Il nuovo codice sulla proprietà intellettuale mantiene il cosiddetto privilegio accademico: la titolarità delle invenzioni realizzate nell’ambito dell’attività di ricerca è di docenti universitari e ricercatori pubblici e non dell’istituzione. E’ una scelta che tradisce una sistematica distanza del legislatore dalla realtà economica attuale. Infatti questo istituto impedisce proprio la valorizzazione industriale della ricerca pubblica che, a parole, si vorrebbe favorire. Per esempio, complica la stesura dei contratti con le imprese private.
Ricerca e innovazione sono due parole chiave nei programmi dell’attuale Governo. Sono però due concetti ben distinti sul piano degli obiettivi e dei contenuti. Per contribuire a coniugarli, più di un ministero ha richiamato la necessità di una maggiore valorizzazione industriale della ricerca pubblica. Il ministero dell’Istruzione, università e ricerca ha inserito la “convergenza (della ricerca) su tematiche di rilevante valore socio-economico” tra i principi enunciati dall’articolo 1 della delega per il riordino dello stato giuridico dei professori universitari.
A sua volta, il ministero delle Attività produttive ha recentemente promosso, tramite l’Ufficio italiano brevetti e marchi, una conferenza sull’opportunità di consentire alle università di brevettare i risultati delle ricerche finanziate con fondi pubbliche, sul modello del Bayh-Dole Act introdotto negli Usa nel 1980. (1)
Il codice di proprietà intellettuale
Molti hanno quindi salutato con sollievo la tanto attesa approvazione, il 10 settembre scorso, del nuovo codice di proprietà intellettuale. (2)
Il testo unico licenziato dal Consiglio dei ministri mette finalmente ordine in un insieme di norme la cui frammentazione e caoticità era giustificata solo parzialmente dai successivi interventi normativi di matrice comunitaria.
Trattandosi però di una materia piuttosto tecnica, ai più sarà sfuggita la scomparsa dal testo finale dell’articolo 65, che nella bozza disciplinava la proprietà intellettuale delle invenzioni attribuibili ai ricercatori degli enti pubblici e ai docenti universitari. Si poneva così finalmente rimedio a una delle più confuse iniziative in materia di trasferimento tecnologico promosse dal ministero dell’Economia con la norma collegata alla Finanziaria 2001: l’introduzione in Italia del cosiddetto “privilegio accademico”.
Tale istituto prevede che i docenti universitari e i ricercatori pubblici ritengano la titolarità delle invenzioni realizzate nell’ambito della propria attività di ricerca, al contrario di quanto accade per i ricercatori impiegati nel privato: in quel caso infatti la titolarità spetta al datore di lavoro e non al lavoratore.
La ratio del privilegio sarebbe quella di fornire ai docenti un maggiore incentivo a sfruttare industrialmente i risultati delle proprie ricerche, scegliendo così progetti più vicini al mercato e allocando più risorse allo sviluppo di invenzioni potenzialmente sfruttabili.
In realtà, il privilegio si trasforma spesso in un ostacolo per queste attività. Non a caso, Germania e Danimarca lo hanno da poco abolito, proprio per la sua inefficacia. (3)
La rinuncia del nuovo codice della proprietà intellettuale a eliminarlo è quindi un chiaro segnale di scarsa attenzione ai dati e alle riflessioni messi a disposizione del Governo da parte della comunità scientifica in materia di economia dell’innovazione. Soprattutto, tradisce una sistematica distanza del legislatore dalla realtà economica attuale e una scarsa comprensione del sistema della ricerca pubblica italiana.
Perché è dannoso
Infatti, la maggior parte dei brevetti su invenzioni di professori universitari non sono di proprietà delle università italiane (o europee), ma delle imprese che hanno finanziato o co-finanziato le ricerche in cambio dei diritti di proprietà intellettuale. Dai primi anni Ottanta a oggi, i soli docenti in ruolo nel 2000 hanno contribuito a più del 3 per cento delle domande di brevetto (con almeno un inventore italiano) depositate presso l’Ufficio europeo dei brevetti. Nelle tecnologie maggiormente basate sulla scienza, si arriva facilmente al 10 per cento. (4)
Inoltre, dall’entrata in vigore dell’autonomia universitaria nella seconda metà degli anni Novanta e ben prima della Finanziaria 2001, molti atenei italiani si sono attrezzati con nuovi statuti e uffici per il trasferimento tecnologico che hanno condotto a un aumento significativo del numero di brevetti depositati in Italia e all’estero. Anche altri enti pubblici di ricerca si sono mossi in questo senso con ottimi risultati, come ad esempio l’Istituto nazionale di fisica della materia e l’Istituto nazionale di scienza e tecnologia dei materiali.
Il privilegio accademico complica di molto la stesura dei contratti di ricerca con le imprese, che non sanno con chi negoziare sui diritti della proprietà intellettuale, come mostrano numerose recenti esperienze nell’ambito del VI programma quadro. Il risultato è un’impasse non compatibile con i tempi dell’industria privata, che rende poco praticabile coinvolgere partner pubblici italiani in progetti europei.
Mentre da un lato si chiede a gran voce alle università di essere competitive e di aprirsi con forza al mondo produttivo, il “privilegio accademico” le depaupera come istituzione, curiosamente a vantaggio del corpo docente, considerato peraltro come la causa principale delle inefficienze dell’attuale sistema. In questo senso, il privilegio accademico appare in antitesi ai principi di quel Bayh-Dole Act che tanto fascino esercita sul legislatore italiano.
Le prove logiche ed empiriche della pericolosità del privilegio accademico sono dunque molte e forti. Perché allora è rimasto anche nel nuovo codice della proprietà intellettuale? Forse perché lo slogan “invenzioni agli inventori”, apparso per la prima volta nel pacchetto dei cento giorni, suonava troppo seducente per indurre il legislatore a una seria riflessione su suoi contenuti e le sue conseguenze.
Per saperne di più
Baldini N., Grimaldi R., Sobrero M., (2004), “Institutional changes and the commercialization of academic knowledge: a study of Italian universities patenting activities between 1965 and 2002” EIASM Workshop Proceedings, Siena, 24-26 maggio.
Breschi S., Lissoni F., Montobbio F. (2004), “Open Science and University Patenting: A Bibliometric Analysis of the Italian Case”, AEA Conference on “Innovation and Intellectual Property: Economic & Managerial Perspectives”, Singapore 15-16 July (http://www.aea.fed-eco.org/uk/archives/2004Singapore/index.asp)
Calderini M., Franzoni C., (2004) “Is Academic Patenting Detrimental to Public Research?” Working Paper 162, CESPRI University Bocconi.
(1) http://www.minindustria.it/organigramma/documento.php?id=2922&sezione=organigramma&tema_dir=tema2
(2) Consiglio dei ministri n. 169 del 10/9/ 2004 (http://www.governo.it/Governo/ConsiglioMinistri/index.asp).
(3) Anche la legislazione svedese contempla il privilegio accademico, e anche in Svezia sono numerose le voci che ne hanno chiesto l’abolizione.
(4) Balconi M., Breschi S., Lissoni F. (2003) “Il trasferimento di conoscenze tecnologiche dall’università all’industria in Italia: nuova evidenza sui brevetti di paternità dei docenti”, in: Bonaccorsi A. (ed.), Il sistema della ricerca pubblica in Italia, Franco Angeli. L’analogo valore per la Germania è del 4 per cento sui brevetti nazionali (Schmiemann M. and Durvy J.-N., 2003, “New approaches to technology transfer from publicly funded research”, Journal of Technology Transfer 28, 9-15). Dati provvisori sul Regno Unito indicano percentuali simili. Confronti estesi non sono possibili, poiché la maggior parte delle statistiche disponibili riporta il numero di brevetti di proprietà delle università, ma non quelli di origine accademica e proprietà di terzi.
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Vario
Ho letto con molto interesse il vostro articolo. Tuttavia, in qualità di docente universitario impegnato in una ricerca ad alto contenuto tecnologico, e titolare di numerosi brevetti, non sono completamente d’accordo.
La titolarità del brevetto, nella mia esperienza, non ha portato ad alcuna difficoltà nella stesura di accordi e contratti con aziende private: questo era vero prima della corrente legge, che non sarà perfetta ma ha eliminato la situazione precedente che era a dir poco disastrosa per confusione e indeterminatezza
L’alternativa alla titolarità del brevetto per l’accademico, è la titolarità per l’Università, che però a questo punto dovrebbe sostenerne – naturalmente – i costi. Gli atenei più avanzati, nell’ambito dei regolamenti previsti dalla legge, si regolano già in questo senso, trattenendo la proprietà (a meno di un non interesse) sostenendo le spese. Tuttavia la situazione delle università è tale che pensare all’istituzione di una commissione che possa essere in grado di decidere cosa è brevettabile e cosa non lo è mi pare veramente molto ottimistico, senza contare che poi per stendere brevetti ben fatti è indispensabile la consulenza di studi legali che, a differenza dei docenti, si fanno pagare molto bene…
La redazione
Gentile professore,
lungi da noi lintenzione di descrivere la situazione precedente allintroduzione del privilegio accademico come ideale o desiderabile! Non si deve però fare confusione tra quello che era lassetto normativo e le amministrazioni universitarie che quellassetto dovevano gestire. Erano queste ultime (e non la norma di legge) ad essere inadeguate, sia per proprie inefficienze croniche, sia per lassenza di risorse sufficienti a consentire agli atenei un ruolo pro-attivo nel trasferimento tecnologico (molti atenei faticano a gestire le attività primarie – insegnamento e ricerca – figurarsi come potrebbero mettersi a fare anche un terzo mestiere!). Ma lintroduzione del privilegio accademico richiede comunque un intervento di merito dellamministrazione dellateneo, e quindi non rimuove il problema della sua inefficienza. Possibilmente lo aggrava, perché non premia quegli istituti che un guadagno di efficienza lo avevano perseguito, dandosi statuti e uffici dedicati (e sono le stesse che hanno rapidamente introdotto le modifiche statutarie cui lei accenna). Né risolve il problema dei costi di brevettazione, perché semplicemente sposta tali costi, in linea di principio, sul singolo ricercatore.
Daltronde la norma precedente era la stessa che ancora oggi continua ad applicarsi al ricercatore privato e alla quale nessuno, dal fronte privato, ha mai eccepito difetti di confusione ed indeterminatezza: il datore di lavoro prende la titolarità delle invenzioni che il lavoratore ha sviluppato allinterno di una prestazione avente ad oggetto attività di ricerca. Può lo status (pubblico o privato) del ricercatore fare la differenza? La ricerca pubblica non costa meno di quella privata, ne è meno rischiosa perché possa derogarsi ad un principio lineare comune a quasi tutte le economie avanzate, molte delle quali hanno un record track brevettuale (accademico e non) ben superiore a quello italiano.
MC, MG, FL, MS