Salvo sorprese, il prossimo anno inizieranno i negoziati formali per l’ingresso della Turchia nella Ue. Non mancano le obiezioni. Quelle economiche insistono sul fatto che si tratta di un paese povero, prevalentemente agricolo e con una forte dinamica demografica. Questi problemi potrebbero però essere già superati quando l’adesione sarà effettiva. Mentre i vantaggi sarebbero notevoli e non solo per Ankara. La Turchia può divenire una fondamentale via di approvvigionamenti energetici. E il potenziale di scambi e d’investimento non è ancora sfruttato a pieno.

Il 6 ottobre la Commissione dell’Unione europea pubblicherà il Rapporto sui progressi della Turchia nell’adozione dell’acquis communautaire e la valutazione sull’opportunità di avviare i negoziati formali, in base alla conformità del paese candidato rispetto ai tre “criteri di Copenhagen”: adesione ai principi e alle pratiche della democrazia liberale e tutela dei diritti umani; esistenza di un’economia di mercato in grado di competere nel mercato interno; capacità di assolvere agli obblighi economici e politici dell’Unione europea. La previsione più diffusa è che la Commissione darà parere favorevole, seppur forse non all’unanimità, all’avvio dei negoziati nel prossimo anno, e che il Consiglio europeo di dicembre sancirà tale scelta. Tuttavia, le resistenze e le contrarietà sono assai diffuse nei paesi dell’Unione, e i negoziati dureranno molti anni.

No politici ed economici

Le obiezioni più serie addotte da chi si oppone all’ingresso della Turchia, e anche al solo avvio dei negoziati formali, si possono riassumere in sei punti: è un paese troppo grande per i delicati equilibri istituzionali dell’Unione; è un paese islamico e confina con una della aree più instabili del mondo, dal Caucaso all’Iraq. Inoltre, è un paese povero, prevalentemente agricolo e caratterizzato da una elevata dinamica demografica. L’altra obiezione, spesso ricordata, che si tratti di un paese asiatico e non europeo, è stata già superata nel 1987, quando l’Unione europea ha rigettato immediatamente la domanda di adesione del Marocco, perché paese non-europeo, ma non quella di Ankara. Semplificando molto, le prime tre obiezioni hanno carattere prevalentemente “politico”, mentre le seconde tre si possono ricondurre soprattutto a questioni “economiche”. Per ciascuna delle obiezioni “politiche” esistono convincenti contro-deduzioni (ad esempio, pur “grande”, la Turchia non sconvolgerebbe gli equilibri istituzionali dell’Unione europea, oggi perturbati più dai piccoli paesi membri; e la Turchia nell’Unione contribuirebbe alla stabilità politico-militare dell’area). Su questi temi esiste già un dibattito esteso, al quale rimandiamo. (1) Meno si è discusso, finora, delle obiezioni “economiche”. La Turchia è effettivamente un paese povero rispetto alla Vecchia Europa: il reddito pro capite annuo turco, valutato in parità dei poteri d’acquisto, è stato in media di 5.662 euro nel periodo 1998-2003, contro i 21.700 nell’Unione europea a 15. Ma è relativamente un po’ meno povero se consideriamo i dieci nuovi paesi membri, il cui dato medio nello stesso periodo era di 10.675 euro. Se poi consideriamo Bulgaria e Romania, i due candidati a entrare nell’Unione nel 2007, scopriamo che il reddito pro capite turco è stato leggermente superiore al loro nella media 1998-2003. Anche la seconda obiezione, che la dimensione dell’agricoltura turca non sia compatibile con l’ingresso nel mercato interno, è di per sé debole: non solo il peso relativo dell’agricoltura nell’economia turca si va contraendo da circa un decennio, ma la produttività del settore è più elevata in Turchia che non in Polonia, Bulgaria e Romania. In verità, queste due obiezioni ne nascondono un’altra: gli elevati costi dell’adesione turca per il bilancio comunitario, dominato per circa il 70 per cento dalle due voci di spesa dei fondi strutturali per le regioni povere e del sostegno all’agricoltura. Le stime condotte, tuttavia, indicano che i costi netti di bilancio dell’ingresso della Turchia sarebbero – a regime e a legislazione invariata – nell’ordine dello 0,15-0,2 del Pil europeo, un esborso sostenibile anche se pari a circa un quinto del budget dell’Unione. (2) Inoltre, l’inciso non è trascurabile in questo caso, perché la Turchia non parteciperebbe attivamente alla definizione del bilancio dell’Unione europea prima del 2018, e perché nel frattempo le due politiche comunitarie (strutturale e agricola) potrebbero mutare sostanzialmente. Rimane l’obiezione di una elevata dinamica demografica che è poi connessa al timore di migrazioni imponenti verso la Vecchia Europa. Non va affatto minimizzata, tuttavia occorre precisare alcuni punti. In primo luogo, la transizione demografica turca è in pieno svolgimento, e da tassi di crescita della popolazione del 3 per cento siamo oggi all’1,4 per cento, e in calo ulteriore. Se poi, com’è ragionevole supporre, alla Turchia venissero applicate le deroghe alla libera circolazione già imposte ai nuovi paesi membri dell’Est, si arriverebbe al 2022, quando probabilmente la dinamica demografica sarebbe assai più debole. Infine, le migrazioni sono il prodotto della demografia e dei divari di reddito: se Ankara potrà beneficiare dei vantaggi economici dell’adesione, anche la pressione migratoria scemerà. I timori, in realtà, hanno molto a che fare con la questione della “islamicità”, meno con l’aspetto economico.

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I benefici per la Turchia e per la Unione europea

Se queste sono le obiezioni, quali i benefici dai negoziati, prima, e dall’adesione, poi? Per la Turchia, sarebbero enormi. L’Unione europea fornisce ai suoi membri i due asset più preziosi per lo sviluppo di economie “emergenti”: un ampio e ricco mercato integrato; e istituzioni solide e credibili. Grazie a questi due elementi-chiave, i potenziali “vantaggi dell’arretratezza” (salari più bassi, capacità di adottare tecnologie d’avanguardia già disponibili, eccetera) si tramutano in sviluppo effettivo. La Turchia ha particolarmente sofferto della instabilità istituzionale e macroeconomica, e l’ancoraggio all’Europa favorirebbe molto, ad esempio, gli investimenti diretti dall’estero che finora sono stati scarsi. Si noti che questi benefici per la Turchia non sono, in linea di massima, a scapito degli attuali membri: il gioco qui non è a somma zero! Anche per l’Unione a 25, l’ingresso di Ankara può apportare vantaggi significativi. In primo luogo, stabilizzare l’economia (e la società) turca non può che contribuire al clima di fiducia in Europa. Inoltre, la Turchia può divenire una fondamentale via di approvvigionamenti energetici nel prossimo futuro. Infine, il bonus di crescita che proviene dai nuovi paesi membri non va trascurato: dagli anni Novanta, dopo l’avvio del negoziato, gli allora paesi candidati dell’Est sono cresciuti a ritmi assai sostenuti, e hanno così alimentato una domanda “autonoma” di importazioni dalla Vecchia Europa, particolarmente rilevante per l’Italia, perché buona parte di questa domanda si rivolge ai beni strumentali che sono uno dei pilastri della nostra specializzazione nazionale. Con i negoziati, la Turchia si muoverà su questo sentiero: ricerche recenti mostrano infatti che c’è un potenziale di scambi (e quindi d’investimento) ancora non sfruttato tra Unione e Turchia. (3)

 

(1) Ad esempio, si veda il recente Rapporto di un gruppo di esperti non governativi (tra cui Emma Bonino, Michel Rochard, Tony Giddens, ecc), disponibile al sito: http://www.independentcommissiononturkey.org/pdfs/english.pdf

(2) Si veda Kemal Derviþ, Daniel Gros, Faik Öztrak and Yusuf Iþýk, in cooperation with Fýrat Bayar, Turkey and the EU Budget: Prospects and Issues,http://shop.ceps.be/BookDetail.php?item_id=1148

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(3) Si veda Daniele Antonucci e Stefano Manzocchi, “Will EU accession make a difference? An empirical study of Turkey’s trade patterns”, mimeo.

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