Dopo la sentenza della Corte Costituzionale, il sistema dei servizi locali torna alle normative settoriali, rilette però alla luce dei principi comunitari. Che prevedono di norma l’affidamento con gara e l’in house solo se una gestione concorrenziale è in conflitto con la speciale missione dell’ente pubblico. Anche i poteri dell’Antitrust sono stati rafforzati. Ci sono dunque gli strumenti per ridurre le inefficienze gestionali e per liberare risorse da destinare agli investimenti. I rischi connessi al programma di dismissioni per il ridimensionamento del debito pubblico.
Mettete insieme il nuovo quadro normativo al quale sembrava approdata la riforma dei servizi pubblici locali, la recente sentenza della Corte Costituzionale che cancella l’articolo 4 del decreto legge n. 138/2011; le sempre più pressanti esigenze della finanza pubblica e il programma di privatizzazioni annunciato dal ministro Grilli e un crescente interesse manifestato dagli investitori istituzionali per il settore delle public utilities (financo per il trasporto locale) e non potrete non porvi un interrogativo: c’è ancora lo spazio per una riforma effettivamentepro-concorrenziale, rispettosa della volontà popolare espressa con il referendum (più o meno consapevolmente su tutti i servizi locali e non solo sul servizio idrico) e, d’altro lato, persino agevolata dall’esigenza di privatizzare? Oppure siamo nuovamente di fronte a un film già visto, dove la rendita del monopolista pubblico piuttosto che essere erosa e distribuita ai cittadini, viene semplicemente trasferita ai privati in assenza di vincoli concorrenziali?
LE REGOLE DOPO IL REFERENDUM
Ci si era illusi che con le riforme attuate dal governo Monti, il sistema dei servizi locali avesse smesso di essere un sistema “instabile”. (1) Il nuovo quadro regolatorio, almeno in linea di principio, sembrava poter proporre (ri-proporre?) un cambio di paradigma in grado di garantire efficienza, investimenti e migliore qualità per i cittadini. Mancavano, è vero, le misure di “compensazione” per favorire il superamento delle resistenze all’introduzione della concorrenza e il sistema era un po’ “barocco” e oneroso sia per le amministrazioni locali più piccole che per l’Autorità antitrust.
Le “nuove” regole, tuttavia, per la prima volta declinavano esplicitamente i passaggi logici che auspicabilmente le amministrazioni locali dovrebbero sempre seguire per individuare le modalità di affidamento e di gestione più efficienti: una volta definiti gli obblighi di servizio pubblico, identificare la parte del servizio che può essere garantita anche dal solo confronto concorrenziale; esclusivamente per la parte restante del servizio – quella non profittevole – ipotizzare l’affidamento in esclusiva (di regola sfruttando le potenzialità della concorrenza per il mercato); solo residualmente ricorrere agli affidamenti in house.
E, però, c’era un “però” piuttosto ingombrante. Il nuovo quadro regolamentare, per quanto avesse escluso dalla disciplina il servizio idrico, in buona misura finiva per “ri-proporre” più di un ingrediente considerato “indigesto” dal 95 per cento degli elettori che si erano espressi per l’abrogazione dell’articolo 23 bis.
LA SENTENZA DELLA CORTE COSTITUZIONALE
A giudizio della Consulta, le modifiche introdotte nella regolazione dei servizi locali di fatto finivano per porsi in diretta contrapposizione con l’esito referendario, in violazione dell’articolo 75 della Costituzione. Più precisamente, l’articolo 4 del decreto legge n. 138/2011 reintroduceva surrettiziamente le norme contenute nell’articolo 23 bis, che rendevano obbligatorio il confronto concorrenziale e limitavano a ipotesi del tutto residuali gli spazi per gli affidamenti in house. (2)
Il sistema dei servizi locali rischia, pertanto, di riprendere quell’andamento oscillante tra i tentativi (a volte anche sinceri ma più spesso velleitari) di “costringere” all’efficienza il monopolista pubblico (con quali strumenti?) e i tentativi ambiziosi (in un paese che stenta a percepire le virtù della concorrenza anche nei mercati dei beni e servizi privati) di avvalersi degli incentivi concorrenziali per utilizzare al meglio le sempre più scarse risorse pubbliche destinate alla gestione dei servizi pubblici locali. Di nuovo e per sempre servizi pubblici locali instabili? Non necessariamente.
CIÒ CHE RESTA DELLA RIFORMA
Dopo la sentenza della Corte Costituzionale, di fatto, si ritorna alle normative settoriali “rilette” alla luce dei principi comunitari: l’affidamento con gara ogni volta che si può e l’affidamento in house solo se una gestione concorrenziale configge con la “speciale missione” dell’ente pubblico.
Con la legge 214/2011 la disciplina della concorrenza si è arricchita dell’articolo 21 bis, in base al quale l’Autorità antitrust ha la possibilità di ricorrere direttamente al Tar, laddove un atto amministrativo ingiustificatamente restrittivo non venga modificato entro 60 giorni. Questo nuovo potere, concepito non solo per i servizi locali, proprio in questo ambito potrebbe trovare la sua applicazione più efficace e appropriata: l’Autorità può, infatti, richiedere al Tar la disapplicazione di delibere di comuni o Regioni con le quali per un servizio pubblico sia stato previsto l’affidamento in house anche quando la gestione concorrenziale non avrebbe contrastato con la “speciale missione” dell’ente locale ovvero di delibere che individuino requisiti di partecipazione alle gare ingiustificatamente restrittivi o, peggio, delineino ex ante il profilo del soggetto aggiudicatario. Un ricorso selettivo all’articolo 21 bis potrebbe costituire uno strumento particolarmente prezioso per riempire di contenuto il favor comunitario per gli affidamenti con gara dei servizi pubblici.
In altre parole, se la sentenza della Corte Costituzionale non verrà letta strumentalmente come una “sconfitta” del processo di liberalizzazione dei servizi locali, ma, più correttamente, come un atto dovuto, “ciò che resta della riforma” non è affatto “il resto di niente”. Prendendo sul serio i principi comunitari, può comunque funzionare, consentendo al sistema di raggiungere quella stabilità che le oscillazioni dell’ultimo ventennio sembrerebbero fin qui contraddire. Nel quadro regolatorio che esce dalla sentenza della Corte restano strumenti importanti (la gara e il 21 bis) per ridurre le attuali indubbie inefficienze gestionali e per liberare risorse da destinare agli investimenti. La natura anticiclica del settore dei servizi locali è una caratteristica che lo rende particolarmente prezioso in una fase recessiva. La sua inevitabile riforma potrebbe persino intrecciarsi virtuosamente con le esigenze di privatizzazione: nei mercati dove la concorrenza è soprattutto concorrenza per il mercato, laconsecutio “prima liberalizzare e poi, semmai, privatizzare” può essere derogata per sciogliere gli intrecci tra soggetto aggiudicante e partecipanti.
LE URGENZE DELLA FINANZA PUBBLICA
Le ragioni della finanza pubblica e, soprattutto, di un programma di dismissioni che possa effettivamente contribuire al ridimensionamento del debito rischiano tuttavia di indebolire ulteriormente un quadro regolamentare già destabilizzato.
Le amministrazioni locali, infatti, potrebbero essere tentate di privilegiare la massimizzazione degli introiti delle privatizzazioni a scapito di modalità di gestione e di affidamento dei servizi più concorrenziali. In questa ipotesi, anche l’interesse degli investitori istituzionali potrebbe ampliarsi: all’attività di finanziamento di investimenti e infrastrutture vedrebbero affiancarsi le opportunità offerte dai mutamenti degli assetti proprietari. Le ragioni della finanza pubblica finirebbero per prevaricare quelle della concorrenza e della crescita. Sotto molti profili, un film già visto.
Anche molti di coloro che hanno votato “no” al referendum sull’articolo 23 bis non possono, dunque, che augurarsi un’interpretazione “ariosa” della sentenza della Consulta. Per evitare la proiezione di un film già visto (e non particolarmente bello), la via di uscita non è l’arroccamento a difesa di gestioni dei servizi spesso indifendibili, ma utilizzare al meglio ciò che resta della riforma.
Le stesse lamentele, non sempre infondate, per la drastica e assai poco selettiva riduzione delle risorsedestinate ai servizi locali diventerebbero più credibili e potrebbero trovare maggiore ascolto se le amministrazioni, forti di una lettura strumentale della sentenza della Corte Costituzionale, non dessero per scontato che tali servizi debbano essere operati con le stesse modalità e dagli stessi soggetti che, non disciplinati da alcun vincolo concorrenziale, l’hanno sin qui gestiti.
* Le opinioni qui espresse sono personali e non coinvolgono l’Autorità garante della concorrenza e del mercato, di cui l’autore è capo economista.
(1) Vedi F. Merusi (1990), Servizi pubblici locali instabili, Il Mulino, Bologna.
(2) Vedi Corte Costituzionale sentenza n. 199/2012 del 17 luglio 2012.
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