La nuova legge tocca molti aspetti, con alcuni provvedimenti condivisibili. Ma le misure previste non sembrano in grado di ridurre la concentrazione nel mercato televisivo e aumentare il pluralismo. Il Sic è un aggregato arbitrario e non un mercato rilevante come inteso dalle autorità antitrust. E la quota consentita è opportunamente al di sopra di quella oggi detenuta dai principali operatori. E’ perciò probabile che la norma sia solo una tappa provvisoria nella costruzione di un assetto accettabile del sistema televisivo italiano

Dopo un tormentato, ma accelerato, iter di discussione la legge Gasparri è stata pubblicata in Gazzetta ufficiale nella sua versione definitiva.
Si tratta di una legge che tocca molti punti, con diversi interventi condivisibili.

Dalle tv locali alla privatizzazione della Rai

È condivisibile, ad esempio, l’articolo 8 quando amplia da sei a dodici ore lo spazio di interconnessione nazionale per le emittenti locali e consente loro di raccogliere pubblicità nazionale. Si pongono così le prime basi per il progressivo superamento di una situazione che le rende quasi insignificanti nel panorama televisivo. Anche se, per favorirne la crescita, sarebbe stato meglio consentire il possesso di stazioni in mercati diversi, invece di aumentare fino a tre il numero di emittenti che un soggetto può possedere nello stesso bacino di utenza.
Una parte rilevante della legge è dedicata alle procedure di nomina del consiglio d’amministrazione Rai e alla sua privatizzazione.
Sul primo punto, occorre prendere atto che finora l’influenza politica sulla Rai e sulla scelta dei dirigenti è stata assolutamente indipendente dai criteri di nomina via via adottati.

La privatizzazione ipotizzata dalla legge Gasparri non prevede, però, interventi strutturali che allontanino l’influenza dei partiti dalla televisione pubblica. E l’idea di vendere una minoranza del capitale azionario con quote che non possono superare il 2 per cento, senza modificare la struttura saldamente duopolistica del mercato televisivo, sembra un esempio da manuale di come non cogliere i vantaggi della privatizzazione. Se non quello, meramente finanziario, di scaricare sui piccoli risparmiatori i rischi di un’azienda dalla redditività incerta e in cui le possibilità di controllo degli azionisti sono modeste.

Il caso delle telepromozioni

Aumenta lo spazio per le telepromozioni, soprattutto per Mediaset, con un approccio che allontana l’Italia da diversi altri paesi europei. (1)
Ma la norma non modifica la struttura del mercato né è in grado di sottrarre quote ad altri mezzi.
Le ragioni della limitata raccolta pubblicitaria di quotidiani e periodici vanno cercate nella ridotta diffusione della stampa in Italia più che nel potere di mercato della televisione. Se si effettuano confronti internazionali considerando i ricavi pubblicitari per copia, si scoprono indicatori abbastanza omogenei tra i vari paesi: sembrano mostrare come sia possibile conquistare investimenti pubblicitari, una volta raggiunti i lettori.

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Tra Sic e digitale terrestre

Il problema della struttura del mercato – limitazione o riduzione della concentrazione e aumento dei concorrenti e delle voci disponibili – ha implicazioni sia economiche che politiche.
La legge Gasparri lo affronta con la definizione del Sic (sistema integrato delle comunicazioni, di cui nessun operatore può controllare più del 20 per cento) e la promozione accelerata della televisione digitale terrestre.
Il Sic è stato ridotto con la riscrittura della legge, in seguito al rinvio alle Camere da parte del presidente della Repubblica. Sono stati eliminati dal perimetro libri e pubbliche relazioni e corrette alcune vistose ingenuità.
Per esempio, l’avervi compreso all’inizio le agenzie di stampa, le produzioni televisive e le produzioni cinematografiche: tutti mercati intermedi che entrano rispettivamente nel fatturato di giornali, televisioni e sale cinematografiche, e dunque erano banalmente contati due volte.
In questo modo, il Sic raggiunge una dimensione di circa 22 miliardi di euro.
Una quota del 20 per cento corrisponde a 4,5 miliardi di euro: cifra opportunamente al di sopra di quella attuale dei maggiori operatori (Rai 3 miliardi, Mediaset 4 miliardi, Rcs per ora 2,3 miliardi).

Il Sic non è un mercato rilevante nel senso comunemente inteso dall’economia industriale e dalle autorità antitrust. Si tratta piuttosto di un aggregato arbitrario, di una convenzione dove conta solo il prodotto tra perimetro complessivo e quota consentita. E la combinazione scelta non è stringente per nessun operatore presente sul mercato, nonostante in diversi mercati delle comunicazioni si registrino tassi di concentrazione assai elevati: in quello televisivo nazionale, nella televisione a pagamento, nelle directory o in molti mercati locali dei quotidiani.
La televisione digitale terrestre rappresenta un’innovazione di sistema perseguita da molti paesi. Per la sua inevitabilità tecnologica, e perché utilizzando in modo più efficiente lo spettro elettromagnetico, permette alternativamente di aumentare il numero di canali o di destinare parte delle frequenze televisive ad altri utilizzi.
La legge italiana progetta una transizione accelerata soprattutto per ovviare all’obbligo imposto dalla norma precedente e dalla Corte costituzionale di spostare Rete 4 sul satellite e di togliere la pubblicità a Rai 3.
Purtroppo, la concentrazione del mercato televisivo è legata alle economie di scala nei programmi più che alla scarsità di frequenze: appare probabile che i nuovi canali trasmessi sul digitale terrestre si limitino ad aumentare il numero teorico dei canali e non riescano a erodere le quote di mercato degli incumbent. (vedi lavoce.info del 03-07-2003)

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Nel segno della continuità

Nell’insieme si tratta di misure che non sembrano in grado di perseguire una riduzione della concentrazione nel mercato televisivo. Vi è cioè un’incoerenza tra finalità dichiarate e strumenti utilizzati.
Va detto però che su questo terreno la Gasparri mantiene una forte continuità con le altre leggi sulla televisione promulgate negli ultimi vent’anni, che si occupano di molte cose per lasciare sostanzialmente invariata la struttura del settore, caratterizzato da un duopolio dove i due operatori controllano circa il 90 per cento del mercato di riferimento. Ha un approccio comune con la legge Mammì del 1990 e la legge Maccanico del 1997, peraltro emanate da Governi diversi.

Nonostante le polemiche, l’Italia è solo parzialmente un’anomalia nel contesto televisivo europeo. In Germania i primi due operatori controllano il 68 per cento degli ascolti, in Gran Bretagna il 60 per cento, in Francia il 71 per cento. Si tratta ovunque di tassi di concentrazione elevati, ma inferiori all’89 per cento italiano. In questi altri paesi vi è spazio normalmente per almeno tre-quattro gruppi televisivi significativi, più gli operatori della pay-tv.
Un accettabile grado di concorrenza nel settore televisivo è rilevante per il buon funzionamento degli altri mercati, attraverso la pubblicità, ma anche per il buon funzionamento del sistema politico perché ormai i cittadini ricevono gran parte delle informazioni proprio dalla televisione.
Dunque, è probabile che la legge Gasparri sia solo una tappa provvisoria nella costruzione di un assetto accettabile del sistema televisivo italiano.
Si continuerà inevitabilmente a parlare di questo tema: sarebbe opportuno farlo con meno ideologia, meno preconcetti ma con più dati oggettivi, più confronti internazionali, con profondità e consapevolezza crescenti.

 

(1) In Francia le telepromozioni non sono consentite nei programmi e in Germania rientrano nella normativa generale sugli spot.

 

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