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Prove di vigilanza della Bce: cosa rischiano le nostre banche

La Bce ha presentato la cosiddetta “valutazione approfondita”, un insieme di esercizi di vigilanza rivolti a centotrenta grandi banche europee, destinati a concludersi entro un anno. Quali sono le ambizioni e i timori che li accompagnano? E le banche italiane hanno più da perdere o da guadagnare?
UN ESERCIZIO IN TRE FASI
Mercoledì mattina la Banca centrale europea ha spiegato in che modo, nei prossimi dodici mesi, intende assumere il proprio ruolo di autorità di vigilanza bancaria dell’area euro. Ciò avverrà attraverso un esercizio di valutazione rivolto a centotrenta istituti di credito, che insieme rappresentano l’85 per cento delle attività bancarie nell’Eurozona. Un esperimento “uno e trino”, composto da tre fasi destinate a svolgersi in sequenza.
La prima fase o risk assessment consisterà nello svolgere, secondo una metodologia di analisi che attinge all’esperienza delle autorità nazionali ma diventa il più possibile uniforme, le attività di vigilanza oggi effettuate dai singoli supervisor. Si tratterà della classica analisi cartolare e ispettiva che prima procede per profili (magari secondo il vecchio paradigma americano del “Camel”, ovvero Capital, Asset quality, Management, Earnings e Liquidity) e poi integra i risultati parziali in un punteggio complessivo, mescolando elementi qualitativi e indici di bilancio. Questo primo passaggio servirà anche a mettere definitivamente a punto un manuale di vigilanza europeo, necessario per standardizzare le prassi nazionali; anche se esiste il rischio che un modello uniforme, ma alimentato con dati ancora intrisi di peculiarità locali, possa creare qualche distorsione nel level playing field.
La seconda fase o asset quality review si concentrerà sull’analisi degli attivi: non solo crediti, ma anche titoli e altri strumenti finanziari. Gli ispettori di Francoforte (in realtà, in buona parte forniti dalle autorità locali) lavoreranno anche su base campionaria, estraendo dagli archivi pratiche di fido e codici Isin e verificando che le politiche di monitoraggio del rischio solennemente approvate dai consigli di amministrazione vengano declinate in maniera corretta anche dai direttori crediti e dai trader dei desk operativi. È possibile che la Bce chieda alle banche di intervenire sui criteri di classificazione dei prestiti e sulle politiche di copertura (cioè sugli accantonamenti prelevati dal conto economico per tamponare le prevedibili perdite future). Se verranno richieste correzioni consistenti (eventualità non del tutto remota, visto il difficile contesto congiunturale), le banche potrebbero trovarsi nella spiacevole situazione di non remunerare gli azionisti proprio mentre chiedono loro, ancora una volta, di mettere mano al portafoglio.
La necessità di una maggiore patrimonializzazione, del resto, potrebbe scaturire anche nella terza fase dell’esercizio, gli stress test. Si tratta di esercizi statistico-contabili volti a simulare le conseguenze, per le singole banche, di un possibile scenario di crisi pronunciata. Il loro svolgimento sarà un’impresa pan-europea, condotta dalla Bce in collaborazione con l’Eba; e ciò anche per non lasciare fuori Londra, che è stata esclusa dalla supervisione unica, ma pare ospiti alcune banche di discrete dimensioni.
L’esperienza passata mostra come gli stress test non servano a dare alle singole banche una “patente” di solidità (magari smentita dalla cronaca dei mesi successivi); se condotti con trasparenza, però, possono fornire al mercato informazioni dettagliate sulle vulnerabilità di ogni istituto, consentendo agli investitori di premiarne (o punirne) le scelte. (1)
LO STATO DI SALUTE DELLE BANCHE ITALIANE
Vista con gli occhi della Bce, la lunga marcia di avvicinamento al Meccanismo di supervisione unica dell’Eurozona, che partirà formalmente a novembre del 2014, serve ad amalgamare le culture di vigilanza, a saggiare le resistenze nazionali, ma soprattutto a minimizzare, per quanto possibile, i rischi reputazionali. Prima di prendere a bordo qualche zombie bank, l’Eurotower potrà alzare la voce (magari sotto voce…) pretendendo adeguate misure di rafforzamento patrimoniale a carico degli stati nazionali o, se necessario, del Meccanismo europeo di stabilità. Proprio il coinvolgimento di un “pagatore di ultima istanza” europeo che faccia da tampone ai casi di crisi latente rappresenta una condizione necessaria perché l’intero meccanismo abbia successo. Se i governi venissero lasciati da soli a colmare le falle, la spirale negativa tra banche e debito sovrano riprenderebbe fiato e vigore. Si spiegano così gli appelli di Mario Draghi a predisporre “un paracadute che forse non verrà mai usato”, nel tentativo di garantire efficacia ai nuovi strumenti di vigilanza e insieme di rassicurare le ansie tedesche.
Visto con occhi italiani, il percorso tracciato per i prossimi mesi desta speranze e timori, in particolare se si guarda alle due aree-chiave citate mercoledì in conferenza stampa da Ignazio Angeloni (il dirigente Bce responsabile di molti aspetti-chiave della nuova vigilanza unica): economia reale e titoli di Stato.
Relativamente al primo aspetto, non è un mistero che la classificazione dei crediti a rischio segua, nel nostro paese, regole più rigide che altrove. Un allineamento delle definizioni locali verso criteri uniformi – come previsto negli standard tecnici diramati dall’Eba qualche giorno fa – non potrà che rendere le banche italiane comparativamente più solide. Al riguardo, però, valgono due considerazioni. La prima è che le nuove definizioni, in assenza di adeguati dati di partenza, verranno applicate “sulla base di stime”; il che lascia aperta la porta a qualche generoso ritocco cosmetico per i paesi privi di statistiche nitide quanto quelle italiane. La seconda è che le nuove definizioni riguarderanno i dati che le banche trasmettono alla vigilanza, ma non i bilanci e i report diffusi ai mercati. Resteranno dunque ineguagliati, almeno per ora, i livelli di disclosure oggi imposti alle banche italiane, tenute a produrre un ponderoso allegato al bilancio, ricco di informazioni un po’ “indiscrete” sulle diverse tipologie di crediti dubbi.
Quanto ai titoli di Stato, qualcuno potrebbe trovare volatile il comportamento della Bce, che prima ha inondato le banche di liquidità con cui comprare obbligazioni governative e ora è pronta a evidenziare le vulnerabilità cagionate da tale scelta. Come dare trecento euro al bambino perché si compri il gelato e poi rimproverarlo perché ingrassa. In realtà, se la Bce adotterà un atteggiamento scrupoloso verso i rischi impliciti nei portafogli di debito sovrano, ciò potrebbe rappresentare una duplice buona notizia. Intanto perché mostra che non vi è eccessiva contiguità tra la funzione di politica monetaria e quella di vigilanza bancaria, come paventato nei mesi scorsi da qualche osservatore. Poi perché i rischi, quando esistono, non scompaiono chiudendo gli occhi. Sembra ieri quando alcune banche italiane protestavano contro la scelta dell’Eba di imporre un cuscinetto di capitale addizionale a fronte dei loro granitici investimenti in Btp. Una, per dire, era il Monte dei Paschi…
(1) Vedi Petrella e Resti, “Supervisors as Information Producers: Do Stress Tests Reduce Bank Opaqueness?”, Journal of Banking and Finance, vol 37, issue 12, December 2013, pp. 5406-5420.

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Il Punto

  1. Marcello

    I metodi dovrebbero essere discussi prima e poi effettuata l’analisi. Il rischio che certi paesi più forti politicamente ed economicamente (leggasi Germania) da sempre restii ad avere qualcuno che ficchi il naso nelle loro banche (ma cosa mai avranno da nascondere) premano per regole che nascondano le loro rughe (titoli tossici in pancia troppo alti), ma evidenzino quelle degli altri (titoli di stato di paesi supposti a rischio come l’Italia). Qui occorrerebbe farsi sentire prima e rendere trasparente e noto il metro di giudizio. Altrimenti è tutta fuffa.

  2. Filippo De Marco

    Dott.Resti,
    mi potrebbe giustificare piu’ in dettaglio la sua affermazione “non è un mistero che la classificazione dei crediti a rischio segua, nel nostro paese, regole più rigide che altrove”? Come si spiega allora che la Banca d’Italia abbia richiesto ulteriori accantonamenti per le sofferenze bancarie sui crediti delle banche italiane (http://online.wsj.com/news/articles/SB10001424127887323854904578635912695767402)? Nell’articolo del WSJ si fa esplicitamente riferimento al fatto che BankItalia abbia richiesto accantonamenti per €3.4 bil. per crediti che non erano stati classificati come sofferenze da alcuni istituti di credito.
    Grazie

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