La questione organizzativa è il primo problema per il nuovo presidente di Confindustria. Significa affrontare questioni di democrazia interna di lungo e breve periodo. Dal rapporto tra grande e piccola industria a quello tra associazioni territoriali e categoriali, al federalismo associativo. Ma anche risolvere il dilemma se essere un’azienda che offre servizi o una associazione di rappresentanza. Se non lo farà, riaffioreranno le divisioni che per il momento è riuscito a ricucire.

Il dibattito sull’elezione del nuovo presidente di Confindustria si è focalizzato soprattutto sui temi relativi alle relazioni sindacali e alle politiche pubbliche, mentre minore attenzione è stata data ai temi organizzativi interni. Ed è questa una delle principali “sfide” che Luca Cordero di Montezemolo, unico candidato rimasto, dovrà affrontare durante il suo mandato.
I motivi di ciò sono vari: alcuni di lungo periodo, altri più contingenti, legati alla non facile eredità lasciata dalla presidenza D’Amato e alle caratteristiche che ha assunto la candidatura di Luca di Montezemolo.

Trent’anni di riforme

A partire dal 1970, anno della riforma Pirelli, che rappresentò un mutamento genetico per l’organizzazione, la storia organizzativa di Confindustria è costituita da una riforma continua e permanente. Nel corso degli anni Settanta vengono avanzate ben quindici proposte di riforma organizzativa, nel 1984 si ha il riassetto organizzativo, nel 1991 dopo un dibattito interno durato quasi tre anni viene approvata la riforma Mazzoleni, nel 1994 vengono riformati i regolamenti. Nel 2002, infine, la riforma Mondello-Tognana anch’essa elaborata in un biennio di confronto serrato tra le componenti confederali.

Perché questa continua fibrillazione intorno alle tematiche organizzative? Una prima spiegazione, semplicistica, ma non errata, è che ogni presidente ha voluto, quasi per tradizione, “lasciare traccia” del proprio passaggio imprimendo modifiche anche alla struttura organizzativa.
Ovviamente, ci sono anche altre ragioni più serie. In primo luogo, l’esigenza di adeguarsi costantemente ai cambiamenti nella sfera economica (pensiamo alla globalizzazione) e in quella politica (il processo di integrazione europea o quello di decentramento federale italiano).

In secondo luogo, il permanere di alcuni problemi strutturali – potremmo dire alcuni “vizi d’origine” – che le riforme sono solo in parte riuscite a risolvere.
Tra questi, il rapporto tra piccole e grandi imprese: la base associativa di Confindustria è composta principalmente dalle prime, mentre le seconde, meno numerose, hanno le risorse per contare di più negli organi direttivi. Questo si riflette in termini organizzativi in un continuo scontro-confronto tra le poche grandi associazioni che rappresentano le aree dove è concentrato il tessuto industriale e le molte piccole realtà associative che spesso fanno fatica a sopravvivere. (1)

E questa contrapposizione ha conseguenze significative anche nei rapporti tre la confederazione e le sue affiliate. Le grandi associazioni sono autonome, in quanto hanno tranquillamente accesso a risorse economiche e organizzative, e stabiliscono perciò relazioni “paritetiche” con Confindustria, mentre quelle piccole hanno bisogno di supporto da parte degli organi centrali.
Il secondo problema “strutturale” è il rapporto tra associazioni territoriali (soprattutto provinciali) e categoriali in termini di modalità di iscrizione delle imprese, di funzioni, di rappresentatività interna. Le prime rappresentano, anche da un punto di vista storico, il “nerbo” dell’organizzazione di Confindustria, anche se le seconde svolgono importanti funzioni di consulenza e assistenza per le imprese.
Il combinato disposto di questi e altri fattori è che Confindustria ha fatto fatica a “fare sistema”, rimanendo per molti aspetti un insieme di associazioni più che un sistema integrato di realtà associative.

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La “riforma permanente” ha risolto questi problemi? La risposta è parzialmente affermativa. Nel trentennio che va dalla riforma Pirelli al 12 dicembre 2002, data della riforma Mondello-Tognana, sono state adottate due differenti strategie. Fino al 1994, si è cercato di aumentare la coerenza strutturale di Confindustria con una minuziosa regolamentazione delle modalità di adesione delle imprese e della ripartizione delle competenze e una altrettanto dettagliata standardizzazione del funzionamento delle unità periferiche.
I risultati sono stati deludenti, e comunque inferiori agli sforzi profusi. Questa strategia si scontrava con la refrattarietà degli imprenditori e delle realtà associative ad assoggettarsi alle regole del centro, ed era sostanzialmente inadeguata per rappresentare un tessuto industriale disomogeneo sul piano della sua distribuzione dimensionale, settoriale e territoriale. Con la riforma Mondello-Tognana, e soprattutto con il dibattito che l’ha preceduta, si è cambiata strategia: libero inquadramento delle imprese, decentramento a livello regionale, maggiore autonomia organizzativa alle strutture locali.
Il primo problema che Luca di Montezemolo dovrà affrontare sarà quindi se proseguire lungo questa strategia di “federalismo associativo” e, in caso affermativo, come farlo nel modo più coerente possibile.

I due ostacoli alla razionalizzazione

Vi sono, però, anche problematiche di medio periodo. La principale è di natura economica e finanziaria.
Il funzionamento delle strutture centrali e periferiche assorbe molte risorse e le quote pagate dalle associazioni sono aumentate dal 1996 a oggi circa del 13 per cento, mentre la quota associativa minima del 50 per cento. (2)

È certamente necessario un intervento per razionalizzare e guadagnare efficienza.
Ma a questo si frappongono due ostacoli. Il primo è rappresentato dalle resistenze della struttura (impiegati, funzionari, dipendenti), soprattutto a livello periferico.
Il secondo, più serio, è che la logica dell’efficienza e delle economia di scala può essere applicata solo in parte alle associazioni di rappresentanza. Essere presenti capillarmente sul territorio e offrire direttamente servizi e assistenza agli imprenditori può risultare inefficiente da un punto di vista economico, ma efficace da quello della rappresentanza, del consenso e dell’identità associativa soprattutto in un tessuto di piccole imprese.
Si tratta di un problema di non facile soluzione che, non a caso, è stato abbandonato nel corso del dibattito sulla riforma Mondello-Tognana.
Il nuovo presidente dovrà quindi affrontare il dilemma se Confindustria e le sue strutture periferiche devono essere prevalentemente una azienda che offre servizi o una associazione che fa rappresentanza.

Il presidente di tutti

Vi sono poi problemi di breve periodo, contingenti, ma non per questo meno impellenti. La presidenza D’Amato ha creato profonde divisioni all’interno di Confindustria. Una parte della base era assolutamente contraria alla battaglia sull’articolo 18, mentre altri vedevano con crescente diffidenza la linea neocollateralista con il governo Berlusconi. (3)
La stessa candidatura Montezemolo nasce nell’ottobre del 2002 da un gruppo di imprenditori in disaccordo con la linea D’Amato. (4)
Il futuro presidente di Confindustria, nei quarantacinque giorni della sua campagna elettorale, è riuscito a ricucire queste divisioni, presentandosi come il “presidente di tutti” e raccogliendo ampi consensi. Tuttavia, i consensi vanno coltivati e consolidati. E né il carisma personale, né i successi sportivi, sono sufficienti. I “berluschini”, come l’avvocato Agnelli definì coloro che portarono in viale dell’Astronomia D’Amato, non sono spariti nel nulla. Vale la pena ricordare che all’assemblea del maggio 2002 D’Amato ottenne l’84 per cento dei consensi, nonostante già da alcuni mesi fossero presenti forti malumori sulla sua strategia sindacale. (5)

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La congiuntura economica non è sicuramente favorevole e questo può creare malumori e conflitti interni. Infine, chi all’interno di Confindustria chiedeva spazi di discussione e di confronto dove anche le piccole e le medie imprese potessero esprimersi continuerà ad avanzare questa domanda anche con il nuovo presidente
Insomma, una questione organizzativa che il nuovo presidente dovrà sicuramente affrontare è quella della democrazia (e quindi della partecipazione) interna: potrà essere “presidente di tutti” solo se tutti avranno possibilità di esprimersi. E non si tratta di un problema di facile soluzione per le implicazioni che ha, dalle quote associative ai meccanismi della rappresentanza, dalle competenze dei vari organismi alla progettazione di opportune sedi di dibattito e partecipazione.

Per concludere, la presidenza Montezemolo nasce sotto i migliori auspici.
Questo non deve far pensare che tutti i problemi che hanno caratterizzato i mandati dei precedenti presidenti, e in particolare quello di Antonio D’Amato, siano risolti. I presidenti cambiano, ma le imprese, le associazioni, i funzionari, le strutture rimangono, con loro i loro interessi, le loro strategie, le loro lacune.
È per questo che la questione organizzativa, se non viene affrontata tempestivamente (e opportunamente), può diventare il “tallone del cavallino” del nuovo presidente di Confindustria.

 

(1) Qualche dato può dare l’idea di questa asimmetria. La sola Assolombarda, che rappresenta le imprese industriali di Milano e provincia, controlla l’8,44 per cento dei voti in assemblea, mentre le associazioni di Liguria, Friuli Venezia Giulia, Sicilia, Trentino Alto Adige, Umbria, Abruzzo e Molise, Puglia, Sardegna, Calabria, Basilicata e Valle d’Aosta superano di poco il 10 per cento. Vedi “La Repubblica”, 23 gennaio 2004, p. 32.
(2) Dati tratti da Sergio Rizzo, L’azienda Confindustria costa troppo: 400 milioni l’anno, in “CorriereEconomia”, 1 marzo 2004, p. 1.
(3) Per alcune testimonianze sul dissenso presente all’interno di Confindustria rispetto alle posizioni di D’Amato si veda il sito
www.imprenditoriliberal.it.
(4) Si veda Roberto Bagnoli, Quei voti conquistati uno per uno, “Il Corriere della sera”, 27 febbraio 2004, p. 6.
(5) Sui dissensi sulla “battaglia dell’articolo 18” si veda, per esempio, l’articolo D’Amato in trincea in “La Repubblica”, 5 aprile 2002, p. 27 e l’intervista a Luciano Benetton ivi riportata.

 

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