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Un Patto senza ambiguità

L’eliminazione del vincolo del 3 per cento al disavanzo pubblico previsto dal trattato di Maastricht non è l’obiettivo da perseguire. Non c’è evidenza empirica che esso abbia impedito fin qui l’azione stabilizzante della politica fiscale né che sia stato d’ostacolo alla crescita. Potrebbe essere modificato, ma tutte le proposte avanzate creano serie perplessità. Forse la soluzione migliore è ridurre la complessità e la scarsa chiarezza delle regole, che generano trattative infinite e assegnano alla Commissione un ruolo improprio.

Da lungo tempo Francia e Germania hanno un disavanzo pubblico maggiore del 3 per cento del Pil, in violazione della principale regola del Trattato di Maastricht e del Patto di stabilità e crescita. In questi giorni riceveranno l’autorizzazione di fatto a continuare. Il Patto dunque è moribondo; molti politici ed economisti se ne rallegreranno, ma per i motivi sbagliati.

Il Patto è accusato di due misfatti. Ha costretto i paesi dell’Unione monetaria europea a condurre una politica fiscale destablizzante, cioè a ridurre spesa e disavanzo pubblici esattamente quando le loro economie avevano bisogno del contrario per combattere la recessione.
Ha costretto i paesi Ume a tagliare gli investimenti pubblici, contribuendo così a peggiorare le prospettive di crescita.

Accuse infondate

Sono accuse fondate? No. Un’analisi dei dati Ocse (1) dimostra che negli anni Ottanta i governi dei paesi poi diventati Ume conducevano una politica fiscale destabilizzante: aumentavano i disavanzi quando l’economia andava bene e li diminuivano quando andava male. Ma negli anni Novanta, cioè proprio in coincidenza con l’entrata in vigore del Trattato di Maastricht e poi del Patto, la politica fiscale dei paesi Ume è diventata stabilizzante. Il Patto non ha quindi impedito un miglioramento delle proprietà cicliche delle politiche fiscali decise dai governi Ume.
Sulla seconda accusa, è vero che gli investimenti pubblici in Europa sono più bassi che in passato. Tuttavia, questa tendenza era già iniziata negli anni Ottanta, ben prima del Patto. Inoltre, nello stesso periodo gli investimenti pubblici sono caduti in eguale misura anche negli altri paesi Ocse, a eccezione ovviamente del Giappone.


Si può obiettare che tutto ciò non dimostra che il Patto sia utile. Al massimo dimostra che fa meno male di quanto molti si aspettassero, ma questo non è un motivo per tenerlo in vita. Supponiamo allora che i vincoli del Patto siano eliminati: è così ovvio che espandere i bilanci pubblici sia la ricetta giusta per stimolare l’economia?
Il problema è empirico, e sarebbe disonesto pretendere di avere una risposta univoca e certa a questa domanda.
Ma vi sono indicazioni per alcuni paesi Ocse (2) che, mentre negli anni Sessanta e Settanta la politica fiscale aveva un effetto espansivo sull’economia, dagli anni Ottanta in poi la politica fiscale ha perso la capacità di stimolo. Anzi, un aumento della spesa può avere effetti negativi molto forti proprio sugli investimenti privati (un risultato, peraltro, che non avrebbe sorpreso Keynes).

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A fronte di questi vantaggi molto incerti, un abbandono del Patto avrebbe costi elevati. L’Unione europea mostrerebbe al mondo e a sé stessa che al primo minimo intoppo non riesce a tenere in piedi le istituzioni che si è data. Il messaggio ai paesi piccoli della UE, che in questi anni hanno rispettosamente eseguito i dettami del Patto, sarebbe: qui contano solo i grandi. Infine, il costo potrebbe essere anche economico: i mercati finanziari potrebbero temere, a torto o a ragione, i riflessi sulla politica monetaria della Bce, e i tassi di interesse potrebbero alzarsi.

Tre proposte problematiche

Certo, il Patto può essere modificato senza abbandonarlo intieramente. Ci sono tre proposte sul tappeto, tutte con una loro logica, ma a mio avviso tutte problematiche.
La “Regola aurea”: esentare dal limite del 3 per cento gli investimenti pubblici. Questa proposta è basata sulla premessa che gli investimenti pubblici “si paghino da sé”, con la maggiore crescita che generano. Questa premessa non è dimostrata: è difficile trovare evidenza empirica convincente che gli investimenti pubblici abbiano effetti positivi; e niente garantisce che, solo perché una spesa è classificata come investimento pubblico, abbia un ritorno sociale positivo. Inoltre, l’esperienza di chi ha applicato la Regola aurea (alcuni paesi sudamericani), è che vi sono enormi incentivi per riclassificare come investimento produttivo ogni tipo di spesa.
Rilassare la regola del 3 per cento per i paesi con basso debito, compresi i debiti derivanti da obblighi di spesa futura, quali spesa pensionistica, per sanità etc. Ma il debito pensionistico dipende dalla crescita futura, dagli andamenti demografici, dalle riforme future, e così via. Ogni paese ha incentivo a sostenere che la crescita futura sarà alta, che il trend demografico sarà favorevole, che farà la riforma pensionistica nel 2008. Anche qui, si apre la porta a un contenzioso infinito.
Rilassare la regola del 3 per cento per i paesi virtuosi che fanno riforme strutturali favorevoli alla crescita. Per esempio, la Commissione ha sostenuto a più riprese che non solo il livello del disavanzo pubblico, ma anche la sua “qualità” dovrebbe essere rilevante per passare l’esame della Commissione (una posizione recepita poi dall’Ecofin e dal Consiglio europeo). Paesi che privilegiano spese “produttive” o che perseguono “riforme strutturali” dovrebbero poter condurre politiche fiscali più espansive di altri.
Nulla da eccepire in via di principio, se non che nessuno sa con certezza quali politiche siano “buone” e quali “cattive”. Per restare su temi vicini a noi, il ponte sullo Stretto è formalmente una infrastruttura pubblica: favorirà la crescita o sarà un ennesimo colossale spreco di risorse? Un aumento di risorse per l’università favorirebbe l’accumulazione di capitale umano o è soltanto un premio a una lobby, quella dei professori universitari, petulante ma improduttiva? La riforma pensionistica tedesca stimolerà la crescita più o meno della non-riforma italiana?
Ognuno di noi ha la propria opinione, ma fa una certa paura pensare che un gruppo di burocrati della Commissione faccia finta (o, peggio ancora, sia convinto) di sapere la risposta a queste domande. E pretenda di influenzare decisioni che invece dovrebbero essere lasciate al dibattito politico dei singoli paesi.

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Regole troppo complesse

Allora il Patto va bene com’è? No. Il problema, tuttavia, non è nella regola del 3 per cento, un limite certo arbitrario, ma che ha svolto dignitosamente il suo dovere. Il problema è la complessità e l’ambiguità (voluta) delle altre regole e il ruolo improprio che ciò conferisce alla Commissione. Per esempio, il Patto prevede che in circostanze normali un paese abbia una posizione di bilancio “vicino al pareggio o in surplus”, ma nessuno sa bene come questa sia definita, né cosa siano le circostanze normali. Oppure, un paese può superare il limite del 3 percento in gravi circostanze “indipendenti dalla sua volontà”, tra le quali una caduta del Pil di più del 2 per cento, ma può tentare di argomentare il proprio caso anche in occasione di una caduta inferiore, purché superiore allo 0,75 per cento.

Queste ambiguità generano inevitabilmente una trattativa infinita e creano spazio per un ruolo improprio della Commissione. Il Patto, con tutti i limiti tipici di ogni regola, ha funzionato. Invece di ucciderlo, rendiamolo più semplice ed eliminiamo ogni ambiguità sulla sua interpretazione.

 

(1)  Jordi Galí and Roberto Perotti: “Fiscal Policy and Monetary Integration in Europe”, in  Economic Policy http://www.eeassoc.org/. Una versione precedente a quella pubblicata può essera scaricata gratuitamente da http://www.igier.uni-bocconi.it/perotti

(2) Roberto Perotti: “Estimating the Effects of Fiscal Policy in OECD Countries”, http://www.ecb.int/pub/wp/ecbwp168.pdf

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  1. vadim filippi

    Sono d’accordo con le tesi esposte nell’articolo. Credo che, in particolare, sia molto importante dare un segnale di credibilità da parte dell’Europa: rinunciare ora, alle prime difficoltà, alle regole che ci si è dati, potrebbe far venir meno quella reputazione che tanto è importante nella odierna economia dominata dalle aspettative…inoltre non dimentichiamo che i governi stessi potrebbero sfruttare il Patto come vincolo esterno, in grado di far digerire le tanto dolorose, ma necessarie riforme strutturali che probabilmente verrebbero ancora una volta procrastinate (e l’Italia ne sa qualcosa…sarebbe stato possibile il risanamento senza l’assillo del “l’Europa ce lo chiede?”).

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