L’ingresso del magnate indonesiano rappresenta un punto di svolta per il nostro campionato ancora legato a vecchie logiche di proprietà. Perché, come nell’ economia, non è semplice coniugare competitività e contenimento dei costi. L’esempio inglese è di aiuto, ma non è semplice da seguire.
L’INTER, UNA SQUADRA IN DIFFICOLTÀ. FUORI DAL CAMPO
Dopo un’estenuante trattativa, durata diversi mesi, Massimo Moratti ha ceduto la quota maggioritaria (70 per cento) dell’Inter al magnate indonesiano Erick Thohir. Si tratta di un fatto destinato a muovere le acque non solo nel pianeta nerazzurro, ma nell’intero sistema calcistico italiano.
L’obiettivo dichiarato è quello di riportare i nerazzurri ai vertici del calcio italiano ed europeo, dopo gli anni di declino seguiti ai trionfi del triplete. L’assemblea dei soci di venerdì 25 ottobre, tuttavia, al di là del giusto tributo riconosciuto al presidente Moratti, ha lasciato a Thohir un quadro piuttosto desolante e una salita decisamente impervia, piena di insidie tutte da affrontare.
79,88 milioni di euro è il pesante passivo di bilancio per la stagione che si è appena conclusa. E il dato è ancora più preoccupante poiché si registra addirittura un peggioramento, seppure di soli due milioni di euro, rispetto al già negativo 2011/2012. L’indebitamento nei confronti di banche e fornitori è costante ed elevato, ammontando a 181 milioni di euro. La mannaia dell’Uefa, con l’entrata in vigore del Financial Fair Play, si abbatterà sulle squadre negligenti dal 2014.
E l’Inter non può davvero dormire sonni tranquilli. Anche la classifica pubblicata annualmente da Deloitte, infatti, parla chiaro: per il primo anno dal 2001, la Beneamata è infatti fuori dalla top-ten della Money League, speciale ranking delle squadre europee in termini di fatturato. Il Real Madrid, primo con 512 milioni di euro all’anno, è lontano anni luce, ma anche la Juventus (che comincia a beneficiare degli introiti da stadio) con i suoi 274 milioni di euro è in un altro sistema solare.
Il fatto è che, proprio guardando alla composizione delle entrate, l’Inter appare una squadra in difficoltà: 112,4 milioni di euro (il 60 per cento) arrivano dai diritti televisivi; 23,2 milioni (13 per cento) dai ricavi da stadio e 50,3 milioni (27 per cento) da accordi commerciali e sponsorship. Le entrate da diritti televisivi sono una forma di rendita su cui il management non può fare granché, innanzitutto perché i contratti vengono discussi a livello di Lega. Inoltre, gli introiti sono fortemente dipendenti dai risultati calcistici e dalle partite di cartello che una squadra gioca. La mancata qualificazione alla Champions League lo scorso anno e l’esclusione pure dall’Europa League di questa stagione addensano fosche nubi all’orizzonte. Anche il rapporto della Deloitte prevede un’ulteriore riduzione di ricavi per l’anno venturo e sottolinea con preoccupazione che l’Inter, tra le 20 squadre monitorate, è quella con il più forte sbilanciamento nei ricavi, tutti concentrati nella componente televisiva.
VINCERE È REDDITIZIO. MA COSTA
Thohir avrà dunque di fronte due strade principali per aumentare il fatturato dell’Inter, entrambe complesse. La prima concerne la costruzione di uno stadio di proprietà, idea che presenta ancora diverse criticità e un percorso che si preannuncia inevitabilmente lungo. Basti pensare al clamoroso fallimento dell’accordo annunciato due estati fa con il colosso cinese Railway Construction.
La seconda possibilità, invece, è connessa all’espansione del marchio Inter con accordi commerciali redditizi.
Detto delle difficoltà, veniamo ai progetti. Il fatto è che l’affare calcio non può essere analizzato con l’ottica di semplice massimizzazione dei profitti. C’è pure un’analisi empirica di un famoso economista dello sport, Stefan Szymanski, a dimostrarlo: utilizzando dati dal 1994 al 2004 per i campionati inglesi e spagnolo (sia di prima sia di seconda divisione), lo studioso mostra come la classifica delle squadre possa essere spiegata più da strategie in cui l’obiettivo è la massimizzazione delle vittorie che la massimizzazione degli introiti.
La spiegazione è semplice: un manager di una squadra di calcio si trova a fronteggiare una competizione più serrata che in altri mercati e le sue decisioni o strategie, gioco forza, non sono indipendenti dai competitor. Risanare un bilancio può anche andare bene ed essere necessario, insomma, ma il rischio non banale è quello di perdere i giocatori di migliore qualità, che, tra le altre cose, garantiscono risultati e, di conseguenza, maggiori introiti da biglietti e da accordi commerciali.
Ben venga l’obiettivo di migliorare la gestione economica posto da Thohir, ma non è sul fronte del monte ingaggi che l’Inter deve lavorare di più: passando da 180 a 95 milioni di euro lordi all’anno all’inizio di questo campionato, la squadra milanese ha più che dimezzato la relativa voce costo (anche se rimane di poco sotto alla Juventus, che spende, sì, 115 milioni di euro, ma che domina il campionato italiano ed è competitiva in Europa).
La squadra milanese, oltre al controllo dei costi, deve piuttosto puntare a vincere per tornare a incrementare il proprio fatturato: da questo punto di vista, i necessari investimenti cozzano con la situazione finanziaria molto delicata e le rigidità prima elencate. I tempi tecnici dilatati necessari alla costruzione di un impianto di proprietà e il vincolo del contratto decennale appena siglato con lo sponsor tecnico Nike sono zavorre piuttosto pesanti di cui tenere conto. Forse la strada più praticabile è la valorizzazione, anche in prima squadra, del potenziale rappresentato da un vivaio di giovani apprezzato in tutto il mondo.
LE – POCHE – SQUADRE ALL’AVANGUARDIA
Più volte è stato citato il modello Arsenal (squadra gestita a livello manageriale che produce utili e che sta guidando l’attuale Premier League) come possibile benchmark per la nuova Inter targata Thohir. Guardare, tuttavia, al controllo dei costi, e puntare al pareggio di bilancio senza grossi investimenti per rendere competitiva la squadra, potrebbe somigliare più all’esempio di Alan Sugar.
L’imprenditore inglese aveva acquistato il Tottenham Hotspur nel 1991, promettendo una gestione oculata e virtuosa basata su un’attenta logica aziendale. Fu di parola: nei dieci anni della sua presidenza, le finanze degli Spurs furono un esempio. La squadra vinse solo una coppa di Lega, però, e stazionò perennemente a metà classifica, fino a che i tifosi scontenti invocarono a gran voce un cambio di presidenza.
Auguri a Erick Thohir e all’impresa di cui si è assunto l’onere, dunque: rilanciare l’Inter e fronteggiare la tifoseria, non per forza entusiasta all’idea di dover pazientare qualche anno prima di tornare a essere veramente competitivi.
L’ingresso del magnate indonesiano nel calcio italiano, in ogni caso, offre la possibilità di spogliare il re, che era già nudo per altro, e mettere fine a quel modello familistico-padronale che ha caratterizzato il calcio italiano negli anni ’80. È una sfida interessante non solo per l’Inter, ma per l‘intero calcio italiano che, a ben guardare, è ancora tutto inserito in una logica gestionale superata dai fatti e dalla realtà. A dimostrarlo ancora di più sono le eccezioni: Juventus e Roma, società che hanno avviato da anni un percorso di rilancio in chiave di sostenibilità finanziaria e incremento delle entrate commerciali, raccolgono i frutti di un progetto a lunga scadenza. Si tratta, anche nel pallone, di aggredire quella sfida di competitività che il nostro paese subisce passivamente in settori ben più strutturali dell’economia.
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Eugenio
Nell’analisi comparativa con altre squadre rispetto all’Inter l’autore avrebbe potuto tener conto dell’evoluzione e del risanamento della Società Calcio Napoli.
trappola_fuorigioco
Sarebbe interessantissimo aggiungere nell’ottima analisi le squadre di Bundesliga. il modello di ‘crescita sostenibile’ del Borussia Dortmund ha portato a risultati efficaci sia dal punto di vista sportivo che di quello finanziario.