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Se la Youth guarantee non è una vera svolta

A maggio dovrebbe partire la Youth Guarantee, il piano per il rilancio dell’occupazione giovanile. Ma più che per i giovani il progetto sembra essere un affare per imprese e agenzie private di collocamento. Un utilizzo discutibile dei fondi che non risolve il problema della disoccupazione.

IL PIANO

La Youth Guarantee, il piano da 1,5 miliardi di euro che dovrebbe facilitare l’inserimento massiccio di giovani nel mercato del lavoro, è ai blocchi di partenza: sono stati resi noti i provvedimenti attuativi del progetto che dovrebbe partire con l’inizio di maggio.
Tuttavia, guardando proprio alle schede progettuali nazionali, che orientano e vincolano i progetti attuativi delle Regioni, la Youth Guarantee si presenta come un’occasione persa per un effettivo rilancio dei servizi per il lavoro.
Da un lato, non si scorge alcuna novità operativa rispetto alle attività standard dei servizi per il lavoro, dall’altro la grandissima parte dei finanziamenti rischia di avere l’effetto di “drogare” per qualche tempo il sistema, con incentivi a imprese e agenzie private, poco legati a risultati effettivi.
Di davvero positivo, anche se non innovativo, si segnala il tentativo di fissare costi standardizzati per le attività da svolgere.
La principale innovazione del progetto consiste nell’obbligo di offrire ai giovani un’opportunità entro quattro mesi dal diploma, dalla laurea o dall’ingresso nello status di disoccupati. Ma le azioni non vanno oltre gli schemi che si sono consolidati negli ultimi dieci anni:
– accoglienza
– orientamento
– formazione mirata all’inserimento
– reinserimento dei giovani dai 15 ai 18 anni in percorsi formativi
– accompagnamento al lavoro e alla formazione
– apprendistato (per la qualifica, professionalizzante, di alta formazione)
– tirocini.

DOVE FINISCONO LE RISORSE IMPIEGATE

Il punto più debole dell’impianto sta nell’impiego delle risorse. Dalle schede progettuali si può constatare che non saranno destinate, se non in minima parte, ai servizi pubblici per il lavoro, che restano sottodotati e sottofinanziati, e nemmeno ai giovani sotto forma di sostegni al reddito o incentivi alla partecipazione ai progetti. (1)
Il grosso andrà alle agenzie accreditate e alle imprese. Si concretizza, così, il rischio paventato sin dall’inizio: considerare la Youth Guarantee un modo per finanziare il sistema delle agenzie private, in crisi per la caduta della domanda, più che un piano incentrato sui bisogni dei giovani.
Ne sono prova in particolare tre elementi: il sistema di incentivi per l’accompagnamento al lavoro, i tirocini e i “bonus occupazionali”.
Partiamo dall’accompagnamento al lavoro. Si prevedono alcune azioni finalizzate all’attivazione di un rapporto di lavoro a tempo determinato, indeterminato, in somministrazione o in apprendistato.
Per le agenzie (che per lo più saranno private) si stabilisce una remunerazione standard su base nazionale per ogni inserimento lavorativo, graduata sulla base del livello di difficoltà di inserimento del giovane.
Sul piano teorico, il sistema appare perfetto. Sul piano fattuale, molto meno. Le agenzie autorizzate e accreditate che hanno già, meritoriamente, il loro parco clienti non dovranno fare altro che avviare al lavoro quelli rientranti nel target del progetto, imputando alla Youth Guarantee attività che svolgerebbero comunque. Quello che cambia è che invece di chiedere la remunerazione per l’inserimento (in genere, nel caso dell’attività di ricerca e selezione, commisurata a una o più mensilità stipendiali) all’impresa che assume, la otterranno dal finanziamento pubblico.
E sempre pubblico sarà il finanziamento del “bonus occupazionale”, che spetterà alle imprese che assumono i lavoratori con contratto a tempo determinato o in somministrazione di almeno sei mesi, il cui importo crescerà per assunzioni a tempo determinato o in somministrazione di almeno dodici mesi, per giungere al tetto massimo per le assunzioni a tempo indeterminato (nelle quali si dovrebbe considerare l’apprendistato).
Il bonus occupazionale finisce per essere una sorta di “dote” in capo al giovane disoccupato, che rende più conveniente per l’azienda assumerlo, sull’esempio degli sgravi retributivi e contributivi previsti per i lavoratori che percepiscono ammortizzatori sociali. Tuttavia, il bonus massimo, spettante per le assunzioni a tempo indeterminato, sarà di 6mila euro: utile, ma non particolarmente incentivante. Meglio i 2mila euro per le assunzioni a tempo determinato o in somministrazione di almeno sei mesi, anche considerando la maggior facilità di questi inserimenti lavorativi, dovuta al decreto legge 34/2014.

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I TIROCINI

L’aspetto più delicato del progetto, però, è quello dei tirocini. Ai soggetti promotori (ancora una volta, prevalentemente privati) si riconoscerà per ogni tirocinio proposto, della durata di sei mesi, una remunerazione “a risultato” tra i 200 e i 500 euro, a seconda delle difficoltà di inserimento.
Oggettivamente, non si capisce la ratio per cui un’attività ordinaria come la promozione dei tirocini, svolta da sempre senza remunerazione alcuna da soggetti pubblici e privati, nell’ambito della Youth Guarantee debba essere improvvisamente compensata.
Soprattutto, quel che colpisce è che si parli di incentivo per il “risultato”, quando la promozione dei tirocini sarà cosa semplicissima: il progetto prevede infatti un’indennità di partecipazione di 500 euro per ogni mese di tirocinio, per un importo massimo di 3mila euro; ma nelle Regioni (quasi tutte) che stabiliscono l’obbligo per l’impresa di pagare un’indennità al tirocinante, l’importo andrebbe tutto all’impresa stessa.
Lo Stato, insomma, finisce per erogare risorse pubbliche sia per pagare l’attività ordinaria di promozione dei tirocini, da sempre svolta senza oneri pubblici, sia per coprire i costi dell’indennità di partecipazione, al posto delle imprese.
Nelle regioni nelle quali si decidesse di confermare la possibilità per le aziende di far propria la “dote” per il tirocinio, si determinerebbe nei fatti un vero e proprio aiuto di Stato.
Se poi, dopo il tirocinio, l’azienda decidesse di assumere il tirocinante a tempo determinato per sei mesi (allungando il periodo della “prova” e della precarietà) otterrebbe anche un bonus occupazionale fino a 2mila euro: si può dunque capire come la Youth Guarantee potrebbe rivelarsi un buon affare solo per le agenzie e i datori di lavoro, senza garanzia di incidere davvero sulla disoccupazione nel lungo termine.
Di fatto, le agenzie potrebbero promuoverr quegli stessi tirocini o quelle identiche proposte di lavoro che avrebbero avanzato anche senza gli incentivi della Youth Guarantee.  L’incentivazione le induce solo a cambiare il target, concentrandolo sui giovani, senza davvero puntare a una svolta occupazionale.

 

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(1) In questo l’Italia è fanalino di coda in Europa, come dimostra l’Occasional Paper di Isfol, Lo stato dei Servizi pubblici per l’impiego in Europa: tendenze, conferme e sorprese.

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  1. Enrico

    Personalmente ritengo che questi incentivi siano abbastanza inutili dal punto di vista occupazionale.
    Non è che le aziende non assumono solo perché “costa troppo”, ma anche (e soprattutto) perché mancano le commesse.
    Riterrei più efficace a medio/lungo termine concentrare tutte le risorse disponibili nell’abbattimento del cuneo fiscale (lo dico da profano).

    • giorgio67

      Ampiamente condivisibile.
      Aggiungo anche che lo schema prospettato, ahimè, è un “classico” nella struttura degli incentivi pubblici: si fa il titolone affinché sembri a vantaggio di molti, ma in realtà il vantaggio pecuniario e immediato delle risorse è per pochi.

  2. Confucius

    La UE ha la specialità di creare “lavoro” nel settore del terziario “parassitario”, creando vincoli di carattere burocratico che hanno il solo scopo di dare spazio a vari tipi di “esperti” e “consulenti”. Il tutto coperto da un accattivante titolo che pare venire incontro ai problemi della gente comune (la sicurezza, la qualità, la protezione dell’ambiente, il lavoro per i giovani, le start-up, ecc.). Avendo da tempo rinunciato alla vera produzione di ricchezza, quella industriale (inquinante e rumorosa), che viene lasciata ai paesi emergenti, non rimane che fare girare vorticosamente il denaro disponibile creando bisogni od obblighi (e relative opportunità di lavoro) sulla base di adempimenti burocratici inutili. Tipico esempio: la legislazione sui prodotti alimentari tipici (la pizza napoletana, la soppressa vicentina, il formaggio di capra di Zçprsk, l’aringa di Odense, che i locali hanno prodotto da secoli e che i consumatori sanno riconoscere, apprezzare o rifiutare se di qualità inaccettabile), per ciascuno dei quali viene stilato un preciso capitolato di produzione e la relativa certificazione da parte di enti accreditati, ovviamente dietro pagamento della relativa parcella. Il tutto tradotto nelle 28 lingue della Comunità, nel caso un estone, un irlandese od un bulgaro volesse cimentarsi nella produzione della cassata siciliana. Da persone che vivono negli ovattati uffici di Bruxelles e che non hanno mai visto un capannone od un impianto industriale non ci si può aspettare niente di meglio.

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