Un rapporto della Commissione europea mostra come il rischio di esclusione sociale sia concentrato sulle persone con bassi livelli di istruzione. E come la povertà in Italia duri più a lungo e sia spesso ereditata da una generazione all’altra.
“Dal punto di vista del rischio di esclusione sociale la misura in cui il lavoro offre opportunità di aggiornamento e acquisizione di competenze professionali ha una importanza cruciale. Lo sviluppo delle competenze è essenziale per mantenere il passo con l’ambiente tecnologico e mantenere il proprio valore sul mercato del lavoro in caso di perdita del lavoro. Ma negli ultimi cinque anni la tendenza generale nella UE è stata la riduzione della frequenza con cui sono state offerte ai lavoratori possibilità di aggiornamento sul posto di lavoro. Fatto ancora più preoccupante, nello stesso periodo è aumentata la vulnerabilità del gruppo più a rischio – i lavoratori a bassa qualifica. Perciò la loro situazione è peggiorata sia in termini assoluti che relativi”. Così scrivono Duncan Gallie e Serge Paugam in un rapporto sulla esperienza della precarietà e sull’integrazione sociale, preparato per la direzione Employment and Social Affaire della UE e basato sulla analisi dei risultati di una serie di indagini dell’Eurobarometro: dal 1976 fino al 2001.
L’accesso a opportunità di formazione sul lavoro appare uno degli elementi distintivi di cristallizzazione e rafforzamento delle disuguaglianze nel mercato del lavoro – nella occupabilità delle persone non solo all’ingresso, ma lungo il ciclo di vita. Sono i lavoratori a bassa qualifica i più esposti non tanto alla perdita del lavoro quanto a non trovarne un altro nel caso in cui lo perdano. La bassa o nulla esperienza formativa si somma, aumentandone le conseguenze in termini di dequalificazione professionale, alla bassa qualità del lavoro che si svolge (misurata dalla esistenza di stimoli ad apprendere, varietà, possibilità di autonomia). Non sorprendentemente, solo una minoranza di tutti i lavoratori UE oscillante tra il 30 e il 20% riconosce queste caratteristiche al lavoro che fa. Ma ciò che colpisce è che sia scesa di circa sei punti tra il 1996 al 2001, nonostante tutta la retorica sulla learning society e la maggiore scolarizzazione della forza lavoro.
Sono ovviamente le occupazioni a minor contenuto professionale quelle a presentare anche una qualità più bassa. Ma vi è anche una differenza significativa tra uomini e donne: sia nel 1996 che nel 2001 le donne hanno sistematicamente occupazioni di qualità più bassa di quelle degli uomini. Il divario si è ampliato nel 2001; ovvero la situazione delle donne è peggiorata di più. Verrebbe da dire che l’aumento di partecipazione femminile è pagato al prezzo di una accentuazione del divario di genere nelle condizioni di lavoro. Viceversa i lavoratori autonomi attribuiscono al proprio lavoro una qualità più alta dei lavoratori dipendenti.
I due autori del rapporto accostano questi dati sul peggioramento della qualità del lavoro, e dello scarso investimento in formazione, a quelli rilevati dall’indagine più importante sul nesso tra qualità del lavoro, salute e sicurezza sul lavoro nei paesi UE effettuata nel 2000. Anche questi indicano l’assenza di miglioramenti tra il 1990 e il 2000. In altri termini, negli ultimi anni l’ambiente di lavoro non è migliorato né sul piano delle risorse per il mantenimento e perfezionamento delle capacità, né su quello della qualità, né su quello della sicurezza rispetto alla salute.
Esistono ovviamente differenze notevolissime tra paesi nella diffusione delle opportunità di aggiornamento e miglioramento delle proprie competenze professionali. I paesi scandinavi la offrono oltre tre volte di più di quelli mediterranei, che si confermano come paesi in cui c’è un bassissimo investimento in capitale umano, quindi anche in ricerca e innovazione, da parte dei datori di lavoro. Va tuttavia segnalato che benché in Italia ancora nel 2001 il 62% dei lavoratori non aveva ricevuto alcuna formazione negli ultimi cinque anni, c’era stato un sensibile miglioramento rispetto al 1996, quando si trovava in questa situazione il 78,8% dei lavoratori. Italia e Danimarca ( ove nel 2001 non aveva ricevuto formazione il 22,9% dei lavoratori rispetto al 35,8% del 1996), sono stati gli unici due paesi a mostrare un miglioramento nella offerta formativa da parte dei datori di lavoro. Ma il gap che l’Italia e gli imprenditori italiani devono coprire rimane enorme e apparentemente non sufficientemente messo a tema, né quando si parla di riforma del mercato del lavoro né quando si parla di responsabilità sociale delle imprese. Anche questa “irresponsabilità sociale” di fronte alle condizioni in cui si producono le persone, può forse spiegare perché in Italia, come negli altri paesi mediterranei, l’esperienza della povertà sia di più lunga durata (15 anni in media, rispetto ai due-tre nei paesi nordici) e spesso sia ereditata da una generazione all’altra.
Come osservano anche gli autori del rapporto, per molti anni le politiche contro la povertà e l’esclusione sociale hanno considerato l’aumento dei tassi di occupazione, o la diminuzione dei tassi di disoccupazione, l’obiettivo principale se non unico. Questi dati suggeriscono che si tratta di un atteggiamento non solo semplicistico, ma in parte fuorviante. Se non si affronta anche la questione della qualità del lavoro e delle opportunità di miglioramento delle competenze professionali nel corso della vita si ignorano almeno due fattori potenzialmente produttivi di povertà, se non esclusione sociale. Innanzitutto molti lavori di bassa qualità sono anche lavori a bassa remunerazione, che producono una popolazione di working poor. In secondo luogo, il lavoro stesso, se di bassa qualità e con basso contenuto professionale, può indurre fenomeni di dequalificazione e di perdita di capacità: rendendo quindi più vulnerabile chi lo fa, specie in un contesto di crescente precarizzazione dei rapporti di lavoro. “Mettere al lavoro” le persone a bassa qualifica è notoriamente più difficile che trovare lavoro a chi ha qualifiche elevate. Di più, come segnalano anche Gallie e Paugam nelle loro conclusioni, se fatto senza cura e senza investimento di risorse può anche contribuire a rafforzare quella difficoltà e innescare processi di stigmatizzazione.
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patrizia
Negli anni ’60 si lavorava anche senza la laurea quindi dopo un corso di inglese e tedesco, non parificato, ho iniziato a lavorare ed ho fatto anche una certa carriera. Poi mobbizzata ed estromessa (costavo troppo). Conclusione: sono senza lavoro; cerco quindi di aggiornarmi: impossibile accedere a corsi che diano una certa qualifica, la licenza media inferiore non dà alcun accesso a corsi di qualche interesse. Quindi non si può ora pretendere che ora ci si possa riqualificare ad un certo livello; al massimo posso imparare a fare l’aiuto cuoco, oppure assistenza ad anziani. Ma poi troverò lavoro visto che ho 55 anni? E come ci arrivo alla pensione nel frattempo?
La redazione
La lettrice mette il dito su uno dei problemi irrisolti della formazione continua e dell’aggiornamento: il fatto che i corsi sono spesso altrettanto stratificati del sistema scolastico e non sempre tengono conto della esperienza maturata nel lavoro. Perciò, come giustamente segnala la lettrice, chi non ha avuto una formazione scolastica regolare spesso non trova nell’aggiornamento e riqualificazione professionale una possibilità di costruire un curriculum adeguato non solo ai propri titoli di studio, ma alle competenze effettivamente acquisite, specie se non è più giovane. Di solito si sottolinea la difficoltà dei lavoratori maturi e a bassa qualifica a riqualificarsi. Occorrerebbe anche guardare con più attenzione che cosa viene loro offerto.
Chiara Saraceno
Avv. Nicola Brotto
Gent.ma professoressa,
ho letto con piacere il suo articolo sulla formazione, povertà ed esclusione sociale.
Mi faccia capire: perché le aziende non investono in formazione? E’ un problema culturale? Di carenza di risorse finanziarie? La povertà conviene qualcuno (forse è più facile condizionare i consumi di colui che “povero” culturalmente…)?
Ho fatto anche una riflessione.
Credo che le famiglie italiane ci comportino come le aziende quando non investono in cultura per la loro formazione; il che fa nascere altri poveri.
Mi farebbe piacere leggere la Sua risposta.
Avv. Nicola Brotto
La redazione
Io non sono una esperta in questioni di politiche aziendali. Nel mio pezzo riportavo i risultati di una ricerca comparativa europea sulle opportunità di formazione offerte dalle aziende sperimentate dai lavoratori italiani . Credo comunque che ci siano almeno due tipi di spiegazioni. La prima è la ridotta dimensione di gran parte delle aziende italiane (ben al di sotto della soglia dei 15 dipendenti). A parte casi eccezionali, queste micro-aziende, spesso di tipo familiare, fanno fatica non solo a organizzarsi per offrire formazione, ma a pensarla come utile. La seconda ragione sta forse in una cultura imprenditoriale che poco investe nella innovazione e nella ricerca, quindi anche nel capitale umano. Anzi, talvolta sembra che veda l’unica soluzione ai propri problemi nella flessibilità della forza lavoro (quindi in un capitale umano fungibile e in cui non è interessante investire). Quanto al comportamento delle famiglie, non generalizzerei. E’ vero che soprattutto nelle aree delle piccole imprese diffuse è forte la tentazione di mettere tutti al lavoro presto (ed anche di andare a lavorare presto). Ma è anche vero che sono solo le famiglie in Italia ad investire nella formazione delle generazioni più giovani, in un mercato dell’offerta formativa non sempre chiaro nei contenuti e negli sbocchi professionali. Ed anche molta della formazione degli adulti (aggiornamento, riqualificazione) è auto-finanziata dal bilancio personale e familiare, specie quella più specialistica. Il che ovviamente, in mancanza di alternative, contribuisce a rafforzare le disuguaglianze sociali.
Cordialmente
Chiara Saraceno
Francesco
La mia multinazionale nel giro di 12 anni ha chiuso quattro sedi, ha eliminato 2500 posti di lavoro e, ora, si accinge ad una nuova ristrutturazione.
Io ero troppo giovane per la pensione, troppo vecchio per le aziende, ma ora sono ricercato come consulente.
Sono un chimico, opero in un settore particolare e non ho difficoltà a fornire consulenze. Mi ritengo fortunato poichè posso esportare la mia professionalità anche all’estero sia nei paesi dell’est che emergenti.
Il mondo e il modo di lavorare sta cambiando con una velocità impressionante, ma gli imprenditori italiani, per una serie di motivi, viaggiano sempre a vista.
Ho proposto ad alcuni imprenditori di piccole/medie aziende, l’analisi dei cicli produttivi per ridurre gli sprechi, per modificare la produzione in chiave iso 9000 E iso 14000, ma la risposta è stata sempre la stessa:ora guadagno, se non reggo la concorrenza, chiudo.
Cosa possiamo offrire ai giovani dal punto di vista industriale in Italia,ben poco. L’unica speranza è la valorizzazione del patrimonio culturale e l’aiuto alle poche aziende eccellenti e di nicchia presenti in Italia e talune quotate anche in Borsa
La redazione
Il suo caso personale dimostra che competenze professionali di buona qualità e aggiornate costituiscono la risorsa fondamentale per gli individui in un mercato del lavoro con forte dinamismo. Sviluppare queste competenze è certo
una responsabilità individuale, ma non solo. Accanto alla scuola e all’università c’è un grosso ruolo che possono giocare le aziende. Come dice lei, quelle italiane non sempre vogliono assumerlo, perché si muovono su un orizzonte temporale troppo breve. Ciò, tra l’altro, ha effetti più negativi
sulle persone a più bassa qualificazione, che rischiano di rimanere sempre tagliate fuori dalle opportunità formative e quindi professionali. Le faccio i miei auguri. Saraceno