Il parere della Corte internazionale di giustizia e la pronuncia della Cassazione segnano un cambio di passo sulla responsabilità giuridica in materia di clima. Per la prima volta, è possibile promuovere azioni civili fondate su obblighi internazionali.

Un quadro giuridico che cambia

Due decisioni di rilievo, arrivate a distanza di pochi giorni l’una dall’altra, rilanciano il tema della responsabilità per i cambiamenti climatici, delineando i contorni di un quadro giuridico in evoluzione. Si tratta della pronunzia della Corte di Cassazione e del parere della Corte internazionale di giustizia (Cig).

Il 21 luglio 2025, le Sezioni unite della Suprema Corte hanno reso l’ordinanza n. 20381/2025, nel procedimento intentato da Greenpeace, ReCommon e un gruppo di cittadini contro Eni spa, il ministero dell’Economia e delle Finanze e la Cassa depositi e prestiti. Due giorni più tardi, la Corte dell’Aja ha pubblicato il parere consultivo richiesto dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite, chiarendo la portata degli obblighi internazionali degli stati in materia climatica.

Eni e governance climatica sotto accusa

Nel caso che vede coinvolta l’Eni, gli attori hanno agito dinanzi al Tribunale di Roma, contestando il disallineamento del piano di decarbonizzazione della società rispetto agli obiettivi dell’Accordo di Parigi e ai rapporti dell’Ipcc. Hanno inoltre chiamato in causa Mef e Cdp, in qualità di azionisti di riferimento, per l’omesso esercizio dei poteri societari che avrebbero potuto orientare la strategia climatica del gruppo.

La richiesta al Tribunale di Roma comprendeva l’accertamento della responsabilità extracontrattuale ex artt. 2043 ss. cc, la condanna ad adottare misure per allineare le strategie aziendali agli obiettivi di contenimento del riscaldamento globale entro 1,5°C, nonché il risarcimento dei danni, anche in forma specifica ai sensi art. 2058 cc. Di fronte alle eccezioni dei convenuti, che hanno sollevato il difetto assoluto di giurisdizione del giudice ordinario, è stato richiesto il regolamento preventivo alla Corte di Cassazione.

La decisione della Suprema Corte era particolarmente attesa, anche alla luce della controversa pronuncia del Tribunale di Roma nel caso “Giudizio Universale”. In quel precedente – promosso contro la presidenza del Consiglio dei ministri per inadempienza agli obblighi derivanti dall’Accordo di Parigi – il giudice di primo grado aveva pronunciato una declinatoria, rilevando il difetto assoluto di giurisdizione e affermando che l’attuazione degli impegni internazionali in materia climatica rientrassero nella sfera di insindacabile discrezionalità politica. Una scelta interpretativa che, oltre a sollevare perplessità sotto il profilo della compatibilità con la Cedu (Convenzione europea dei diritti dell’uomo) e la Convenzione di Aarhus, è apparsa disallineata rispetto a orientamenti giurisprudenziali maturati Oltralpe e Oltreoceano, dove si è progressivamente affermata la giustiziabilità degli obblighi climatici. 

Per scongiurare analogo epilogo, i promotori della Giusta Causa hanno attivato un regolamento preventivo di giurisdizione dinanzi alla Suprema Corte. 

Con l’ordinanza n. 20381/2025, la Cassazione ha riconosciuto, per la prima volta, che il giudice ordinario può conoscere di azioni risarcitorie fondate su obblighi climatici internazionali, legittimando così l’accesso alla giustizia civile in tema di climate change litigation. Come chiarito dalle Sezioni unite, “il compito affidato al giudice consiste pertanto soltanto nel verificare se le fonti internazionali e costituzionali invocate risultino idonee ad imporre un dovere d’intervento direttamente a carico dei convenuti, tale da fondare una responsabilità extracontrattuale degli stessi, e quindi da giustificarne la condanna al risarcimento in forma specifica, ai sensi dell’art. 2058 cod. civ”. 

In questa prospettiva, si esclude che l’azione intentata comporti un’ingerenza indebita nella sfera di competenza del legislatore o dell’esecutivo. È stato infatti evidenziato che, sebbene la questione climatica rientri anche tra le materie di competenza degli altri poteri dello stato, può essere sottoposta al sindacato giurisdizionale nella misura in cui incide su diritti fondamentali, quali quelli tutelati dagli artt. 2, 9, 32 e 41 Cost., dagli artt. 2 e 8 della Cedu e dagli artt. 2 e 7 della Cdfue (Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea), ritenuti dalla Corte astrattamente idonei a imporre obblighi di condotta direttamente in capo ai convenuti.

Il parere della Cig: obblighi climatici come doveri giuridici

Con il parere del 23 luglio 2025, la Corte internazionale di giustizia ha offerto una lettura sistematica e autorevole degli obblighi giuridici incombenti sugli stati in materia di cambiamento climatico. Sebbene privo di effetti formalmente vincolanti, il parere riveste un’importanza interpretativa di primo piano, rafforzando la cornice giuridica entro cui valutare l’azione (o inerzia) statale rispetto alla crisi climatica.

La Corte ha affermato che gli stati sono tenuti, in virtù del diritto consuetudinario e convenzionale, ad adottare misure positive volte a prevenire danni ambientali significativi, a cooperare tra loro e ad agire con la dovuta diligenza. La violazione di tali obblighi, anche attraverso condotte omissive, può configurare un illecito internazionale, dando luogo a obblighi di cessazione, riparazione e garanzie di non ripetizione. 

Un punto nodale del parere risiede nel superamento della visione compartimentata della disciplina giuridica in materia di cambiamento climatico: la Corte ha chiarito che la Convenzione quadro delle Nazioni Unite (Unfccc), l’Accordo di Parigi e i relativi strumenti attuativi non costituiscono una lex specialis isolata, bensì vanno letti e applicati alla luce dei principi generali del diritto internazionale. Tra questi, il principio di non arrecare danni significativi all’ambiente (“Do No Significant Harm” il cosiddetto Dnsh), la responsabilità comune ma differenziata, l’equità intergenerazionale, il principio precauzionale e lo sviluppo sostenibile. Tale impostazione rafforza la cogenza del quadro normativo e ne amplia la portata anche nei confronti degli stati che non abbiano ratificato specifici trattati, laddove siano vincolati da obblighi consuetudinari o erga omnes.

La Corte ha inoltre sottolineato la stretta connessione tra obblighi climatici e tutela dei diritti umani: il diritto a un ambiente pulito, sano e sostenibile costituisce condizione abilitante per l’effettivo godimento di diritti fondamentali quali la vita, la salute, l’abitazione e un’esistenza dignitosa. 

La sfida dell’effettività

La valorizzazione dei principi di leale cooperazione tra stati, precauzione e sostenibilità come criteri interpretativi consente di conferire contenuto giuridico a obblighi climatici finora percepiti come generici o carenti di cogenza. Resta tuttavia irrisolta la questione della loro effettività applicativa: il riconoscimento formale, pur significativo, non garantisce un automatico accesso alla giustizia, né assicura che gli obblighi siano agevolmente invocabili in giudizio. Il parere della Cig contribuisce al consolidamento della regolazione climatica, offrendo una piattaforma argomentativa utile anche in sede giudiziaria. Tuttavia, la giustizia climatica continua a scontrarsi con ostacoli strutturali: difficoltà probatorie, incertezza normativa, strumenti processuali inadeguati. La sfida dell’effettività resta dunque affidata alla capacità degli ordinamenti interni di accogliere azioni complesse, fondate su diritti collettivi e intergenerazionali.

Responsabilità extracontrattuale e danno climatico: nodi aperti

Entrambe le pronunce evidenziano un mutamento nella configurabilità della responsabilità giuridica in materia climatica. Il danno antropogenico globale, collettivo e intergenerazionale, sfugge ai tradizionali schemi della responsabilità extracontrattuale, centrati su nesso causale diretto e danno individuale. Ne derivano incertezze sulla legittimazione, sull’accertamento del danno e sull’individuazione dei soggetti responsabili. Il caso Eni, al pari di altre simili iniziative, sollecita un adattamento del sistema civilistico alle sfide poste da obblighi climatici di matrice sovranazionale. La complessità delle catene decisionali, specie in presenza di gruppi multinazionali o partecipazioni pubbliche, solleva interrogativi rilevanti su responsabilità da omissione o agevolazione.

La coincidenza temporale tra il parere della Corte internazionale di giustizia e la pronuncia della Cassazione, per quanto fortuita, segna un cambio di passo. Per la prima volta in Italia è ora possibile promuovere azioni civili fondate su obblighi internazionali in materia climatica. Il 2025 si candida, in questo senso, a rappresentare l’inizio effettivo del contenzioso climatico nel nostro ordinamento.

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