Alterare criteri e pesi dell’Isee per garantire un beneficio specifico a una categoria di persone espone al rischio di risultati arbitrari e iniqui. Per questo va respinta l’ipotesi di escludere dal calcolo il valore della prima casa fino a 100mila euro.
A cosa serve l’Indicatore della situazione economica equivalente
La discussione sulla prossima legge di bilancio include la proposta di un nuovo intervento sull’Isee, l’Indicatore della situazione economica equivalente.
L’Isee svolge un ruolo molto delicato: serve a valutare la condizione economica complessiva, reddituale e patrimoniale, delle famiglie per stabilirne il diritto all’accesso a determinati servizi o trasferimenti o per graduare il costo del servizio o il beneficio a cui si ha diritto. È quindi uno strumento di misurazione, con cui si mettono in fila i diversi nuclei familiari presenti nel nostro paese, ordinandoli dal più povero al meno povero.
Proprio questo ruolo molto delicato svolto dall’Isee richiede rigore nella sua definizione. Non bisogna affidargli finalità, pure meritevoli, diverse rispetto a quella, di misura, che gli è propria. Se le modifiche, pur sempre possibili, di uno strumento necessariamente né immutabile né perfetto vengono introdotte per impostare politiche che attribuiscono un beneficio specifico a questa o quella categoria di soggetti, e a questo scopo se ne alterano ad hoc criteri e pesi, ci si espone al rischio di risultati arbitrari e iniqui.
Conseguenze inique dell’esclusione di singole componenti patrimoniali
Sotto questo profilo, l’errore di fondo delle proposte volte ad escludere questa o quella componente del patrimonio dal calcolo dell’indicatore è di ritenere che l’effetto sia “includere un numero più alto di famiglie all’interno dei limiti dei bonus e degli sgravi per cui è previsto un limite Isee” come ancora oggi declama un importante quotidiano nazionale.
Non è così: l’effetto di quelle misure sarebbe solo di stabilire un ordinamento diverso delle famiglie, facendone apparire più povere alcune e quindi, inevitabilmente, più ricche altre. Se uno dei criteri per l’accesso all’asilo nido è il valore dell’Isee, ma i posti disponibili sono 20, solo 20 bambini saranno ammessi. Togliendo una componente patrimoniale dall’Isee, accederanno più facilmente bambini di famiglie con patrimoni relativamente più alti e resteranno esclusi bambini di famiglie con patrimoni più bassi. Se invece il tema è la graduazione di una prestazione in funzione dell’Isee, come ad esempio l’ammontare dell’assegno per i figli, bisogna avere chiaro che una modifica dell’indicatore a parità di soglia richiede una copertura finanziaria. Se si è disposti a mettere più soldi, allora la via maestra per riconoscere un beneficio più alto è alzare le soglie Isee che ne determinano la graduazione, non modificare l’ordinamento delle famiglie in modo arbitrario.
Un primo esempio degli effetti sbagliati di politiche che non tengono conto di questa fondamentale considerazione si è avuto con la decisione della legge di bilancio per il 2024 che ha escluso dal calcolo dell’Isee, fino al valore complessivo di 50mila euro, i titoli di stato italiani. L’esito della decisione, come già illustrato da Massimo Baldini e Stefano Toso, è stato una duplice violazione dell’equità: due famiglie con uguale reddito e patrimonio sono ora trattate diversamente a seconda della quantità di titoli pubblici posseduta, fino al paradosso per cui una famiglia deve pagare, ad esempio, una tariffa più alta per l’asilo nido, solo perché ha investito più dell’altra in obbligazioni private invece che pubbliche. Inoltre, una famiglia con un patrimonio più alto dell’altra le passa davanti nelle liste di accesso a un servizio solo perché il patrimonio che ha investito in Bot e Btp non viene considerato.
Un secondo esempio è dato dall’ipotesi, in discussione per la manovra per il 2026, di escludere dal calcolo dell’indicatore il valore (catastale) della prima casa fino a 100mila euro.
Anche questa scelta non va valutata in assoluto, ma per gli effetti che avrebbe sull’ordinamento delle famiglie dalla più povera alla più ricca.
Equità di trattamento fra affittuari e proprietari
C’è però un altro importantissimo aspetto per cui la scelta di intervenire sulla soglia di esclusione dall’Isee della prima casa è particolarmente discutibile.
Nel disegno dell’Isee (con la riforma del 2013) un’attenzione particolare è stata infatti posta al riconoscimento dei costi dell’abitare, con cui si confrontano tutte le famiglie, in misura diversa in relazione alla loro numerosità.
La scelta di fondo è stata quella di rendere equivalente, in termini di riduzione massima del valore dell’Isee, il riconoscimento del costo dell’abitare degli affittuari e dei proprietari, superando la discriminazione preesistente a favore dei proprietari, che godevano di una riduzione dell’indicatore pari al doppio di quella massima consentita agli affittuari.
A favore degli affittuari è ora riconosciuto un abbattimento del reddito, pari all’affitto effettivo da essi pagato, fino a un massimo di 7mila euro, incrementato di 500 euro per ogni figlio successivo al secondo. Per evitare fenomeni di incapienza per i proprietari di casa che si trovino in situazioni di basso reddito l’abbattimento dell’Isee per i proprietari è riconosciuto in conto patrimonio. La franchigia è di 52.500 euro incrementata di 2.500 euro per ogni figlio convivente successivo al secondo. Il valore catastale della prima casa che eccede i 52.500 euro è considerato solo per i due terzi del suo ammontare. Poiché il patrimonio entra nel calcolo dell’Isee per solo il 20 per cento del suo ammontare, vuol dire che l’esclusione dalla componente patrimoniale dell’Isee del valore della prima casa fino a 52.500 euro ha lo stesso effetto in termini di riduzione dell’Isee della esclusione in conto reddito dell’affitto riconosciuto ai locatari (2/3*52.500*0,20=7.000). Così come l’abbattimento di 2.500 euro in conto patrimonio per ogni figlio convivente è equivalente a quello di 500 euro in conto reddito riconosciuto agli affittuari (2.500*0,20 = 500).
Questo equilibrio, fra costi dell’abitare riconosciuti ai proprietari e costi dell’abitare riconosciuti agli affittuari, non va assolutamente alterato. Si può decidere di aggiornare i valori se li si ritiene inadeguati dopo dieci anni dalla riforma, ma l’equilibrio non deve essere messo in discussione. Avrebbe altrimenti l’effetto di dare una priorità nell’accesso ai servizi, e di favorire nel pagamento delle tariffe e nella percezione di prestazioni, i proprietari di casa rispetto agli affittuari, a parità di condizione economica e numerosità delle famiglie. Un esito difficilmente giustificabile sul piano dell’equità.
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