La nuova tassazione dei dividendi distribuiti dalle società prevista dal disegno di legge di bilancio 2026 produrrà un gettito di circa un miliardo. Romperà però un meccanismo che si era dimostrato equilibrato, penalizzando anche chi più investe.
Come sono tassati oggi e come lo saranno nel 2026
Il disegno di legge di bilancio è da sempre un guazzabuglio di interventi sui terreni più disparati. Non c’è, quindi, da meravigliarsi se si pesca qua e là, privilegiando l’intervento su “chi ha di più”. Che nella fattispecie sta significando prendersela, perlopiù, con le banche e le assicurazioni. Ma anche con i dividendi distribuiti da società.
Attualmente, i dividendi sono tassati con meccanismi diversi in funzione del loro percettore. Se è una persona fisica, si applica una ritenuta secca del 26 per cento. Se la partecipazione è detenuta da una persona fisica nell’esercizio di un’attività imprenditoriale il dividendo entra nella base imponibile della stessa per il suo 58,14 per cento dando luogo, nella sostanza, a una tassazione complessiva del 43 per cento, allineando così, in via di fatto ancorché non in diritto, il trattamento dei dividendi percepiti da persone fisiche tanto che si qualifichino come reddito di capitale che reddito d’impresa.
Il disegno di legge di bilancio per il 2026 dispone che questi regimi restino allineati solo qualora la persona fisica-imprenditore possegga almeno il 10 per cento del capitale dell’entità che distribuisce il dividendo. Consegue che l’imprenditore individuale che possiede una partecipazione inferiore al 10 per cento sarà soggetto alla tassazione piena del dividendo percepito (cioè, perlopiù, all’aliquota del 43 per cento sul 100 per cento del dividendo).
Qual è la logica di questo cambiamento? Qual è l’interesse della collettività a tassare di più chi ha di meno o semplicemente chi ha effettuato un investimento in una entità più grande e ne possiede, conseguentemente, una quota minore? C’è un interesse della collettività ad avere investimenti in partecipazioni più concentrati? E perché, se questo fosse l’obiettivo, distinguere fra partecipazioni detenute in regime imprenditoriale rispetto a quelle detenute tout-court? La relazione di accompagnamento del disegno di legge di bilancio non dà alcun conto su questi facili interrogativi. Eppure, potrebbe avere senso distinguere il regime fiscale di chi resta fedele per un lungo periodo a una entità rispetto a chi fa shopping della stessa. O ancora a chi partecipa a veicoli di investimento più rischiosi (venture capital) rispetto a chi investe in soggetti più tradizionali (utilities).
Usufrutto e nuda proprietà
La novità genera, poi, serie preoccupazioni su strutture tipiche con cui famiglie di imprenditori italiani hanno organizzato la propria attività gestoria. Molte di esse, infatti, hanno adottato la formula che distingue fra usufrutto – attribuito al gestore effettivo dell’attività – e nuda proprietà, attribuita ai successori dello stesso. Il gestore/usufruttuario è spesso titolare dei diritti di voto risultando, quindi, a tutti gli effetti, il dominus della situazione e nell’intesa che essa prefigura già la successione in azienda che deriverà dal suo decesso. Si tratta, quindi, di un assetto che preannuncia un futuro affidabile incidendo il meno possibile sul presente e che non comporta alcuna sottrazione del dividendo all’ordinario onere fiscale (che sarà assolto dall’usufruttuario anziché dal nudo proprietario). Semmai, produce un beneficio al momento della consolidazione dell’usufrutto con la nuda proprietà (perché la morte dell’usufruttuario, che pure trasforma i nudi proprietari in pieni proprietari, non dà luogo ad alcuna ulteriore tassazione).
Si discute, oggi, se l’usufruttuario – che è il dominus della situazione – sia, perciò solo, “imprenditore individuale”. ma la discussione è puramente teorica visto che i regimi della persona fisica – imprenditrice o non – sono sostanzialmente allineati. la situazione cambia radicalmente con il Ddl perché l’imprenditore individuale/usufruttuario si troverebbe nella scomoda posizione di non detenere – tecnicamente – alcuna partecipazione e, quindi, non poter beneficiare di alcuna riduzione della sua base imponibile. Al contrario la persona fisica non imprenditore/usufruttuario manterrebbe il suo (favorevole) regime di cedolare secca perché le modifiche semplicemente non lo riguardano. Insomma, la formula adottata dal disegno di legge di bilancio – che distingue il regime dei dividendi sulla base della mera “proprietà” – provoca inutili sconvolgimenti su meccanismi da tempo sperimentati e tutt’altro che antisociali. Se fosse riferita ai diritti di voto anziché alla “detenzione” (leggi “proprietà”), come letteralmente fa, provocherebbe meno danni.
Cosa succede alle società
La misura adottata per le persone fisiche vale anche per le società che percepiscono dividendi. Una partecipazione di almeno il 10 per cento consente di mantenere l’attuale regime della cosiddetta Pex (Participation Exemption) secondo il quale il dividendo percepito è tassabile solo per il 5 per cento del suo ammontare. Con la conseguenza che, al di sotto di questa soglia partecipativa, il dividendo sarebbe tassato per intero. Significa tassazione all’1,2 per cento nel primo caso e al 24 per cento nel secondo. Vale la stessa domanda: dov’è la logica? Tanto più che il regime Pex è stato introdotto per eliminare la doppia tassazione del medesimo reddito e sostituire il meccanismo – assai complicato – del credito d’imposta su dividendi (chi non ricorda la dannazione dei canestri spendibili). L’intervento da un lato sconvolge un sistema tutto sommato equilibrato e idoneo a evitare la doppia tassazione del medesimo reddito. Dall’altro, penalizza investimenti anche di grandi dimensioni – e proprio per questo inferiori al 10 per cento del capitale – nelle poche società italiane di adeguato standing e che praticano una politica di remunerazione sistematica dei propri investitori. Ma il gettito è circa 1 miliardo l’anno. Poca logica, ma tanto miele.
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Tommaso Di Tanno si divide fra attività accademica e professionale. E’ stato professore a contratto di
Diritto Tributario e di Diritto Tributario Internazionale presso le Università di Roma Tor Vergata, Roma
Università Europea, Siena e Cassino nonché docente presso la Scuola Centrale di Polizia Tributaria, il Master
Tributario dell’Università Bocconi ed il Master in Diritto di Impresa della LUISS. Ha presieduto il Consiglio di
Amministrazione di Sisal, di IPI, di Assicurazioni di Roma; il Collegio Sindacale di Anima, Banca Monte dei
Paschi di Siena, Banca Nazionale del Lavoro, British American Tobacco, Caltagirone, Vodafone. E’ stato
consigliere economico del Ministro delle Finanze e del Presidente della Commissione Industria del Senato;
membro della Commissione per il controllo dei bilanci dei partiti politici e di svariate commissioni di studio
governative.
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