Lavoce.info

Come misurare le distorsioni dei media

In democrazia è cruciale sapere se esiste una distorsione nel sistema dei media perché è attraverso questi che i cittadini ricevono le informazioni che contribuiscono poi a formare le loro opinioni e il loro voto. Negli Stati Uniti una metodologia elaborata per misurare questa distorsione mostra che, a parte rare eccezioni, grandi giornali e network televisivi hanno un “pregiudizio” più o meno pronunciato pro-liberal. Sarebbe interessante applicare questo metodo al sistema dell’informazione in Italia. Ma per importarlo anche da noi, mancano del tutto i presupposti. Riccardo Puglisi propone un altro metodo per misurare le distorsioni dei media.

Come misurare le distorsioni dei media, di Fausto Panunzi

L’importanza del sistema dei media in una moderna democrazia può difficilmente essere sopravvalutata. È attraverso i media che i cittadini ricevono le informazioni sull’attività dei politici e sulle loro proposte ed è anche sulla base di tali informazioni che i cittadini esprimono il loro voto. Diventa allora cruciale sapere se esiste una distorsione nel sistema dei media, poiché essa potrebbe condizionare l’esito delle sfide elettorali.

I giornalisti e il sistema

Naturalmente, anche i giornalisti hanno le loro opinioni politiche e non c’è ragione per pensare che si distribuiscano in modo uniforme tra i vari partiti politici. Ad esempio, recentemente il New York Times (1) ha riportato come solo l’8 per cento tra i giornalisti al seguito di George W. Bush nell’ultima campagna presidenziale pensasse che egli sarebbe stato un presidente migliore rispetto a John Kerry. Lo stesso New York Times, in un altro articolo, ha documentato come per ogni giornalista che ha contribuito finanziariamente alla campagna di George W. Bush ce ne siano stati novantatre che hanno contribuito a quella di Kerry. (2) Dunque, la popolazione dei giornalisti può avere delle distorsioni a favore di una parte politica, ma ciò non implica necessariamente che il sistema dei media presenti la stessa distorsione.
Alcune forze possono giocare contro questa tendenza. In primo luogo, la professionalità dei giornalisti può spingerli a nascondere le proprie idee politiche per fare emergere le notizie nel modo più oggettivo possibile. In secondo luogo, assai più delle opinioni dei giornalisti contano quelle dei loro editori. Il fatto che Lilli Gruber sia di centrosinistra non implica che anche il Tg1 lo sia. Infine, le forze di mercato possono funzionare come un argine verso la distorsione sistematica del sistema dei media. Come argomentano Sendhil Mullainathan e Andrei Shleifer, (3) supponiamo che le opinioni di un segmento significativo della popolazione non siano rappresentate da nessun mezzo di comunicazione. Allora c’è spazio per l’entrata di un nuovo giornale o di una nuova radio o televisione che “copra” anche questo segmento di mercato (e di opinione). Dunque, in equilibrio, non dovrebbe esistere uno squilibrio sistematico nel modo di presentare le notizie: per ogni Tg4 dovrebbe esistere un Tg3. (4)

Come misurare la distorsione

Ma il problema della distorsione dei media non può essere risolto solo a livello teorico. È ben più importante misurare empiricamente tale distorsione, se esiste. Ma come? Una proposta per misurare la distorsione dei media è contenuta in un interessante articolo di Tim Groseclose e Jeff Milyo. (5)
Il metodo usato è il seguente. L’Ada (Americans for Democratic Action) classifica i cento membri del Senato degli Stati Uniti (come quelli della Camera dei rappresentanti) per il loro grado di fedeltà ai valori del partito Democratico sulla base dei loro voti al Senato in un particolare anno su una scala da 0 a 100. Naturalmente, voti bassi sono tipicamente associati a senatori repubblicani molto conservatori, mentre valori vicino al 100 sono tipicamente associati a senatori democratici liberal (nel periodo in esame, dal 1993 al 1999, il senatore con il punteggio più basso è Tom DeLay, repubblicano del Texas con un punteggio inferiore a 5. All’estremo opposto c’è Maxine Waters, democratico della California con un voto pari a 100). Il senatore repubblicano medio ha un valore di circa 15, mentre il senatore democratico medio ha un valore medio di circa 85. Groseclose e Milyo hanno contato il numero di volte che ciascun senatore ha citato, nel suo Congressional Record, think tank (pensatoi) o altre organizzazioni di policy, quali ad esempio Brookings Institutions, Amnesty International, Rand Corporation, e così via. Hanno poi fatto lo stesso conto per ogni rete televisiva o giornale. Infine, hanno assegnato una caratterizzazione politica ai vari media sulla base del rapporto di citazioni, associando ciascuno di essi al senatore con il rapporto più vicino. Ad esempio, supponiamo per semplicità che ci siano solo due think tank, A e B e che il New York Times citi A il doppio di B. Si cerca quale senatore abbia lo stesso rapporto di citazioni dei think tank, e il punteggio Ada del senatore (cioè la sua caratterizzazione politica) diventa anche quello del mezzo di comunicazione. Le citazioni rilevanti sono solo quelle nelle notizie e non nei commenti, nelle lettere ai direttori, negli editoriali stessi, per evitare che una citazione “negativa”, cioè di critica, venga contata al contrario come una citazione positiva. I risultati sono molto interessanti. A parte Fox News e Washington Times, tutti gli altri media più importanti hanno un punteggio Ada sopra 60, cioè hanno una distorsione a favore dei democratici. Ad esempio, il Nyt ha un punteggio di 73.7, il Washington Post di 66.6, le Cbs Evening News di 73.7, le Nbc Nightly News di 61.6 e, sorprendentemente, il Wall Street Journal di 85.1. (6) 
Solo Fox News, con 39.7, e Washington Times, con 35.4, mostrano un chiaro pregiudizio a favore dei repubblicani. Si collocano invece al centro la Pbs con le sue Newshour, la Cnn, con le sue NewsNight e l’Abc con Good Morning America. (7)
Il quadro che emerge dal lavoro di Groseclose e Milyo è dunque di un sistema dei media che ha una distorsione più o meno pronunciata pro-liberal, con rare eccezioni in direzione opposta. Naturalmente, il metodo scelto per misurare la distorsione dei media non è totalmente immune da critiche. Ad esempio, è possibile che i giornalisti siano più interessati dei legislatori alla qualità dei think tank citati. Se la qualità dei think tank vicini ai democratici è più elevata di quelli vicini ai repubblicani, il metodo proposto farebbe apparire i media più liberal di quanto essi siano in realtà. In ogni caso, Groseclose e Milyo hanno il grande merito di provare a misurare qualcosa che finora si pensava fosse non misurabile e quindi interamente lasciato alle impressioni soggettive.

Leggi anche:  Sulle telecomunicazioni il Rapporto Draghi ha luci e ombre

Una metodologia difficile per l’Italia

L’economista di Harvard, Robert Barro, recensendo l’articolo di Groseclose e Milyo,(8) trae la conclusione che questo squilibrio a favore dei democratici sarà presto corretto dalle forze di mercato e che presto nuovi media conservatori entreranno nel mercato o altri correggeranno la propria distorsione liberal. Barro menziona (auspica?) esplicitamente un possibile ri-orientamento conservatore della Cbs nel dopo Dan Rather. Altri economisti, come David Baron di Stanford, (9) credono invece che la distorsione persisterà. La ragione è la seguente. I giornalisti derivano utilità anche dall’influenzare l’opinione dei loro lettori o spettatori. Lasciare che i giornalisti possano esprimere le proprie opinioni liberamente consente agli editori di pagarli meno e quindi di risparmiare sui costi. Vedremo nei prossimi anni quale delle due opposte predizioni si rivelerà più accurata. Infine, è naturale chiedersi se sia possibile misurare la distorsione dei media italiani con il metodo di Groseclose e Milyo. Purtroppo, a prima vista, questa metodologia sembra difficilmente applicabile al caso italiano, sia perché sono scarsi i think tank, in particolare quelli indipendenti (lavoce.info è una delle poche lodevoli eccezioni), sia perché nel nostro Parlamento i riferimenti a tali think tank sembrano essere poco numerosi. Ma forse queste difficoltà sono già di per sé molto significative.

(1) Finding Biases on the Bus, John Tierney, August 1, 2004

(2) Ruling Class War, David Brooks, September 11, 2004

(3) Sendhil Mullainathan e Andrei Shleifer, The Market for News, 2004, http://post.economics.harvard.edu/faculty/shleifer/papers/marketfornews_090904.pdf

(4) Naturalmente barriere all’entrata nel mercato dei media possono invalidare le predizioni di Mullainathan e Shleifer.

(5) Groseclose e Milyo, A Measure of Media Bias, 2004 http://www.sscnet.ucla.edu/polisci/faculty/groseclose/MediaBias.pdf

(6) Il Wsj è noto per essere fortemente conservatore nei suoi editoriali, ma va ricordato che nei giornali americani la redazione notizie e quella degli editoriali sono rigorosamente separate.

(7) Secondo Groseclose e Milyo, il “centrismo” di questi tre network potrebbe spiegare perché ad essi appartenessero i tre moderatori scelti per i dibattiti televisivi tra Bush e Kerry nelle recenti elezioni presidenziali.

(8) Bias Beyond Reasonable Doubt, Weekly Standard, 13 December 2004, http://post.economics.harvard.edu/faculty/barro/bw/ws04_1213.pdf

(9) Persistent Media Bias, Research Paper 1845, Stanford Graduate School of Business, August 2004, http://gobi.stanford.edu/ResearchPapers/Library/RP1845R.pdf

Un altro metodo di misurazione, di Riccardo Puglisi

Una misura più intuitiva delle distorsioni dei mass media rispetto a quella utilizzata da Groseclose e Milyo consiste nell’analisi del tipo di argomenti trattati da un giornale.
A tale proposito, è importante studiare la variazione temporale nella copertura degli argomenti, ed in particolare se vi siano variazioni sistematiche durante la campagna elettorale. Questo è ciò che faccio in un lavoro empirico sulla scelte editoriali da parte del New York Times, dal 1946 al 1994. (1)

http://papers.ssrn.com/sol3/papers.cfm?abstract_id=573801

La scelta degli argomenti trattati da parte di un giornale o di un telegiornale è significativa dal punto di vista del comportamento politico dello stesso, nella misura in cui l’elettorato abbia delle percezioni forti a proposito di quale partito sia competente su un dato argomento. Questa è la teoria dell’issue ownership, formulata da Petrocik [1996] (2).
Un giornale dimostrerebbe di avere una distorsione partigiana a favore di un dato partito se -durante la campagna elettorale- pubblicasse in modo sistematico più articoli a proposito di argomenti su cui quel dato partito è percepito come più competente. Negli USA i democratici sono percepiti come più forti su argomenti relativi allo stato sociale e ai diritti civili, mentre su argomenti relativi alla sicurezza interna ed esterna il vantaggio è tipicamente dei repubblicani.
Nella fattispecie, il NYT dimostra di avere un bias democratico, con qualche aspetto da “cane da guardia”, in quanto pubblica sistematicamente più notizie su argomenti democratici durante la campagna presidenziale, ma ciò avviene solamente quando il presidente in carica è un repubblicano, ovvero è tipicamente debole su tali argomenti. Nella definizione di argomenti democratici includo la sanità, i diritti civili e le questioni lavorative. L’effetto è significativo dal punto di vista quantitativo: in particolare, si hanno più del 25% di notizie in più su argomenti democratici durante la campagna presidenziale quando il presidente in carica è un repubblicano.

A differenza della metodologia proposta da Groseclose e Milyo, questo metodo per analizzare il comportamento politico dei mass media sarebbe facilmente applicabile al caso italiano. Una questione interessante relativa al caso italiano sta nel capire se gli avvicendamenti nella direzione delle testate RAI a seguito delle elezioni parlamentari abbiano causato una variazione sistematica nel tipo di argomenti trattati, dentro e fuori successive campagne elettorali.

(1) Puglisi, Riccardo, “Being the New York Times: The Political Behaviour of a Newspaper” (December 6, 2004).

http://ssrn.com/abstract=573801

(2) Petrocik, John R. [1996]. “Issue Ownership in Presidential Elections, with a 1980 Case Study”. American Journal of Political Science, 40(3): 825-850.

Lavoce è di tutti: sostienila!

Lavoce.info non ospita pubblicità e, a differenza di molti altri siti di informazione, l’accesso ai nostri articoli è completamente gratuito. L’impegno dei redattori è volontario, ma le donazioni sono fondamentali per sostenere i costi del nostro sito. Il tuo contributo rafforzerebbe la nostra indipendenza e ci aiuterebbe a migliorare la nostra offerta di informazione libera, professionale e gratuita. Grazie del tuo aiuto!

Leggi anche:  Sulle telecomunicazioni il Rapporto Draghi ha luci e ombre

Precedente

La Scala e lo struzzo

Successivo

Spesa in disavanzo e giravolte politiche

  1. Emanuele Baldacci

    I risultati della ricerca riportati nell’articolo sono abbastanza sconcertanti se si e’ vissuti negli ultimi anni negli USA seguendo le informazioni diffuse dai network televisivi e dai giornali. Infatti, se si prende come esempio il trattamento dei media della guerra in Iraq si puo’ in tutta onesta’ e senza troppi complicazioni metodologiche dedurre che i media USA hanno supportato la tesi (poi scopertasi non veritiera) dell’amministrazione Bush sulla presenza delle armi di distruzione di massa in Iraq. La competizione tra networks in questo caso, lungi dal diffondere interpretazioni diverse sui fatti come vorrebbe la teoria ha portato ad una rincorsa tra i network a chi era piu’ patriottico.

    I media USA saranno pure liberal se misurati secondo i parametri dello studio, ma di fatto invece di fare informazione plurale sono stati canali di “propaganda”. Forse qualche riflessione in piu’ sulla regolamentazione del settore e sulla necessita’ di una presenza pubblica andrebbe fatta: in USA e in Italia.

  2. Andrea De Marco

    Sono dell’opinione che, allo scopo di fare paragoni riguardo le eventuali tendenze o “infiltrazioni” politiche presenti, possa risultare fuorviante accostare due realta’ dei mass media cosi’ differenti come quelle statunitense e italiana.
    Si tratta, principalmente, di due culture giornalistiche piuttosto diverse da un punto di vista di rapporti con il potere politico.
    Nella cultura dei media di massa negli Stati Uniti, infatti, ai giornalisti e’ tradizionalmente attribuito un ruolo di “cani da guardia” (watchdogs) a protezione delle liberta’ civili nei confronti del potere politico. E’ per questa ragione che, relativamente alle testate di stampa USA, le medesime tendenze politiche che pare sia stato possibile riscontrare tramite il metodo “ADA” citato nell’articolo di Panunzi, si trasformano – sempre per tradizione consolidata – in “endorsement” alla vigilia delle elezioni presidenziali.
    Il termine endorsement indica l’uso delle testate statunitensi di schierarsi esplicitamente con uno dei due concorrenti alla Casa Bianca, sostenendo che sia la migliore scelta per il popolo americano nei quattro anni successivi. E, come ricordava Vittorio Zucconi in un articolo sull’argomento comparso su Repubblica il 18 ottobre scorso, “l´investitura di un candidato è responsabilità esclusiva del desk degli editorialisti in autonomia dalla direzione del giornale e dalla proprietà”.
    Nello specifico delle ultime elezioni presidenziali negli USA dunque, secondo la rivista specializzata Editor & Publisher, 125 giornali hanno sostenuto il candidato democratico Kerry e 96 il repubblicano George W. Bush. Editor & Publisher sottolineava poi come tra le 125 testate pro-Kerry ce ne fossero almeno 35 che avevano sostenuto Bush nel 2000, mentre le testate passate dal supportare Gore nel 2000 a indicare Bush quale candidato ideale nel 2004 sarebbero state solo due.
    L’”inclinazione” della stampa americana per il candidato democratico nel 2004 appare dunque essere un dato “esplicito”, riscontrabile cioe’ anche senza la necessita’ d’innovativi metodi di indagine accademica, in quanto per sua natura “pubblico”.
    E’ allora corretto affiancare un modello siffatto a quello nostrano? Si ricordi che, fenomeno assolutamente assente negli Stati Uniti, le testate a stampa in Italia sono spesso organi di partito o comunque sostenute economicamente in quanto affiancate a diverse realta’ parlamentari. Per esempio, in quanti sanno che “Libero” non sembrerebbe essere il titolo piu’ indovinato per il giornale di Vittorio Feltri che, a seguito di un accordo di natura commerciale siglato nel 2000 con il M.M.I, Movimento Monarchico Italiano, si e’ impegnato a sostenerne pubblicamente la linea politica? (Per i piu’ scettici, un giro virtuale sul sito http://www.monarchici.org puo’ dissipare dubbi residui).
    Come confrontare dunque il caso statunitense di uno schieramento politico “a posteriori”, libero ed esplicito, con quello italiano spesso “congenito”, vincolante e sottointeso quando non taciuto?

    N.B.: Chiedo scusa per gli apostrofi inseriti al posto degli accenti, ma scrivo questo messaggio da una tastiera americana senza lettere accentate.

    • La redazione

      Il mio articolo diceva esplicitamente che è difficile pensare di applicare il metodo di Groseclose e Milyo all’Italia (anche se per ragioni diverse da quelle segnalate dal lettore). Vorrei solo puntualizzare le informazioni sugli endorsement dei giornali sono ortogonali alla metodologia di Groseclose e Milyo che li escludono esplicitamente dal loro data set perchè sono interessati al modo in cui i media riportano le notizie e non ai commenti.
      FP

Lascia un commento

Non vengono pubblicati i commenti che contengono volgarità, termini offensivi, espressioni diffamatorie, espressioni razziste, sessiste, omofobiche o violente. Non vengono pubblicati gli indirizzi web inseriti a scopo promozionale. Invitiamo inoltre i lettori a firmare i propri commenti con nome e cognome.

Powered by WordPress & Theme by Anders Norén