Delegare la politica monetaria alle banche centrali si è dimostrata una scelta giusta, contro l’inflazione, per esempio. Perché non fare altrettanto con la politica fiscale? Un’autorità indipendente potrebbe garantire il rispetto dei vincoli di stabilità nel medio-lungo periodo, ma anche la possibilità di realizzare manovre fiscali in funzione anticiclica senza perdere di credibilità. Al parlamento resterebbe comunque la definizione degli obiettivi di fondo da perseguire.

Sparare sul Patto di stabilità e crescita (Psc) è diventato uno sport comune fra gli economisti (e non solo) ( vedi Alesina, Blanchard e Giavazzi su lavoce.info). Le critiche si soffermano su vari punti, ma quello fondamentale è il limite che il Psc pone all’uso anticiclico della politica fiscale. In una fase stagnante, se non recessiva, dell’economia e con la maggiore economia dell’UE che vede avvicinarsi lo spettro della deflazione, non è sorprendente che si riconosca da più parti la necessità di una certa flessibilità, al di là degli insufficienti stabilizzatori automatici, nell’utilizzare la politica fiscale per stabilizzare il livello del reddito. In sintesi, mentre l’amministrazione Bush vara una manovra fiscale considerevole, le nazioni europee si vedono costrette dagli “early warnings”.

Fra regole e discrezionalità

Il dibattito fra regole e discrezionalità che ha caratterizzato la gestione della politica monetaria negli ultimi decenni parte dallo stesso problema. Una politica monetaria discrezionale consente di operare in modo anticiclico, per stabilizzare il livello del prodotto di fronte a shock nell’economia. Ma dà incentivi alle autorità per far crescere l’inflazione (tendenza inflazionistica) e generare temporanei boom per esigenze politiche o elettorali.

D’altro canto, una regola ferrea che indichi il tasso d’inflazione da mantenere, elimina il problema della tendenza inflazionistica, perché vincola la banca centrale al raggiungimento dell’obiettivo d’inflazione, ma non consente l’uso anticiclico della politica monetaria. È un problema comune a molte attività umane: riuscire a impegnarsi credibilmente su un obiettivo di lungo periodo, mantenendo una certa flessibilità nel breve.

Lo stesso problema si pone per la politica fiscale. Qui la discrezionalità si presta ancor di più a un utilizzo improprio che camuffa da politiche stabilizzatrici anticicliche manovre di tipo opportunistico. Come l’esperienza italiana dimostra, il risultato è un crescente livello di indebitamento a scapito delle generazioni future (che oggi non votano).

Il Psc nasce esattamente da queste preoccupazioni e dalla volontà di imporre credibilmente un comportamento virtuoso alla politica fiscale. Le regole sul deficit e sul rapporto debito/Gdp a cui ogni Paese deve attenersi sono la soluzione adottata dal Psc.

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Le banche centrali indipendenti

L’imposizione di regole rigide non è una soluzione al problema, non è la soluzione suggerita dalla letteratura economica e seguita nel caso della politica monetaria. In tutti i Paesi sviluppati la soluzione è stata quella di delegare la politica monetaria a un’autorità indipendente: le banche centrali, rese indipendenti. (1)
La delega consente di proteggere l’autorità dalle pressioni politiche contingenti e pone la gestione della politica monetaria nelle mani di tecnici competenti.
L’autorità monetaria può così impegnarsi in modo credibile su un obiettivo di medio-lungo termine (per esempio, basso tasso d’inflazione), mentre si garantisce un uso ottimale della flessibilità nel breve periodo in funzione stabilizzatrice. La delega ha funzionato benissimo: oggi l’inflazione sembra sconfitta e, casomai, sfide di segno opposto attendono la politica monetaria.

Logica vorrebbe che all’analogo problema per la politica fiscale si applicasse la stessa soluzione: delegarla a un’autorità indipendente, un ministero delle Finanze indipendente. Questo garantirebbe il rispetto dei vincoli di solvibilità (deficit e debito/Gdp) nel medio-lungo periodo, ma anche la possibilità di usare in modo ottimale gli strumenti della politica fiscale in modo anticiclico, senza perdita di credibilità (garantita dal prestigio e dalla reputazione dell’istituzione indipendente).

Mai sentito parlare di democrazia?

La proposta è volutamente provocatoria: “No taxation without representation” è il motto che ci accompagna dai tempi della Rivoluzione Americana. E dunque, la prima reazione è di netto rifiuto, in nome delle istituzioni democratiche. Ma ci sono alcune considerazioni da fare.

Se quaranta anni fa, qualcuno avesse suggerito di delegare la gestione della politica monetaria avrebbe suscitato la stessa reazione negativa. Alle banche centrali si è delegato un enorme potere: quello di fissare il tasso d’interesse, con un immediato impatto sulla vita di tutti noi e sulle nostre tasche. Nessuno però si scandalizza più, semplicemente perché è chiaro che è la cosa giusta da fare. Nell’assetto istituzionale di una democrazia, ci sono molti poteri alcuni dei quali (per esempio, la magistratura) non sono democraticamente eletti. Il problema si inquadra in quello più ampio del limite da porre ai tecnici di fronte alla politica.
Inoltre, le banche centrali sono indipendenti nella scelta degli strumenti, ma non nella definizione dei fini. L’obiettivo da perseguire è dato dai politici: nel Regno Unito, il Cancelliere dello Scacchiere comunica alla Banca d’Inghilterra il livello obiettivo del tasso d’inflazione nel medio periodo. Per la Bce questo è fissato nello statuto che la istituisce, e così via. È più che auspicabile che la scelta degli strumenti sia in mano a tecnici competenti piuttosto che ai politici, come è auspicabile che gli obiettivi siano fissati da poteri democraticamente eletti.
In un mondo ideale, il parlamento potrebbe fissare gli obiettivi di politica fiscale che attengono alla sfera politica: la distribuzione del reddito, il livello e la composizione della spesa pubblica nel medio periodo.

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All’autorità fiscale indipendente potrebbe poi chiedere di calcolare la struttura delle tasse dirette e indirette e dei contributi, in modo da attuare quegli obiettivi in modo ottimale, ossia minimizzando le distorsioni imposte dalle tasse sull’economia, e stabilizzando il reddito.
L’assetto istituzionale dovrebbe essere garantito da un apposito sistema di meccanismi di controllo e di equilibrio. Oggi le banche centrali hanno obbligo di agire in modo trasparente e di render conto del proprio operato di fronte al parlamento. Hanno obiettivi e strumenti chiaramente definiti.
Molti aspetti tecnici non possono essere qui affrontati.. Ma più ci penso, e più mi sembra che, almeno parzialmente, si possa delegare la politica fiscale.

Per saperne di più

Calmfors, L., 2003, Fiscal policy to stabilise the economy in the EMU: which lessons can be learnt from monetary policy?, dattiloscritto, Università di Stoccolma.

Wyplosz, C., 2002, Fiscal policy: rules or institutions?, dattiloscritto.

Per il più ampio problema del limite da porre ai tecnici di fronte alla politica, si veda

Blinder, A.S., 1997, Is government too political?, Foreign Affairs 76, pp. 115-126.

(1) L’ultimo Paese sviluppato che mancava all’appello e che ha solo recentemente imboccato in modo deciso questa strada è stato il Regno Unito. Per l’Italia si va indietro di parecchio, con il famoso divorzio tra Bankitalia e Tesoro datato 1981.

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