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Le conseguenze del “no” francese

La vittoria del “no” nel referendum in Francia sulla Costituzione europea porterà secondo alcuni a una crisi valutaria nei nuovi Stati membri, alla fine dell’UME e al blocco di ogni ulteriore allargamento. Sono previsioni che non hanno fondamento. E non dimentichiamo che anche dopo il “no” francese e un probabile “no” olandese, la prosecuzione delle ratifiche secondo i programmi è doverosa ai sensi della dichiarazione n. 30 annessa al Trattato. Ma occorre capire il disagio diffuso rispetto al processo di integrazione comunitaria. Carlo Altomonte, Giancarlo Perasso, Ettore Greco e Gian Luigi Tosato discutono le implicazioni del voto negativo sulla Carta UE al referendum francese. 

Troppo pessimismo intorno a un “no”, di Giancarlo Perasso

I cittadini francesi si recheranno alle urne il 29 maggio per approvare, o bocciare, la nuova Costituzione europea. Ancora una volta, come nell’estate del 1992, i destini europei dipendono quindi dall’esito di un referendum francese. E sulla base dell’esperienza del 1992, alcuni influenti commentatori e politici hanno espresso le loro preoccupazioni per una nuova crisi, che nella visione più pessimista, potrebbe portare addirittura alla fine dell’Emu e alla riduzione dell’Unione europea a una zona di libero scambio. Mentre i nuovi membri, secondo questi commentatori, andrebbero incontro a crisi valutarie, con conseguenti recessioni e aumento dell’inflazione. (1)
Inoltre, l’ulteriore allargamento verrebbe bloccato e la Turchia dovrebbe aspettare quaranta anni prima di entrare nell’Unione Europea. Francamente, questi scenari mi sembrano esageratamente pessimisti e qui cercherò di spiegare perché.

Se vince il “no”

Una vittoria del “no” in Francia ritarderà ulteriori allargamenti dell’Unione Europea all’infinito, si sostiene. Ma non è così. La mancata adozione della Costituzione comporterà che gli attuali trattati che regolano il funzionamento dell’Unione Europea, incluso l’allargamento, resteranno in vigore. Quindi, una volta che il candidato ha soddisfatto i criteri di Copenhagen, il negoziato può iniziare. Non è detto che il negoziato finisca in fretta, ma questa è un’altra storia, indipendente dall’esito del referendum.
Una vittoria del “no” in Francia provocherà una crisi valutaria come nel 1992-93. Anche questa affermazione non è corretta. Mancano sia le condizioni economiche che tecniche affinché si verifichi nuovamente una crisi valutaria che coinvolga i nuovi paesi membri, considerati il “ventre molle” dell’Unione Europea da chi sostiene questa tesi. In primo luogo, le condizioni macroeconomiche di questi paesi sono molto migliori rispetto a quelle dei paesi che furono colpiti dalla crisi nel 1992. Sebbene il deficit pubblico sia considerevole in alcuni casi (sopra al 5 per cento del Pil), il rapporto debito/Pil è inferiore al 60 per cento. L’inflazione è in rapida discesa e prossima a quella dell’Eurozona, le esportazioni (e importazioni) stanno crescendo velocemente grazie a forti aumenti di produttività. Questi paesi non hanno bisogno di svalutazioni competitive per sostenere la propria crescita economica. In secondo luogo, tutte le valute dei principali nuovi paesi membri fluttuano liberamente, a parte il Fiorino ungherese che comunque oscilla in una banda del 30 per cento, ed è de facto fluttuante. Mancano quindi le condizioni tecniche (ovvero, la presenza di una banca centrale che deve difendere il cambio per legge) affinché si possa sviluppare un attacco speculativo.

Le ripercussioni sull’Unione monetaria

Se vince il “no” l’Emu è destinata a sfaldarsi e quindi i nuovi membri non ne faranno mai parte.  Questa è un’eventualità “devastante” e, francamente, la trovo difficile da verificarsi.
Se l’Emu “scoppiasse”, ci sarebbero tali e quali sconquassi sui mercati valutari principali che qualunque conseguenza per le valute dei paesi della “nuova Europa” sarebbero marginali. È più probabile invece, che ci sia un indebolimento dell’euro in seguito a una vittoria del “no” in Francia.
In questo caso, uno si aspetterebbe un indebolimento, più o meno accentuato, anche delle valute di paesi membri. Invece, sulla base dell’esperienza storica, abbiamo trovato che un deprezzamento dell’euro rispetto al dollaro e alle altre valute principali è associato a un apprezzamento delle valute dei nuovi paesi membri sulla moneta unica. (2)
Certamente non si può estrapolare meccanicamente dal passato, però questo è quello che è successo. Daltro canto, se la costituzione non è approvata restano in vigore i trattati esistenti, in questo caso il Trattato di Maastricht. Il punto cruciale è che sono i nuovi paesi membri stessi che hanno interesse a far parte dell’Emu e quindi adotteranno le politiche necessarie per rispettare i criteri di Maastricht, come hanno ripetuto anche negli ultimi giorni. Non vedo come la strada verso l’Emu possa essere loro interdetta. Salvo, per l’appunto, una totale disintegrazione dell’Emu.
Si sostiene anche che “no” francese indebolirebbe l’ideale europeo e provocherebbe un generalizzato aumento di sfiducia. Che a sua volta, risulterebbe in una caduta degli investimenti nei paesi della nuova Europa. Ma una bocciatura della Costituzione non comporterebbe la fine del mercato unico, quindi non vedo perché un’impresa dovrebbe annullare i propri piani di investimento nella nuova Europa. Inoltre, la determinazione delle autorità di questi paesi a diventare membri dell’Emu garantisce che le politiche macro resteranno prudenti.

Tutto bene, quindi?

Come sempre, bisogna distinguere tra le reazioni di breve periodo e quelle di lungo periodo. A questo proposito, è utile ricordare quello che successe all’epoca della vittoria del “no” nel referendum irlandese sul Trattato di Nizza nel giugno 2001. Quel risultato fu una sorpresa e si verificò nel pieno delle negoziazioni per l’accesso all’Unione Europea dei paesi dell’Europa orientale: fu dunque uno shock più forte di quello (eventuale) di una vittoria del “no” nel referendum francese di fine maggio. La reazione dei mercati, soprattutto di quelli valutari, fu molto pronunciata e colpì i paesi che all’epoca avevano fondamentali deboli, come la Polonia. La reazione fu assente nei paesi più forti. Dopo qualche settimana, la situazione si normalizzò e le valute ricominciarono ad apprezzarsi.
Un eventuale “no” probabilmente provocherà (anzi, sta gia’ provocando, dal momento che i mercati stanno scontando una vitoria del “no” sempre piu’ ogni giorno che passa) un indebolimento dell’euro, ma da qui a dire che l’Emu (e il suo “allargamento”) andrà in frantumi ce ne passa. Probabilmente saranno sotto pressione i tassi di cambio, più che i mercati obbligazionari, della “nuova Europa”, ma dovrebbe essere un fenomeno temporaneo. I dati sui future e su altri strumenti derivati indicano “business as usual”. Un recente sondaggio tra quarantacinque trader ha indicato che trentatre di loro (più del 70 per cento) si aspettano un indebolimento dell’euro se vince il “no” in Francia ma, nello stesso tempo, questo indebolimento dovrebbe essere passeggero. Il mercato non è preoccupato, quindi, ma può cambiare idea rapidamente. Certo che se ci si mettono anche le autorità a prevedere sconquassi nel caso di vittoria del “no”, prima o poi i mercati si adegueranno. (3)

Le opinioni espresse sono dell’autore esclusivamente.

(1) Si veda quanto affermato da Norbert Walter, capo economista di Deutsche Bank sul Financial Times Deutschland dell’11 aprile (http://www.ftd.de/pw/eu/2867.html) o da Wolfgang Munchau sul Financial Times del 4 aprile (http://news.ft.com/cms/s/51dc0370-a470-11d9-9778-00000e2511c8.html): Ma anche, ad esempio, la dichiarazione di Romano Prodi del 25 aprile: “Se la Francia voterà no, non ci sarà più Europa. Ci troveremmo davanti a un lungo periodo di crisi”. (http://www.corriere.it/ultima_ora/agrnews.jsp?id={FE1E9C20-6C32-4CE1-80C7-39E67E1F1FB7})

(2) “The referendum on the EU Constitution and Central European markets: A reality check”, EM Flash Commentary, WestLB Financial markets research, 18 Aprile 2005

(3) Si vedano le dichiarazioni di Lorenzo Bini Smaghi, candidato membro del Consiglio della Bce, riportate dal Financial Times del 20 aprile (French No vote ‘could force rate rise’)

Se si perde la voglia di Europa, di Carlo Altomonte

Chi si trovasse a passare da Bruxelles in questi giorni vi troverebbe una strana atmosfera: alla fine di tutte le riunioni, decisioni, programmi e quant’altro, aleggia la domanda suprema, “e se…Cosa succede poi?”. Già, cosa succede se la Francia, domenica 29 maggio, boccia il referendum sulla Carta costituzionale europea, che nelle intenzioni dei suoi redattori dovrebbe dare all’Unione non solo la sua personalità giuridica, ma soprattutto la base operativa e di valori che le consenta di continuare a giocare un ruolo da protagonista sulla scena economica e politica mondiale?
Evidentemente, non ha senso porsi il problema adesso, in quanto si tratta della libera e democratica scelta dei cittadini francesi, che va rispettata. Al limite, ci si interrogherà solo in un secondo momento sulle possibili conseguenze di un voto negativo.

Una stabilità invidiabile

Tuttavia, ha senso chiedersi perché siamo arrivati a questo punto, ossia perché in uno Stato fondatore della Comunità europea, e “motore”, insieme alla Germania, dei suoi più importanti traguardi, si sia improvvisamente persa la “voglia di Europa”, o, meglio, la voglia di questa Europa. La domanda non è retorica, perché, scampato pericolo o meno, il voto francese ha già espresso un senso di disagio rispetto al processo di integrazione comunitaria cui va data una risposta urgente.
Per rispondere, proviamo a fare un passo indietro, ragionando sul modello economico europeo. Al giorno d’oggi, l’Unione europea è la prima area al mondo come stabilità economico-finanziaria e come coesione economica e sociale. Nonostante i dibattiti sui decimali di punto di deficit, e prescindendo dai singoli paesi, la stabilità economica di Eurolandia è invidiabile: bilancia commerciale in sostanziale pareggio (o lieve avanzo), deficit pubblico al 2,5 per cento del Pil, debito pubblico al 70 per cento (grazie al sostanziale contributo italiano). Siamo in altre parole molto lontani dalla potenzialmente instabile situazione di “deficit gemelli” degli Stati Uniti, o dall’enorme debito pubblico giapponese (140 per cento del Pil). Anche il tasso di inflazione è ormai stabilmente assestato intorno al 2 per cento, nonostante il rincaro dei prezzi del petrolio, e negli ultimi anni la sua volatilità è stata molto più bassa di quella espressa dal tasso di inflazione americano.
In termini di coesione sociale, le disparità all’interno dell’Unione europea sono progressivamente diminuite a partire dagli anni Settanta, diventando di gran lunga le più basse del mondo, come mostrato dalla tabella.

Inequality Indexes/year

EU 1970

EU 1980

EU 1990

EU 1995

EU 2000

USA 1995

World 1992

Top 5% /Bottom 20%

2.01

1.73

1.77

1.73

1.86

2.43

16.36

Gini Coefficient

0.32

0.299

0.301

0.303

0.309

0.342

0.657

Theil Index

0.169

0.146

0.154

0.150

0.160

0.190

0.855

– “within” countries

0.152

0.130

0.142

0.142

0.152

n.a

0.342

– “between” countries

0.017

0.016

0.012

0.008

0.008

n.a

0.513

Absolute poverty (10$ a day in PPS)

10.4

2.2

1.0

1.1

1.1

3.2

23.7

Poverty

(20$ a day in PPS)

34.9

20.1

13.8

12.4

9.2

9.3

51.3

Fonte: rielaborazione da Morrison and Murtin (2004)

Nel raggiungimento di tali ragguardevoli traguardi, un ruolo fondamentale è stato giocato dalle azioni degli Stati membri. In termini di stabilità, attraverso le scelte fatte sulla indipendenza della politica monetaria e sul contenimento dei disavanzi eccessivi. In termini di coesione, con la redistribuzione operata sia all’interno degli Stati, attraverso la messa in opera dei moderni sistemi di welfare, sia tra gli Stati, attraverso la creazione della politica regionale europea.

L’obiettivo fallito

È tuttavia altrettanto noto che, in larga parte, gli Stati membri hanno negli ultimi anni clamorosamente fallito nel garantire all’Unione europea il terzo, grande obiettivo: la crescita economica. E hanno fallito perché, nell’economia globalizzata, le ricette tradizionali cui gli Stati in Europa si sono da sempre affidati per garantire la crescita, ossia quelle che passano attraverso gli stimoli alla domanda aggregata (svalutazione, spesa pubblica, dirigismo), sono risultate poco efficienti e altamente vincolate dall’azione dei mercati finanziari e della concorrenza internazionale. Di contro, i sistemi anglosassoni (Stati Uniti, Australia, Gran Bretagna), maggiormente basati sul libero mercato e la libertà economica dei singoli, e dunque maggiormente orientati a un aggiustamento che passa attraverso l’offerta, si sono rivelati più attrezzati a far fronte a questo tipo di sfide. Non a caso, l’agenda di riforme strutturali concordata a Lisbona dall’Unione europea, quanto meno a parole, riconosce tale stato di cose.
Tuttavia, ai proclami non ha fatto seguito, nell’Europa continentale, una adeguata opera di ridefinizione delle basi su cui si fonda il mandato di rappresentanza politica, nonché dei suoi compiti. In altri termini, dati gli indubbi risultati conseguiti nella stabilità e coesione sociale, continua a esistere nell’Europa continentale una aspettativa forte sul ruolo dello Stato anche quale garante della crescita economica. Tale aspettativa è però fatalmente destinata a essere disillusa se portata avanti con gli strumenti di politica economica sin qui utilizzati, perché efficienza e innovazione nascono nei comportamenti individuali, non nelle scelte statali.  Tutto questo ai cittadini non è chiaro, perché la classe politica continentale, per istinto di auto-conservazione, ha sin qui accuratamente evitato le scelte dolorose che portano ai necessari cambiamenti del modello di organizzazione della società.
Di conseguenza, si è generata insofferenza nei confronti dei Governi, e volatilità nei comportamenti elettorali. Non è un caso che i primi ministri “belligeranti” di Stati Uniti, Gran Bretagna e Australia siano stati rieletti, mentre governi “pacifisti” quali quello francese e quello tedesco siano in grave difficoltà in tutte le elezioni intermedie che hanno avuto luogo negli ultimi anni. Lo stesso consenso politico italiano tende a oscillare continuamente tra i due poli. Da qui, una situazione che genera una perversa spirale di crisi, con lo Stato che rincorre le paure dei cittadini per non perderne il consenso, ma in ultima analisi le aggrava con le sue incoerenti azioni, generando ulteriore incertezza.
Il referendum francese non è dunque che l’ultimo sintomo di tale senso di disagio, ma un sintomo grave. Se non adeguatamente curato da una azione politica che veicoli un messaggio realistico, volto a far prendere coscienza della necessità di una riforma strutturale del modello di organizzazione della società continentale, rischia di pregiudicare quanto di buono l’Unione europea è riuscita a garantire ai cittadini sino a oggi.

Andare avanti, comunque, di Ettore Greco e Gian Luigi Tosato

Al centro del dibattito sulle conseguenze dei referendum francese e olandese si pone l’interrogativo sulla sorte del processo di ratifica nel resto dell’Unione: se in Francia o Olanda dovessero prevalere i no, conviene bloccarlo o lasciare che vada avanti? (1)
È una questione solo preliminare e di procedura, che non tocca il problema di fondo circa i rimedi da adottare per superare la crisi. Ma, come si sa, le questioni di procedura non sono prive di influenza su quelle di merito.

Gli argomenti a sostegno del blocco

Per chi invoca il blocco del processo di ratifica, andare avanti malgrado il no francese o olandese sarebbe giuridicamente inutile e politicamente dannoso. Sarebbe inutile perché da un no alla ratifica, la Costituzione subisce un colpo mortale e irrimediabile. Ne è sufficiente uno a rendere inutili tutti gli altri sì. Tanto più se il no proviene da paesi come la Francia o l’Olanda, entrambi tra i fondatori dell’Unione. Si teme poi l’effetto domino: il fatto che il no francese o olandese si trascini dietro una serie di altri no. Meglio interrompere il processo prima che si produca un danno irreparabile. Una pausa di riflessione consentirà di riprendere il cammino dell’Europa con qualche modifica nei tempi e nei modi, ma senza pregiudicarne la direzione di marcia. Questi argomenti non appaiono tuttavia persuasivi.

Perché occorre andare avanti – Ragioni giuridiche

La dichiarazione n. 30 allegata al Trattato costituzionale recita testualmente che “se al termine di un periodo di due anni a decorrere dalla firma del trattato che adotta una costituzione per l’Europa, i quattro quinti degli Stati membri hanno ratificato detto trattato e uno o più Stati membri hanno incontrato difficoltà nelle procedure di ratifica, la questione è deferita al Consiglio europeo.”
Le indicazioni che si traggono dalla dichiarazione n. 30 sono sufficientemente precise: ciascuno Stato membro deve attivarsi per espletare la procedura di ratifica entro i due anni dalla firma del Trattato; il diniego di ratifica da parte di uno Stato, quale che esso sia, non autorizza gli altri a fermare la procedura, a meno che gli Stati non ratificanti siano già più di cinque; se entro i due anni intervengono almeno venti ratifiche, gli Stati membri sono chiamati ad adoperarsi fattivamente in seno al Consiglio europeo per salvaguardare le sorti del Trattato o quantomeno dei suoi contenuti. Non varrebbe obiettare che la dichiarazione n. 30 è per sua natura mera espressione di intenti, priva di efficacia vincolante. Il valore giuridico di una dichiarazione annessa a un trattato dipende non dalla sua denominazione, ma dal suo contenuto. E poi, la dichiarazione n. 30 va interpretata nel quadro del sistema dell’Unione, in particolare alla luce del principio di buona fede e leale collaborazione, che la Corte di giustizia ha più volte richiamato nella sua giurisprudenza. Le regole desumibili dalla dichiarazione n. 30 costituiscono una specificazione di tale principio; esse precisano che cosa gli Stati membri sono tenuti a fare, in spirito di buona fede e leale collaborazione, riguardo al processo di ratifica.
Con la dichiarazione n. 30 gli Stati membri si sono dunque concordemente impegnati a espletare le procedure di ratifica entro i due anni dalla firma del Trattato. Al termine di questo periodo si tireranno le somme: se almeno venti Stati avranno detto sì, l’indicazione sembra essere nel senso che il Consiglio europeo si dovrà attivare per far vivere il Trattato; se gli Stati che si sono pronunciati per il no saranno più di cinque, il Trattato potrà essere rimesso in discussione. È sempre possibile per gli Stati modificare con un nuovo accordo quanto convenuto nella dichiarazione n. 30. Ma tutti devono essere consenzienti e dunque convinti che sia opportuno fermare il processo delle ratifiche.

Ragioni politiche

Non è detto che il temuto effetto “valanga” debba verificarsi. Un no francese, olandese o di altri, potrebbe anzi spingere a un rinnovato impegno delle istituzioni europee e nazionali a favore della ratifica. Né convince l’idea che sia meglio sgomberare subito il campo dal Trattato attuale per ripartire con un nuovo negoziato.
Il Trattato costituzionale contiene misure di riforma essenziali per il funzionamento dell’attuale Unione a 25 e, ancor più, dopo il suo previsto allargamento a nuovi paesi. Di qui la necessità, di esplorare preliminarmente opzioni che non comportino un accantonamento del Trattato. Gli esiti di un nuovo negoziato appaiono d’altra parte quanto mai incerti. Se esso si incentrasse sulle modifiche da apportare al Trattato, è facile immaginare che i paesi che lo hanno ratificato sarebbero riluttanti ad annacquare un testo su cui sono stati spesi tanto tempo e sforzi e che è stato approvato da un’ampia maggioranza dei loro parlamentari o elettori. La stessa scelta delle innovazioni da mantenere e di quelle da eliminare risulterà altamente controversa. Anziché facilitare la soluzione della crisi, una riapertura del negoziato potrebbe pertanto contribuire a un suo aggravamento. Ancora meno si vede come potrebbe farsi promotore di un nuovo negoziato proprio uno Stato dove il Trattato non sia stato approvato.
I vantaggi connessi a una interruzione delle ratifiche sono dunque poco evidenti; risultano per contro molto più sicuri i danni che ne deriverebbero. Già nove Stati hanno approvato la ratifica del Trattato; altri se ne dovrebbero aggiungere a breve. È verosimile che, prima dei due referendum in Francia e Olanda, quasi la metà degli Stati membri – compresi tre paesi “grandi” su sei – si siano pronunciati a favore della ratifica, e lo abbiano fatto con maggioranze parlamentari o referendarie molto ampie.
Nel referendum spagnolo i sì sono stati più del 77 per cento. E la maggior parte dei paesi che non si sono ancora espressi, hanno già definito tempi e modalità della procedura interna di ratifica. Fermare il corso delle ratifiche significherebbe vanificare l’ampio consenso al Trattato che già si è manifestato in una serie di paesi, dimostrare nessuna considerazione per l’esito delle procedure nei paesi che si apprestano a espletarle, esporre le leadership politiche di questi paesi all’accusa di essere troppo arrendevoli di fronte a sviluppi politici in altri paesi.
Un blocco delle ratifiche verrebbe dunque a introdurre una differenziazione fra Stati membri. Attesterebbe che alcuni Stati contano più degli altri, potendo incidere unilateralmente sulle sorti dell’Unione anche se si trovano in assoluta minoranza. Tutto questo in aperto contrasto con la dichiarazione n. 30, e con un forte impatto negativo sull’immagine e la credibilità democratica dell’Unione, proprio mentre è diffusa la percezione che essa soffra di un “deficit democratico”.
La prosecuzione del processo di ratifica dovrebbe per altro verso facilitare uno sbocco positivo della crisi. Alla scadenza dei due anni si avrà infatti un panorama completo delle posizioni sul Trattato costituzionale. Sarà così possibile individuare soluzioni più meditate, che si basano su dati concreti relativi a tutti gli Stati membri e non su sondaggi o supposizioni. I due anni di tempo consentiranno inoltre di sdrammatizzare la crisi. Mentre le ratifiche fanno il loro corso, sarà possibile intavolare un dialogo con gli Stati che si sono pronunciati contro il Trattato e maturare gradualmente una soluzione che porti a un recupero del loro dissenso.

(1) Sul tema si vedano i nostri scritti: “The European Constitution: How to Proceed if France or the Netherlands votes no”, in Documenti IAI, maggio 2005; in precedenza “The EU Constitutional Treaty: How to Deal with the Ratification Bottleneck”, The International Spectator, 4/2004.

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Minoranze in consiglio

  1. dts

    Non condivido le Vs. considerazioni sul NO francece al referendum sulla costituzione europea. Il motivo è semplice: Voi analizzate solo ed esclusivamente la macroeconomia della nazione mentre i cittadini comuni francesi (cioè coloro che votano) sono costretti a risolvere giornaliere situazioni di disagio in MICROECONOMIA. Vuol dire che le persone comuni hanno il problema di vivere giornalmente con un salario scarso e talvolta insicuro e, pertanto, non riescono a capire altri problemi economici di difficile comprensione. Sinceramente, poi, non capisco come noi italiani possiamo osservare una costituzione europea se ancora, dopo circa 60 anni, non abbiamo interamente applicato la nostra. In merito potrei fare numerosi esempi di inosservanza totale della costituzione italiana. In sintesi, vorrei maggiore attenzione da parte Vs. sui problemi REALI dei cittadini comuni (comuni intendo le persone con un salario e non gli Amministratori Delegati di banche e/o aziende) e non somministrarci sempre le solite problematiche economiche che difficilmente possono essere comprese. Solo per notizia, io avrei votato NO mille volte alla costituzione europea e non solo per le motivazioni sopra enunciate. Cordiali saluti

  2. Michele Brugnatti

    Secondo me la situazione è meno drammatica di ciò che sembra: il No francese è un NO a questa Costituzione, non un NO all’Europa nel suo complesso (in Francia solo Le Pen ha detto “votate no” con il proposito di votare contro l’Europa tutta). Subito dopo che la Costuzione è estata stesa, ne ho discusso con alcune persone iscritte (come me) al MFE: unanimemente abbiamo concluso che si tratta di un documento troppo ondivago, che non rispecchia appieno le necessità e la realtà europea. L’Europa non è ancora pienamente unita: secondo noi occorre prima preoccuparsi di conseguire l’obiettivo della sua unità (ci aspetta un cammino difficile e lungo al riguardo), e successivamente stendere una Costituzione. Secondo me, quindi, era prevedibile che vincesse il NO: si è voluto mettere il carro (la costituzione) davanti ai buoi (l’unità dell’Europa).

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