrica – si riverbera negativamente sugli agenti, disorientandone comportamenti e investimenti. Si tratta di un limite considerevole, che rischia di inficiare un percorso complesso, arduo, mai realizzato prima da nessun paese al mondo. L’atleta dovrà saltare un’asticella posta a un’altezza che è oltre il doppio del salto che è abituato a fare. E dovrà farlo con continuità, tutti gli anni, non una sola volta. È questa la vera sfida che attende l’Europa.
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