Comunicazioni e collegamenti più rapidi e più facili rendono meno definitive le “fughe” di scienziati e studiosi dal paese di nascita. E più che all’emigrazione, dovremmo guardare all’interscambio di capitale umano tra un paese e l’altro e alla mobilità delle idee. Per beneficiare delle innovazioni e delle conoscenze generate a livello internazionale e necessarie al suo sviluppo economico, l’Italia potrebbe allora favorire il passaggio di ricercatori stranieri sul proprio territorio.

Numerosi studi concordano nell’affermare che lo stock di capitale umano di un paese, per esempio il numero di scienziati e di ricercatori che vi operano, sia direttamente legato alla sua crescita economica. (1)
È ovvio quindi che una “fuga di cervelli”, cioè l’emigrazione di scienziati e ricercatori verso altri paesi, sia vista come problematica, soprattutto quando il numero degli emigrati che non fanno più ritorno è elevato (e il numero degli stranieri che immigrano è basso), come nel caso italiano. In genere l’attenzione di chi guarda al fenomeno si concentra sulle cause e sulle misure, istituzionali e non, per cercare di invertirlo o ridurlo.

Come calcolare la “fuga”

Nel caso dei “cervelli”, analogamente a quanto avviene nel calcolo del numero di immigrati, la “fuga”‘ viene misurata facendo il saldo tra le persone partite e quelle arrivate. Ne deriva che quanto più grande è la differenza tra cervelli entrati e usciti, tanto più problematica è la fuga. Tuttavia questo approccio è riduttivo, poiché misura solo fughe di lungo periodo (o almeno quelle che richiedono un cambio di residenza) e presuppone che lo scienziato e il ricercatore, una volta partiti, producano idee e innovazione solo nel paese di destinazione.
Ma in un mondo globalizzato, in cui la comunicazione e il trasporto da un Paese all’altro sono facili e relativamente poco costosi, le idee si muovono di continuo (per esempio via email) e la mobilità internazionale delle persone ad alto contenuto di capitale umano è spesso di natura temporanea. Quindi è invisibile per le statistiche demografiche perché non comporta un cambiamento anagrafico di residenza. Oggigiorno è possibile lavorare in un paese anche se si vive per la maggior parte del tempo in un altro, avviene comunemente tra le persone ad alto contenuto di capitale umano. Per esempio, tra gli scienziati e i ricercatori riuniti al convegno organizzato a Roma nel marzo di quest’anno dal ministro per gli Italiani nel mondo, Mirko Tremaglia, erano molti i ricercatori che pur vivendo all’estero continuano a lavorare su progetti italiani.

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La mobilità delle idee

Ha quindi senso studiare il flusso dei cervelli che partono in maniera definitiva senza studiare quello dei cervelli partiti solo temporaneamente? Ed è giustificabile ritenere che una volta partito, il “cervello” non possa generare idee utili al proprio paese di origine?
La risposta a entrambe le domande sembra essere “no”, anche se è difficile provarlo empiricamente in quanto non vi sono molti dati sui viaggi di lavoro all’estero degli scienziati e dei ricercatori italiani, né sul numero di telefonate fatte a colleghi, né sugli scambi di idee via internet.
I dati disponibili suggeriscono che varrebbe la pena analizzare anche gli spostamenti temporanei internazionali per motivi di lavoro perché sono quasi totalmente effettuati da persone ad alto contenuto di capitale umano (Tavola 1), hanno volumi significativi (Tavola 2), e sembrano avere lo scambio di idee come motivazione principale (Tavola 3), piuttosto che la facilitazione del commercio internazionale.

Questi risultati sono interessanti poiché suggeriscono di guardare alla “fuga di cervelli” nel contesto più generale dell’interscambio di capitale umano tra un paese e l’altro. Non rendersi conto dell’effetto che i miglioramenti tecnologici hanno avuto sulla mobilità internazionale dei “cervelli” può voler dire avere una visione solo parziale del problema e mettere in atto strumenti inadeguati per risolverlo.
Se, il capitale umano è davvero un input fondamentale per la crescita economica grazie alle idee che produce, occorre anche tenere conto della quantità e della qualità delle idee che sono accessibili al paese di origine. Avere il patrimonio di cervelli più grande del mondo non basta per creare conoscenza e innovazione: occorre sapere usare queste risorse. Il fatto che i “cervelli” siano mobili e che le idee prodotte rimbalzino costantemente da una parte all’altra del pianeta, suggerisce che un paese ha strade alternative alla migrazione permanente per beneficiare delle conoscenze e delle innovazioni generate a livello internazionale. Per esempio, potrebbe cercare di aumentare la qualità del proprio stock di capitale umano favorendo i contatti e le visite di studio e lavoro dei propri ricercatori, scienziati, manager con quelli residenti in altri Paesi.
La politica sull’immigrazione dell’Italia, dunque, potrebbe favorire maggiormente il “passaggio” di cervelli sul proprio territorio e non solo preoccuparsi di fermare l’esodo dei propri scienziati e ricercatori. Diventare un paese dei cervelli “in transito” potrebbe essere un rimedio al problema dei cervelli “in fuga”.

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Per saperne di più

Morano-Foadi, S. e Foadi, J. (2003). “Italian Scientific Migration: From Brain Exchange to Brain Drain”, Research Report no. 8, University of Leeds: Centre for the Study of Law and Policy in Europe.

Tani, M. (2003). “Brain drain or brain gain? An analysis of international business travel to/from Australia”, mimeo, School of Business, UNSW@ADFA, settembre

Wolff, Edward N. (2000). “Human Capital Investment and Economic Growth: Exploring the Macro-Links”. Structural Change and Economic Dynamics, 11(4), 433-472.

(1) Malgrado ci sia unanimità sul forte legame tra il livello di istruzione di base e la crescita economica, va precisato che esiste dissenso sull’importanza dell’istruzione superiore e universitaria per tutti quale elemento necessario per mantenere la prosperità economica di un Paese (Wolff, 2000). Non è chiaro infatti, sulla base delle stime esistenti, per quale motivo il possesso della laurea debba aumentare la produttività di un lavoratore alla catena di montaggio. Questa osservazione sembra aver finora trovato poco interesse sul piano politico, e l’idea di una società super-istruita quale modello per risolvere i problemi di bassa produttività, disoccupazione o capacità innovativa sembra essere accettata senza (troppe) riserve.

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