Vanno bene nuove norme che irrigidiscano le sanzioni per i comportamenti illeciti e chiariscano le competenze e i poteri delle autorità di vigilanza, anche per ridare fiducia ai risparmiatori e al mercato. Ma va corretta anche una peculiare debolezza italiana: il fatto che moltissimi soggetti che hanno accesso all’informazione finanziaria, che la capiscono, che hanno forte interesse economico a reagire, per qualche ragione reagiscono tardi o non reagiscono affatto. Con gravi danni per tutti.

Con la presentazione del disegno di legge governativo per la tutela del risparmio, accelera il passo delle decisioni per ridare fiducia ai risparmiatori e agli investitori nel mercato finanziario italiano. Speriamo che si agisca presto e che si agisca con largo consenso.

Però, dobbiamo anche ricordare che nel nostro paese le norme per la tutela del risparmio e la trasparenza degli strumenti finanziari ci sono, e sono complessivamente in linea con quelle dei mercati più sviluppati. La cosa che colpisce, nelle vicende recenti della Parmalat, è semmai la facilità con cui sono state eluse, ingannando il mercato e le autorità di controllo, oltre ai risparmiatori.

Difendersi con i controlli interni

La prima linea di difesa contro i comportamenti illegittimi degli amministratori è costituita dai controlli interni alle società. Non servono nuove norme per rafforzare l’indipendenza dei consiglieri e dei consigli di amministrazione, o per nominare i sindaci espressi dalle minoranze (che in molte società purtroppo mancano). Basterebbe volerlo fare e farlo.

Certo, per i revisori, un rafforzamento della normativa è opportuno. Si può sottrarne la nomina all’azionista di maggioranza, escludere il rinnovo dell’incarico, estendere le incompatibilità.
Tuttavia, già oggi le responsabilità previste dal codice civile e dal Testo unico della finanza per tutti questi soggetti sono ampie; i comportamenti infedeli sono severamente sanzionabili, fino all’esclusione dalla professione.
Ma se gli azionisti, gli intermediari e gli investitori non ne pretendono il rispetto, se la stampa specializzata non dà conto dei comportamenti anomali prima che diventino insolvenze, non ci sono norme che tengano. Questa abitudine allo scrutinio severo da parte degli individui che possono farlo e hanno interesse a farlo, all’estero esiste, mentre da noi sembra mancare.

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Le funzioni dell’autodisciplina

In quest’ambito assume rilievo la questione dell’autodisciplina.

Gli strumenti di autodisciplina sono arrivati un po’ più tardi nel nostro ordinamento, ma ora si stanno sviluppando: penso al codice di autodisciplina delle società quotate, alla guida all’informazione societaria sul mercato italiano di Borsa, ai codici interni di organizzazione previsti dalla legge 231 del 2001 sulla responsabilità degli enti, ai codici etici.

Tali codici svolgono due funzioni: obbligano le società a formalizzare i propri comportamenti, anche nei confronti di dipendenti e collaboratori, e a dotarsi di apposite procedure per prevenire azioni improprie o illegali. E le obbligano a comunicare al mercato le decisioni assunte al riguardo.

Col tempo, i comportamenti raccomandati diventano comportamenti condivisi: perché la violazione sarebbe sotto gli occhi di tutti mentre i comportamenti “virtuosi” si diffondono e diventano standard comune. Poco importa che non vi siano sanzioni legali; la sanzione della perdita di reputazione può essere anche più severa.

Di nuovo, il problema è che gli azionisti e i soggetti del mercato sono tradizionalmente poco attenti a verificare i comportamenti delle società, che pure sono pubblici e verificabili. Vedono benissimo quando i fatti non corrispondono alle parole, ma non dicono nulla.

Se il chief financial officer è anche membro del comitato di controllo della società, come accadeva per Parmalat, perché nessuna voce si leva a rilevare l’anomalia, neanche tra coloro che possiedono rilevanti investimenti in quel titolo, o tra gli analisti che ne raccomandano in buona fede l’acquisto? Quante altre società rispettano la forma, ma non la sostanza di codici che pure dichiarano pubblicamente di aver adottato?

La tutela del risparmio

Anche sull’ambito degli interventi normativi a tutela del risparmio occorrerà ben riflettere: c’è il rischio di tirare sul bersaglio sbagliato. L’insolvenza di una emissione obbligazionaria ad alto rischio non è una buona ragione per vietare le emissioni.

L’uso scorretto delle operazioni infragruppo, specie con società costituite in giurisdizioni poco regolate, non è ragione sufficiente per vietare né le operazioni né le società. Piuttosto, bisognerebbe preoccuparsi che gli strumenti finanziari più rischiosi non vengano collocati tra i risparmiatori individuali senza appropriate informazioni e cautele. E, allo stesso tempo, si deve chiedere conto agli amministratori delle operazioni con società estere, accertandone gli effetti sui flussi di cassa e sui conti.

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Se si potesse contare che questo avvenga, se azionisti, analisti, intermediari e investitori facessero le domande giuste a esigessero le risposte, non servirebbero nuovi vincoli all’utilizzo delle società estere né alle emissioni di obbligazioni.

La struttura societaria dei gruppi Cragnotti e Cirio appare, col senno di poi, assolutamente sorprendente. Le obbligazioni venivano emesse da scatole vuote, con la garanzia della quotata italiana. Dunque, ancora più sorprendente è che nessuno tra tutti i soggetti che potevano chiedere spiegazioni … se ne sia sorpreso.

Insomma, ben vengano nuove norme che irrigidiscano le sanzioni per i comportamenti truffaldini e chiariscano le competenze e i poteri delle autorità di vigilanza.

Ma sarà bene anche riflettere sui modi per correggere questa peculiare debolezza italiana: il fatto che moltissimi soggetti che hanno accesso all’informazione finanziaria, che la capiscono, che hanno forte interesse economico a reagire, per qualche ragione reagiscono tardi o non reagiscono affatto. Talora, pagandone altissimo scotto.

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