Lungi dallessere conclusa, la stagione degli intrecci tra banche, affari e società calcistiche prosegue e si rafforza. Avvicinando pericolosamente il mondo del pallone al baratro del fallimento. I rimedi devono perciò essere drastici e lopera di risanamento affidata a facce nuove. Una profonda riforma che individui meccanismi credibili ed efficaci di controllo e di sanzione per un grande business, che finora ha operato in un mercato senza regole. Mentre il calcio si avvia allegramente verso il baratro del fallimento (parola di Franco Carraro, uno che ha un posto in prima fila) circolano almeno due tesi che meritano di essere discusse se davvero vogliamo trovare una soluzione definitiva alla crisi. La prima è che la colpa è dei meccanismi di mercato; l’altra è che si tratta di un grave, ma banale problema di costi e ricavi, sfuggiti di mano a presidenti ingenui e miopi. La colpa è del mercato. O dei presidenti La prima tesi ha portato a individuare le cause del dissesto di volta in volta nella sentenza Bosman, nella legge che ha riconosciuto fini di lucro alle società calcistiche e culmina nelle recente affermazione di Carraro che “il libero mercato ha fallito”. Come a Hollywood La questione è invece assai più complessa. In primo luogo, non è possibile non applicare la logica del mercato a uno dei più grandi business esistenti: solo in Italia, nella graduatoria 2003 per audience degli eventi televisivi, tre partite di calcio figurano nelle prime quattro posizioni. Vogliamo gestire questo mondo con la logica delle associazioni? Il problema è che il mercato ha bisogno delle sue regole e nessuno si è ancora preoccupato di scriverne di adeguate per il mondo del pallone e tanto meno di individuare meccanismi credibili ed efficaci di controllo e sanzione. Gli affari in campo Ancora più delicata è la questione sulla regolarità della gestione. Man mano che si alzano i veli che circondavano i misfatti societari, scopriamo che Lazio e Parma non erano la faccia buona di Sergio Cragnotti e Calisto Tanzi, ma uno snodo non secondario dei rapporti con il mondo della politica e della finanza e del circuito della finanza nera dei due gruppi. È per questo che i rimedi debbono essere assai più drastici e soprattutto affidati a facce nuove. Il risanamento di Parmalat, se mai ci sarà, è cominciato con l’ingresso di Enrico Bondi; dissesti futuri saranno evitati se verrà riformato l’intero sistema di controlli, dal funzionamento degli organi sociali alle autorità di vigilanza. Il caso Parmalat ci mette nella condizione di realizzare almeno una grande riforma (che sarebbe molto “unitalian”, commenta perfidamente l’Economist). Dobbiamo entrare nello stesso ordine di idee per le società di calcio. Confesso, infine, il mio conflitto di interessi: sono un noto (ma non pericoloso) ultrà milanista, non tollero perciò l’idea che mi tolgano, per dirla nei termini raffinati di Javier Marías, il “rito domenicale del ritorno alla fanciullezza”.
La seconda è ben sintetizzata da una frase di Giorgio Tosatti: “il Parma, pur rischiando la liquidazione, rimane un modello amministrativo rispetto a Parmalat” (Corriere della Sera, 29 dicembre). Tosatti, uno fra i primi a lanciare l’allarme sulla dissennata corsa verso il dissesto, giudica dunque “grottesca” la “virtuosa indignazione di coloro che indicano fra i responsabili le istituzioni sportive”.
La combinazione di queste due tesi porterebbe a soluzioni relativamente semplici e di ordinaria amministrazione: un sano dirigismo, disegnato e strettamente autogestito dagli attuali addetti ai lavori (cioè dai responsabili del dissesto). Il tutto condito da una buona dose di sussidi per colmare il buco finora accumulato, magari in forma meno goffa dell’attuale legge spalma-perdite in odore di bocciatura a Bruxelles. “E va là che vai bene”, avrebbe chiosato il grande Gianni Brera.
Ciò è tanto più grave se si pensa che i fondamentali economici sono tali da rendere comunque le società calcistiche l’anello più debole di questa catena che genera enormi profitti. È lo stesso motivo per cui nel mondo del cinema sono fallite le grandi major hollywoodiane mentre si arricchivano attori, produttori e distributori.
Tosatti sembra credere che Mani pulite abbia chiuso definitivamente questo legame quando dice che prima di allora “l’intreccio fra partiti, banche e club era forte. Chi investiva nel calcio veniva sovente ripagato con appalti. Tangentopoli ha interrotto questa situazione”.
Purtroppo non è così: come la corruzione nella sanità pubblica è proseguita nonostante la condanna di Duilio Poggiolini, così gli intrecci perversi sono continuati, e si sono anzi rafforzati, nel mondo del pallone.
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