Perduta la speranza di approvare in questa legislatura una riforma complessiva della legge fallimentare, il Governo ne ha approvato tre importanti modifiche. Si tratta solo di un ritocco per decreto della legge fallimentare del 1942, ma le novità sono importanti e devono nel complesso essere viste con favore. Prevedono una riduzione dell’azione revocatoria, una revisione del concordato preventivo e una disciplina degli accordi privati fra debitore e creditori. Resta il rimpianto di non essere riusciti ad approvare una riforma che avrebbe consentito una vera svolta.

Perduta la speranza di approvare in questa legislatura una riforma complessiva della legge fallimentare, con il decreto-legge sulla competitività del 14 marzo il Governo ne ha approvato tre importanti modifiche. (1)
– una riduzione dell’azione revocatoria, la quale rimette in discussione atti e pagamenti eseguiti dal debitore prima del fallimento: sono state introdotte limitazioni ed esenzioni;
– una riforma del concordato preventivo, che lo rende più flessibile e adatto a coprire situazioni di crisi;
– una disciplina degli accordi privati fra debitore e creditori, a cui si dà maggiore certezza grazie all’intervento di un esperto che si assume la responsabilità di dichiarare che sono idonei a superare lo stato di crisi.
Pur se non è possibile far passare come riforma questo ritocco di una legge vecchia di sessant’anni, le novità sono importanti e devono nel complesso essere viste con favore, anche perché all’ultimo momento è stato fortunatamente accantonato uno strano progetto di accordo fra debitore e creditori sotto la protezione del ministro delle Attività produttive, di dubbia legittimità costituzionale e intriso di dirigismo.

Debitore in crisi e creditori: un difficile equilibrio

I creditori talvolta sospettano che il loro debitore sia in crisi, talvolta lo ignorano del tutto. Del proprio stato di crisi, invece, il debitore è perfettamente consapevole. In questa situazione, il debitore e i creditori hanno spesso interesse ad accordarsi: il primo fa il bel gesto di denunziare la crisi prima che sia troppo tardi, rinunziando alla piena sovranità sulla gestione dell’impresa. I secondi, in cambio della collaborazione del debitore, accettano di non espropriarlo del tutto. Nella peggiore delle ipotesi, il debitore presterà una (interessata, ma utile) assistenza alla liquidazione del proprio patrimonio. Su questo equilibrio “ideale” interviene la normativa fallimentare. Se le procedure che facilitano l’accordo fra debitore e creditori sono troppo rigide, il debitore cercherà di ritardare con ogni mezzo la denunzia della crisi, e saranno principalmente i creditori a sopportarne le conseguenze. Se la legge colpisce con la revocatoria il creditore che esige il credito qualora il debitore poi fallisca, i creditori che sospettano che il debitore sia in crisi non eserciteranno pressioni per ottenere la dichiarazione di fallimento: paradossalmente, lo lasceranno andare avanti, assecondando una gestione spesso disastrosa al fine di far passare il tempo e mettere così al sicuro i pagamenti via via ricevuti. Un creditore che aggredisca il debitore in modo palese rende un servizio alla collettività, che viene così a sapere che un debitore è in crisi, mentre un creditore intimidito dalla revocatoria cerca solo di salvare se stesso. Anche in questo caso, le perdite cagionate dal ritardo nell’emersione della crisi si scaricano sui creditori meno informati.
La nostra legge fallimentare faceva esattamente questo: da un lato, i creditori (e soprattutto le banche) venivano esageratamente puniti con la revocatoria (anche grazie a interpretazioni giurisprudenziali ottuse e formalistiche). (2) Dall’altro lato, non si consentiva al debitore di negoziare con i creditori una soluzione flessibile che fosse anche nel loro interesse. Tutti, ma proprio tutti, tranne i commercialisti e gli avvocati coinvolti nelle liti fallimentari, subivano da questo stato di cose gravi perdite.

La miniriforma: un passo nella direzione giusta

Il decreto-legge sulla competitività ha spostato il punto di equilibrio fra debitore e creditori vicino alla posizione giusta. Riducendo l’azione revocatoria, ha incoraggiato i creditori informati a fare il loro “sporco lavoro”: esigere il pagamento alle scadenze. Allo stesso tempo, ha però offerto al debitore che intenda collaborare con i creditori una procedura flessibile (il concordato preventivo “rinnovato”), che può anche portare all’ingresso dei creditori come azionisti nel capitale dell’impresa ristrutturata. A tutte le parti ha poi dato la possibilità di concludere accordi stragiudiziali garantiti dal controllo di un esperto (e in certi casi di un giudice), i quali dovrebbero consentire di superare la crisi senza i costi delle procedure, ma senza il rischio del far-west, in quanto l’esperto si assume pubblicamente la responsabilità delle proprie valutazioni. Il decreto, che contiene altre disposizioni fra cui alcune norme a tutela degli acquirenti della prima casa (3), riprende in buona parte i testi dei progetti di riforma presentati dall’opposizione in Parlamento (e già utilizzati dalla legge approvata per la crisi Parmalat). (4)
Almeno sul contenuto, la miniriforma non dovrebbe perciò incontrare pregiudiziali dissensi. Le cose giuste non sono né di destra né di sinistra: sono giuste e basta, e il paese non poteva più attendere per l’incapacità del Parlamento di darsi carico dei problemi del mondo delle imprese.

Qualche rimpianto

Restano certamente molti rimpianti. Anche se il Parlamento, esaminando il piano sulla competitività (che contiene altre misure in materia fallimentare), potrà aggiungere qualche vagone al treno della legge, si tratterà sempre di una riforma parziale e forse con le ali tarpate. Proprio il suo essere parziale, inoltre, crea seri problemi tecnici, anche di compatibilità con tutto il resto della vecchia legge. Non è truccando il motore di una vecchia auto che si vincono le corse, se i concorrenti (Regno Unito, Stati Uniti, e anche Germania e Spagna) ne hanno una nuova. La speranza è, tuttavia, che questa mini-riforma non sia altro che un passo, il primo, nella direzione giusta: meno ingerenza dei giudici e, altrettanto importante, nessuna ingerenza del Governo nella gestione delle crisi d’impresa.

(1) Decreto-legge 14 marzo 2005, n. 35, “Disposizioni urgenti nell’ambito del Piano di azione per lo sviluppo economico, sociale e territoriale”.

(2) Da oltre vent’anni la Corte di Cassazione afferma che tutti i versamenti effettuati dal debitore sul conto corrente oltre l’affidamento concesso dalla banca sono “pagamenti” soggetti a revocatoria. Così, se una banca è creditrice di 1.000 euro e il debitore ne preleva e versa 500 tutti i giorni per un anno, e alla fine fallisce con lo stesso debito di 1.000, la banca deve restituire 150.000 euro al curatore (500 per 300 giorni lavorativi), pur non avendo ricevuto nulla dal proprio debitore. Si sono verificati esempi ancora più clamorosi, con importi tanto più elevati quanto più il conto corrente veniva movimentato dal debitore.

(3) Il curatore non può infatti più revocare (cioè rendere inefficaci) “le vendite a giusto prezzo d’immobili ad uso abitativo, destinati a costituire l’abitazione principale dell’acquirente o di suoi parenti e affini entro il terzo grado”. Si tratta di una misura importante, ancorché parziale e forse un po’ troppo ampia.

(4) Disegno di legge C. 4797, presentato il 14 dicembre 2000 (primo firmatario Veltroni), le cui disposizioni sono in parte confluite nella legge 39/2004 su Parmalat, e disegno di legge C. 5171, presentato il 14 luglio 2004 (primo firmatario Fassino)

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