In America si discute sulla possibile riduzione di un anno dei corsi di giurisprudenza. Perché per preparare i futuri avvocati sembra più efficace un periodo di tirocinio. E da noi? Cinque anni solo per la laurea e tanto studio mnemonico. Barriere all’entrata e apertura a laureati in altre materie.
MENO STUDIO, PIÙ PRATICA
Un corso di giurisprudenza negli Stati Uniti dura tre anni. Vi si può accedere dopo aver acquisito una laurea, diremmo noi, di primo livello. Conclusi i tre anni, è possibile diventare avvocati, sostenendo un esame a pochi mesi dalla laurea.
Recentemente, complice anche un calo delle iscrizioni, si è cominciato a discutere se tre anni non siano troppi: il campo di coloro che sostengono che il terzo anno dovrebbe diventare facoltativo, consentendo agli studenti di sostituirlo con un tirocinio, si è arricchito poche settimane fa della presa di posizione a suo favore del presidente Obama, già professore di diritto costituzionale all’università di Chicago.
La tesi, che da noi suona estrema, è che due anni di lezioni ed esami su materie giuridiche siano sufficienti e anche più efficaci, se seguiti da un anno di pratica, a preparare un avvocato. I corsi fondamentali si possono impartire in quel biennio, durante il quale vi sarebbe anche il tempo per approfondimenti in materie specialistiche. Troppo poco? È più che legittimo avere opinioni diverse al riguardo, ma non meriterebbe un rifiuto preconcetto, dalle nostre parti, l’idea, del resto da sempre dominante negli Stati Uniti, che per essere un buon avvocato non serva (più) la padronanza mnemonica di fiumi di leggi vigenti e di orientamenti giurisprudenziali e dottrinali, quanto piuttosto la capacità di usare il ragionamento giuridico e l’insieme di strumentazioni retoriche che vi si associa; la capacità di reperire le fonti (leggi, sentenze, articoli di dottrina, circolari interpretative, eccetera) piuttosto che la loro memorizzazione; la conoscenza dei concetti fondamentali del diritto pubblico e privato, che consentono di muoversi con agio in ciascun settore, nonché la familiarità con le (mai numerose) idee di fondo che sorreggono le singole discipline; e, infine, l’acquisizione di una sorta di indice mentale delle materie che compongono ogni singola disciplina piuttosto che la ritenzione dei relativi contenuti.
Si muoverà meglio nella pratica del diritto amministrativo chi abbia compreso a fondo cosa sono un atto amministrativo, un procedimento amministrativo, un interesse legittimo e l’eccesso di potere, o chi abbia dedicato allo studio di questi concetti fondamentali la stessa, per necessità più superficiale, attenzione che a memorizzare la disciplina degli appalti pubblici, degli enti pubblici territoriali, delle opere pubbliche, e così via?
DURATA DELLA LAUREA, UNA BARRIERA ALL’ENTRATA
In Italia, dove la durata degli studi giuridici è di ben cinque anni (cui vanno aggiunti diciotto mesi di pratica, e anche un anno di attesa per l’esito dell’esame), prevale ancora l’idea che il laureato in giurisprudenza debba conoscere a fondo, nel senso nozionistico del termine, l’ordinamento positivo, oltre che alcune materie più “culturali”, come la filosofia del diritto e il diritto romano. Per questo, in effetti, anche cinque anni possono non bastare. Ma questo sforzo di acquisizione di nozioni è un impiego utile del tempo per le migliaia di studenti che si iscrivono a giurisprudenza ogni anno? E siamo sicuri che il capitale umano che costruiscono in cinque anni di questo tipo di studio sia quello non solo di cui avranno bisogno nella loro carriera professionale, ma soprattutto che meglio potrà servire la domanda di servizi legali e le esigenze della società nel suo complesso?
Il dibattito americano potrebbe far riflettere, pur senza farsi illusioni sull’agibilità politica di una simile soluzione, circa l’opportunità perlomeno di un ritorno ai tradizionali quattro anni di giurisprudenza (era questa la durata del corso di laurea fino al 2000).
Si potrebbe obiettare che cinque anni sono meglio di quattro, se in questo modo si disincentiva la scelta di giurisprudenza e si riduce dunque il bacino dei futuri avvocati. Si potrebbero avere effetti positivi sul tasso di litigiosità “patologica” (ossia di liti pretestuose, spesso di minimo valore, che servono gli interessi più degli avvocati che dei loro clienti e, ingolfando i tribunali, rendono più difficile soddisfare la domanda fisiologica del servizio “giustizia”), se è vero che su questo incide il numero degli avvocati. (1)
Il razionamento dell’offerta dei servizi legali, tuttavia, è uno strumento rozzo per rimediare alle patologie della giustizia civile determinate da una cattiva offerta di servizi legali: non farebbe venir meno i meccanismi che consentono agli avvocati, per quanto in minor numero, di appesantire il servizio giustizia con liti ingiustificate, posto che immutata resterebbe l’asimmetria informativa che consente all’avvocato di dare consigli infedeli al cliente. Inoltre, una minore concorrenza tra gli avvocati porterebbe a prezzi più alti per i loro servizi anche a danno di chi avesse buone ragioni per agire o resistere in giudizio.
Ammesso che più elevate barriere all’entrata siano benefiche in questo campo, invece che una maggiore durata degli studi (che porta a un’autoselezione per censo) non sarebbe più equo (e forse anche più efficace) consentire anche alle università pubbliche di prefissare il numero di nuovi studenti da immatricolare ogni anno parametrandolo alla propria capacità di offerta formativa (e selezionando così i candidati più meritevoli)?
E insieme al ritorno ai quattro anni di studio, si potrebbe prendere ad esempio il modello americano, per immaginare un percorso alternativo per l’acquisizione di competenze giuridiche e l’accesso alle professioni legali: consentire a chi abbia già un’altra laurea triennale, in qualunque materia, di accedere a un corso biennale di diritto, senza debiti formativi e con laurea finale dello stesso valore di quella quinquennale. Dopo il biennio, per accedere alla professione forense servirebbero i diciotto mesi di pratica previsti anche per i laureati quadriennali.
Certo, questo percorso potrebbe rivelarsi proibitivo per il “tardivo” aspirante avvocato se l’esame di accesso alla professione premia il nozionismo e l’enciclopedismo. Come sembra fare la recente riforma dell’ordinamento forense, laddove ha escluso che durante gli esami scritti sia possibile consultare testi normativi commentati.
UN CAMBIO DI MENTALITÀ
Il vantaggio maggiore dell’apertura delle professioni legali a laureati in altre discipline non starebbe tanto nell’eventuale incremento dell’offerta di servizi legali, quanto piuttosto nell’accesso a questo mercato di attori con un capitale umano meno monoliticamente incentrato sul diritto e dunque meno inclini a condividere l’idea del primato del diritto stesso. Oggi, infatti, secondo l’ideologia prevalente all’interno delle facoltà di giurisprudenza e delle professioni legali, il diritto è un fine, non un mezzo per agevolare le interazioni individuali e sociali; è la società a doversi adattare alle esigenze del diritto, non questo alle necessità di quella salve le limitazioni frutto di scelte politiche esplicite (e non della fantasia interpretativa del giurista, avvocato, giudice o funzionario pubblico che sia). Il diritto non è anche il riflesso di fenomeni e influenze sociali e culturali “altri”, bensì un sistema chiuso, nel quale i valori non possono entrare se non travestendoli da argomenti giuridici logicamente cogenti (e dunque con minore accountability nei confronti della società stessa).
L’immissione in questo contesto culturale di persone che per almeno tre anni abbiano dedicato i propri sforzi di studio a tutt’altro, che si tratti di letteratura classica o di scienza dei materiali, di matematica o di storia moderna, potrebbe contribuire nel tempo a introdurre i germi del dubbio nelle granitiche certezze del giurista circa la propria centralità sociale e l’autosufficienza culturale della propria scienza.
In un paese in cui gli operatori economici sono quotidianamente vessati da restrizioni legali, attese di provvedimenti amministrativi e ricorsi giurisdizionali, una simile spinta al cambiamento della cultura giuridica dominante non potrebbe che giovare.
(1) Vedi ad esempio P. Buonanno e M. Galizzi (2010), “Advocatus et non Latro? Testing the Supplied-Induced-Demand Hypothesis for Italian Courts of Justice”, Nota di lavoro, Feem 52.
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Alessandro Bignardi
Sono laureato in giurisprudenza da circa un anno e sono praticante presso uno studio legale da circa lo stesso tempo, mi permetto qualche osservazione. Che l’eliminazione dei codici commentati dall’esame di abilitazione premi il nozionismo mi sembra un’affermazione azzardata. Mi spiego: finora, sentendo l’esperienze di avvocati che hanno svolto ruoli di commissari esaminatori, gli scritti dell’esame di abilitazione si risolvono quasi sempre in un elenco di sentenze standard trovate nei codici commentati. Eliminando la possibilità di riferirsi alle stesse quattro sentenze si ‘obbliga’, di fatto, l’aspirante avvocato a ragionare sui quesiti posti dalle tracce, piuttosto che appiattirsi sugli orientamenti prevalenti.
Sul resto dell’articolo sono più che d’accordo sull’eccessiva durata del percorso di formazione (ho iniziato l’università a fine 2006, non posso prendere il titolo, ottimisticamente, prima del 2016, 10 anni a cui va sottratto un anno fuori corso). Sull’ingresso alle professioni legali per i ‘non addetti ai lavori’ si pongono una serie di problemi, legati per lo più alla complessità del sistema giuridico; che un cambio di mentalità sia necessario anche e soprattutto all’interno del mondo della giustizia non c’è dubbio, che però dei professionisti di altri settori possano, in soli due anni, imparare quello che un professionista legale impara in 10 anni mi pare un po’ pretenzioso (non scherzo, anche dopo il titolo per acquisire la necessaria esperienza da avvocato ci vogliono comunque diversi anni).
Marco De Nadai
Caro Professore, condivido l’articolo, soprattutto nella parte in cui evidenzia la tradizionale tendenza della classe forense italica a manifestare un certo snobismo e autoreferenzialità verso il mondo “esterno”, fenomeno che attecchisce, però, soprattutto nelle piccole realtà di provincia piuttosto che, ad esempio, a Roma o Milano (mi riferisco ai ben “noti” studi legali “internazionali”). Sono inoltre d’accordo sul fatto che sarebbe interessante offrire la possibilità anche a chi ha background diversi ad accedere all’avvocatura; questo è infatti il modello americano, come Lei ha ricordato. Nella mia esperienza ho avuto modo di trattare con avvocati americani esperti di diritto industriale che avevano una laurea in matematica o in chimica, e Le posso confermare che non mi sono sembrati affatto in difficoltà dinnanzi a comprendere il funzionamento di una clausola di co-vendita o la struttura di una joint venture. Per non parlare della loro maggiore conoscenza del business del cliente (in quel caso si trattava proprio di un’azienda chimica), questione che nella nostra piccola Italia pare ancora una chimera (o qualcosa del genere…).
Detto questo, siamo sicuri che l’apertura all’avvocatura a studiosi di altre materie possa davvero giovarci? Ne sentiamo davvero il bisogno, in un paese popolato da oltre 220.000 avvocati? E poi, è evidente che il nostro sistema (di civil law) non mi sembra paragonabile a quello americano (di common law), dove le leggi sono molto meno delle nostre e soprattutto più semplici, quasi a prova di un….”chimico”.
Luca Enriques
Caro De Nadai, è un mito che negli Stati Uniti le leggi siano “molto meno delle nostre e soprattutto più semplici”.
Ylenia
in un paese popolato da 220.000 avvocati si può mettere il numero chiuso nelle facoltà.
Gabriele Orlando
Nell’esperienza quotidiana la maggior parte di chi si forma come avvocato è “in formazione continua”, dato che in Italia esercitare una professione liberale comporta quasi una presunzione di onniscienza in ordine ad ogni argomento affrontato e che, sempre in Italia, la certezza del diritto è sempre più labile a causa della mediocrità intellettuale di Parlamento e Governo che fanno e disfano senza razionalità (figurarsi la ragionevolezza che è architrave di ogni solido ordinamento giuridico).
Il sistema non funziona perché l’attività pratica forense è diventata un percorso ad ostacoli, pieno di termini, preclusioni, scadenze, incombenze di ogni tipo, a fronte dei quali gli anni di studio non bastano ad avere la prontezza di sintesi concettuale necessaria e gli anni di tirocinio (rectius: pratica forense) non bastano a dare le dovute capacità gestionali che richiedono, necessariamente, un notevole e sempre maggiore bagaglio di esperienze sul campo.
La correlazione fra litigiosità e numero di avvocati, poi, è grossolana, dato che nel costume nostrano il pagamento del compenso non è considerato, come dovrebbe, il corrispettivo di tempo ed energie spese in un’attività in favore altrui, bensì è vista come incomprensibile elargizione liberale, imposta da altri.
Nella realtà dei fatti sostenere un processo comporta un sicuro, immediato, dispendio di energie e risorse economiche, continuo nel tempo (peraltro indeterminato) e moltiplicato dall’inefficienza degli uffici giudiziari (tutto dovuto alla colpevolissima negligenza di chi non stanzia fondi per strutture, personale e mezzi), dietro una retribuzione inadeguata. Alla fine del processo, poi, il compenso stabilito corrisponderà ad un potere di acquisto drasticamente falcidiato dall’aumento costante del costo della vita.
Nel frattempo, comunque, i costi sono continui (pressione fiscale e contribuzione previdenziale consumano quasi il 60% del fatturato), la previdenza e l’assistenza sociale rasentano la soglia di povertà.
Un processo è diventato un investimento, poco conveniente per chiunque, soprattutto per l’avvocato che lavora gratis et amore dei per un numero indeterminato di anni, non potendo, però, pretendere altrettanto dagli altri.
Con buona pace del “diritto come fine”, che probabilmente è un buon argomento da salotto per i pochi ricchi di questo paese: i poveri non si possono permettere l’imposizione fiscale specifica prevista per gli atti giudiziari.
Giorgio Serafini
Premetto che sono un ingegnere, e docente universitario, che, per motivi familiari, ha vissuto intensamente le problematiche forensi. La mia esperienza mi dice che il passaggio da 5 anni al 3+2, certamente assieme ad altri fattori, ha distrutto la qualità delle lauree d’ingegneria italiane; al contrario le laure di architettura, rimaste di 5 anni, hanno mantenuto un livello di qualità assolutamente confrontabile prima e dopo la riforma. Gli architetti rifiutarono, giustamente, il passaggio alla 3+2 in quanto affermavano di non limitarsi a dare nozioni, ma ritenevano di formare un progettista. I risultati hanno dato loro ragione. La formazione fornita dal tradizionale corso quadriennale in giurisprudenza, per chi era mentalmente formabile, mi è sempre parsa di buona qualità, creando avvocati di cultura e sensibilità civile a fianco dei tanti legali bravi a farsi valere più in relazione alla loro aggressività che alle loro capacità tecniche. Ricordo, poi, che i dipartimenti di giurisprudenza dovrebbero dare la formazione di base anche ai nostri magistrati; magistrati che, contrariamente a quelli statunitensi, dovrebbero avere spiccati doti di equilibrio e consapevolezza delle funzioni del diritto negli equilibri tra i poteri della società. Mi sembra, quindi, proponibile il ritorno ad un corso di laurea di 4 anni; mi sembra, viceversa, improponibile una riduzione del corso specifico di laurea ad un paio d’anni, privilegiando quegli schematismi che, mi sembra, più di ogni altra condizione al contorno invitano alla litigiosità legale.
Massimo Matteoli
L’idea che il “primato del diritto”, cioè il primato della legge, sia un errore mi sembra decisamente pericolosa.
Le maglie dell’interpretazione sono nel nostro sistema sono così larghe, visto che alla fine quello che conta è “il libero convincimento del giudice”, che pongono meno ostacoli al “raggiungimento del fine dell’interazione sociale” del principio del precedente o simili. Aggiungere l’abbandono conclamato del “principio di legalità” può solo rendere il sistema ancora più “ingiusto”.
Purtroppo si continua a pensare, Governo e Parlamento in testa, che la crisi della giustizia sia dovuta alle leggi esistenti e possa essere risolta con nuove leggi.
Ben più gravi e prioritari sono i problemi strutturali e di personale, che hanno ridotto al collasso i Tribunali italiani.
Certo è molto più facile votare una nuova leggina, che trovare i soldi per le assunzioni e le strutture necessarie ad un funzionamento dignitoso del sistema, ma in questo modo i problemi si aggravano e si sommano, di sicuro non si risolvono. .
Luca Enriques
Caro Matteoli, La ringrazio per l’occasione che mi dà di chiarire un punto: per me primato del diritto e primato della legge non sono sinonimi. Infatti ho scritto che secondo la mentalità dominante tra i giuristi “è la società a doversi adattare alle esigenze del diritto, non questo alle necessità di quella salve le limitazioni frutto di scelte politiche esplicite (e non della fantasia interpretativa del giurista, avvocato, giudice o funzionario pubblico che sia)”. Dunque, semmai per me primato del diritto è sinonimo di primato del giurista. Ci mancherebbe che il legislatore non potesse, con le leggi, porre dei vincoli all’agire sociale. Spesso però i giuristi, pratici e teorici, tendono a estendere quei limiti ben oltre gli intenti originari dello stesso legislatore (già di suo interventista), mediante le interpretazioni estensive, l’applicazione analogica, i principi generali dell’ordinamento, le nullità virtuali, “il libero convincimento del giudice”, come giustamente osserva anche Lei, e così via.
Ylenia
Sono pienamente d’accordo con l’accesso ad altre lauree triennali al biennio per diventare avvocato. Io vorrei questa stessa regola per l’accesso alla professione di psicologo, nei paesi anglosassoni è così, con qualsiasi laurea triennale puoi iscriverti al biennio di psicologia o ai 4 anni previsti per un PhD in psicologia. E’ proprio un cambio di mentalità, come ben scrive l’autore di questo articolo, è quello di cui tutta la società italiana ha bisogno.
Avvocato
Sono piuttosto d’accordo con la tesi di fondo dell’articolo, ma mi vien fattod’osservare che gli avvocati, in Italia come ovunque nel mondo, usano il sistema come è senza averpotere di plasmarlo. La roccaforte del primato del diritto – rectius, del giurista- non è l’avvocatura, ma le magistrature. Finchè queste continuano a perseguire l’ideale mandarino, non c’è rimedio, ed apoco servirebbe tagliare gli studi di giurisprudenza, vorrebbe solo dire che i candidati alla magistratura, dopo la laurea, studierebbero quattro anni invece di due, aumentando ulteriormente la distanza e la riluttanza al dialogo con l’avvocatura, cioè con la società. E’, quindi, nella selezione dei magistrati, che va cercata la soluzione del problema. Una magistratura reclutata dallavvocatura, secondo il sistema inglese, sarebbe inevitabilmente molto più aperta , sia per formazione ed esperienza ( col primato del diritto in mente si può far il magistrato, ma non l’avvocato), sia, semplicemente, perchè non avrebbe la vocazione ad identificarsi totalmente in un apparato di cui entrerebbe a far parte solo inetà matura.
Marco Quadrelli (Università Ca
Quando mi sono laureato (vecchio ordinamento), sono andato a fare la consueta pratica e poi sono tornato a lezione di istituzioni di diritto privato: ciò che mi appariva nebuloso da studente era divenuto chiaro e limpido. Non dotato di genialità ci ho messo ben quattro anni per assimilare i concetti fondamentali. Il diritto tributario poi l’ho messo in pratica solo di recente: chiarissimo.
Ho avuto come maestri Giorgio Berti, Giorgio Luraschi, Giorgio Pastori, Enrico De Mita, Giovanni Negri, Carlo Castronovo, Federico Stella, Francesco Realmonte, Tiziano Treu, Vittorio Colesanti ed Angelo Giarda. Quanto da loro appreso ha assunto pieno significato quando ho praticato il diritto tutti i giorni.
A prescindere dalla durata del corso di laurea, la questione è quella della qualità dei laureati e del fatto che molti “passano” gli esami dopo più di due volte.
Il confronto va correttamente effettuato con la Germania, la Francia, la Spagna e non con gli Stati Uniti o la Gran Bretagna, dove c’è il common law, con diverse basi.
NewDeal
Fuor di polemica, non mi pare che l’editoriale affronti i reali nodi, quali l’eccessivo numero di avvocati in Italia, a fronte di una domanda costante, o in calo e l’ingolfamento degli sbocchi professionali (con correlato eccesso di accesso alla giustizia: troppi azzardi morali).
Ci sono 250 mila avvocati, in espansione. Molto semplice derivare il ‘ratio’.
Numero di avvocati in Italia (ultimo aggiornamento 08/2012) 247.040 su 60.779.708.
http://www.albonazionaleavvocati.it/html/statistiche.html
L’immissione – per adoperare le medesime parole – in questo contesto culturale di persone che per almeno tre anni abbiano dedicato i propri sforzi di studio a tutt’altro, condurrebbe meramente al COLLASSO (mi scuso per l’enfasi), oppure si ambisce a creare l’inedita figura dell’avvocato custode (1 avvocato per abitante)?
NewDeal
In Francia il numero degli avvocati è un quinto di quelli presenti in Italia. Nel 2010 il 51,8% delle cause Rc auto si è concentrato in una sola regione, la Campania…
Daniele Ferrante
Prima di commentare il cuore dell’articolo faccio due premesse:
– i miei interessi e le scelte formative mi hanno portato ad operare in un settore in cui il numero di iscritti all’ordine è decisamente più alto e nel quale il tirocinio era di ben tre anni contro i due della pratica forense.
– non condivido il concetto di numero chiuso nelle università pubbliche, il numero di operatori dovrebbe regolarsi in maniera autonoma in base alle necessità ed alle competenze individuali. Limitare la formazione è esattamente come un sistema calmierato di erogazione delle licenze, sembra prevenire la crisi del settore mentre lo rende inefficiente e statico.
Così come molte altre persone che hanno contribuito e commentato l’articolo, ho affrontato studi di diritto all’università e sono stato introdotto ed educato anche al così detto ragionamento giuridico. Professori come Liebman, Garbarino e Notari (così come molti altri) hanno insegnato a ragionare conformemente all’ordinamento di riferimento ma ricordando sempre che per quanto le massime della cassazione, la dottrina o le interpretazioni degli ordini e del notariato possano dare l’idea di quella che è la best practice attualmente riconosciuta o indicare la via da seguire nel caso di lacune normative, nulla si può sostituire al dettato normativo visto che siamo in un paese di civil law.
Mi sembra pertanto poco serio comparare il sistema formativo dei legali in un paese di Common law, nel quale si è soggetti alle altalene umorali della polazione e la giurisprudenza la fa da padrona, con quello di uno di Civil law, in cui senza avere le basi nozionistiche perfino del remoto diritto romano non è possibile capire appieno l’attuale quadro normativo.
Mi lascia alquanto perplesso notare che il Prof. Enriques ritenga che la giusta contropartita alla proposta di tagliare drasticamente l’istruzione giuridica offerta sia quella di vincolarne l’accesso ad un numero programmato, se l’idea è quella di sfornare azzeccagarbugli con una dubbia formazione perché dar loro maggior tutela (in termini di minor concorrenza) e l’implicita possibilità di erogare prestazioni alle medesime tariffe dei veri avvocati?
Se tra gli obiettivi perseguibili con questa riforma c’è quello di ridurre la litigiosità patologica non è forse più efficace rendere tutte le cause riconosciute come “lite temeraria” non fatturabili ai clienti salvo accordo preventivo in cui il professionista esprime chiaramente il suo parere contrario all’intrapresa di tale lite vista la certa soccombenza o la pretestuosità della stessa.
Luca Gandolfi
Gentile professore,
condivido la tesi da lei espressa nell’articolo sulla necessità di un cambiamento di mentalità nell’ambiente giuridico e soprattutto sulla necessità di una maggiore interdisciplinarità nella formazione degli operatori del diritto.
Volevo chiederle a riguardo un opinione riguardo ai corsi di laurea magistrale nell’ambito di studio “Law and Economics”, che ambiscono alla formazione di professionisti con ottime basi giuridiche ma capaci di applicare il diritto alle scelte economiche di imprese e istituzioni. Crede che questi corsi abbiano effettivamente “appeal” presso il mercato del lavoro italiano, o che invece siano percepiti come corsi che formano professionisti che non sono nè ottimi economisti nè ottimi giuristi, e che quindi i laureati rischino di essere snobbati dalle imprese?
Grazie per l’attenzione.
Luca
Gent. Professore, conoscendo diverse lingue straniere ho lavorato come ricercatore giuridico in uno studio legale per oltre un anno senza nemmeno essere laureato. Lo studio si occupava principalmente di dir. della concorrenza e di dir. europeo. Ebbene, con i database giusti e con medie abilità di ragionamento giuridico si trova ogni cosa (tanto più, visto che gli spazi che una volta erano di competenza dell’interpretazione del professionista son sempre più ristretti da circolari o da orientamenti giurisprudenziali). Parlo per esperienza dicendo che l’universitaria dovrebbe avere al più una funzione introduttiva limitata ai primissimi anni. Con la pratica il livello di concentrazione è maggiore che durante lo studio ed i risultati più tangibili. Ciò detto: mi permetto di dire che il sistema giuridico -soprattutto grazie alla forza omogeneizzatrice dell’Europa- sta evolvendo in meglio: il che si traduce in un compito per il giurista sempre più facile. Mi domando se, una volta laureato, non sia opportuno che mi dedichi alla chimica.