Quali potrebbero essere le conseguenze di un abbandono del Patto di stabilità e crescita? Si arriverebbe a un rialzo dei tassi di interesse, particolarmente grave per paesi indebitati come l’Italia. Perché l’aumento della spesa per interessi potrebbe essere tale da vanificare, ad esempio, i benefici della riforma previdenziale.

Sono tre le domande da porsi all’indomani della débacle dell’Ecofin.

SERVE UN PATTO CHE DISLIPLINI LE POLITICHE FISCALI DEI PAESI ADERENTI ALL’UNIONE MONETARIA?

La risposta è sì, senza ombra di dubbio. Soprattutto in un’area economicamente integrata, la politica fiscale di un paese ha numerose esternalità, molte delle quali di segno negativo, su tutta l’unione. Un’espansione fiscale o un incremento del debito in un paese aumenta i tassi a medio e lungo termine per tutta l’area. Anche i tassi a breve crescono se la banca centrale interpreta l’aumento di spesa o la riduzione di imposte come un allentamento non transitorio della disciplina fiscale. La possibilità poi che i paesi dell’area possano essere costretti a soccorrere un governo prossimo alla bancarotta rafforza ulteriormente l’esigenza di un patto che vincoli la politica fiscale dei vari paesi.

IL PATTO VA RIFORMATO?

La risposta è nuovamente positiva. Il Patto di stabilità ha molti difetti. Alcuni sono già stati corretti, ma i critici più accesi non sembrano essersene accorti. Altri avrebbero potuto essere già corretti se non fosse stato per la miopia dell’Ecofin che non ha neppure preso in considerazione le proposte, assai articolate, della Commissione e del rapporto Sapir. Non è vero innanzitutto che il Patto non tenga conto degli andamenti ciclici dell’economia: è da ben più di un anno che tutti gli obiettivi, così come tutte le richieste di aggiustamento da parte della Commissione, sono formulati in termini di saldi aggiustati per il ciclo.
L’unica eccezione è il tetto del 3 per cento, ma non è parte del Patto, bensì del Trattato, e quindi, come ricorda Daniel Gros,  molto più complesso da modificare. Anche così, è vero, rimangono molti difetti. È probabilmente vero che, così come è formulato, il Patto scoraggia le riforme o non dà peso sufficiente al criterio del debito. Ma non dimentichiamoci che proprio sul tavolo dell’Ecofin giacciono inevase le proposte della Commissione, bocciate dal massimalismo dei piccoli paesi (decisi a non concedere sconti a quelli grandi) e dalla miopia di paesi come l’Italia che temevano di essere penalizzati da nuovi criteri che ponevano l’accento sul debito e non solo sul disavanzo.

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COSA SUCCEDERA’ SE IL PATTO VIENE SVUOTATO?

I ministri europei hanno assai poco tempo per riformare il Patto secondo le proposte della Commissione. Se non lo faranno, se prevarranno ripicche e veti incrociati, verrà a cadere un vincolo, la sanzione dei propri pari, alla disciplina fiscale nei singoli paesi. Rimarrebbe la sanzione di mercato, che tanta efficacia ebbe nell’indurre il nostro Governo ad attuare nel 1992 il primo vero programma di risanamento fiscale. E oggi? L’apprezzamento dell’euro all’indomani del disastro dell’Ecofin sembrerebbe indicare che anche la sanzione di mercato è più debole. Ma non è così. L’apprezzamento dell’euro è del tutto consistente con l’aspettativa da parte dei mercati di un rialzo del tassi di interesse indotto a sua volta da un allentamento della disciplina fiscale. Ed è questa la vera e più grave punizione dei mercati: l’aumento dei tassi di interesse. Lo è soprattutto per i paesi più indebitati che oggi si compiacciono di spreads ancora contenuti (ma cosa succederebbe il giorno in cui Standard and Poor’s retrocedesse il nostro paese?), ignari del fatto che a reagire a un allentamento della politica fiscale europea è il livello, ben più dei differenziali, dei tassi di interesse.
Il consenso per gli Stati Uniti è che un aumento del disavanzo di un punto di Pil aumenti i tassi di 60/70 punti base. Le stime per l’Europa si attestano su valori molto simili. Per l’Italia un aumento generalizzato a tutta l’Europa del disavanzo porterebbe quindi, anche a parità di differenziali, a un aumento della spesa per interessi pari perlomeno a 7 decimi di punto del Pil vanificando con un tratto di penna tutti i benefici in termini di bilancio della riforma pensionistica. Come reagirebbero i pensionati alla notizia che i tagli delle pensioni, sicuramente inevitabili, servono a finanziare un aumento della spesa per interessi indotta dal lassismo dell’Ecofin? E, soprattutto, non dovrebbe essere proprio il nostro Governo il primo a difendere, nei fatti e non solo a parole, il Patto di stabilità?

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