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Foto di giovani in famiglia

Insieme ai maltesi, i giovani italiani quelli che restano più a lungo nella famiglia di origine. Le ricerche comparative lo spiegano con l’interagire di più cause, economiche e culturali. Ma un modello sociale che si affida esclusivamente alla solidarietà familiare nella fase di ingresso nella vita adulta può avere effetti perversi: dalla cristallizzazione della riproduzione intergenerazionale della disuguaglianza ai rapporti di coppia “sbilanciati”, con uomini che divengono autonomi sempre più tardi e donne che hanno aspettative di parità e reciprocità. Alessandro Rosina commenta l’intervento; la controreplica dell’autore.

Foto di giovani in famiglia

Un’indagine svolta nel 2003 su ventotto paesi europei (l’Europa a 15, più i dieci nuovi paesi membri, più i tre candidati) ha segnalato, tra l’altro, che i giovani italiani sono, insieme ai maltesi, quelli che permangono più a lungo nella famiglia di origine e tardano di più a entrare in un rapporto di convivenza di coppia. (1)

Via da casa solo con il matrimonio

Viveva ancora con i genitori il 64 per cento dei giovani maschi italiani e maltesi sotto i 35 anni, a fronte del 57 per cento degli slovacchi, il 55 per cento dei polacchi, il 40 per cento degli spagnoli e dei portoghesi, per non parlare del 21 per cento dei tedeschi e del 12 per cento degli svedesi. La quota di giovani donne che si trova nella stessa situazione è inferiore, ma solo perché in Italia le donne si sposano ancora circa tre anni più giovani degli uomini. La stessa ricerca mostra che non si tratta soltanto di studenti o disoccupati. Anzi, tra i giovani italiani che vivono ancora con i genitori la maggioranza è occupata – una situazione ben più diffusa che negli altri paesi. Infine, come hanno segnalato anche altre ricerche, tra i giovani del Centro-Nord Europa chi non vive con i genitori si trova in una varietà di situazioni: in coppia convivente more uxorio, in coppia coniugata, da solo, con amici, come genitore solo; come studente, o occupato, e talvolta anche in cerca di lavoro. In Italia, viceversa, i giovani fuori dalla famiglia di origine sono per lo più in una situazione di coppia coniugata e, soprattutto se uomini, sono occupati. Mentre in altri paesi si esce dalla famiglia di origine per una molteplicità di ragioni, in Italia si esce per lo più a seguito del matrimonio. I dati dell’indagine Istat Famiglia, soggetti sociali, condizioni dell’infanzia, del 2003, usciti in questi giorni, segnalano che la quota di giovani che ritarda l’uscita dalla famiglia è aumentata dal 1993. Nella fascia di età 25-29 anni è passata dal 49 al 61 per cento; in quella 30-34 anni la percentuale di giovani ancora nella famiglia di origine è passata dal 18,5 al 29,5 per cento. (2)

Le ragioni economiche

Perché i giovani italiani escono più tardi dei loro coetanei europei dalla famiglia di origine e preferibilmente quando si sposano? Le ricerche comparative suggeriscono l’interagire di più cause, che tutte insieme tuttavia contribuiscono a rafforzare la dipendenza dalla famiglia di origine.
In primo luogo, per chi va all’università, non esiste né uno strumento generalizzato di borse di studio, né una offerta consistente di residenze universitarie a buon mercato. Al contrario, le borse di studio sono legate al reddito familiare e chi frequenta una università in una città diversa da quella in cui risiede è lasciato per lo più all’oneroso e un po’ sfruttatorio mercato privato degli affittacamere. Perciò solo chi ha una famiglia consenziente e agiata alle spalle può permettersi di “vivere fuori sede”.
In secondo luogo, proprio a motivo dell’assenza di forme di sostegno al reddito per chi studia o è in cerca di lavoro, in Italia più che altrove, avere una occupazione è una pre-condizione necessaria alla uscita dalla famiglia di origine. Tuttavia, non è una condizione sufficiente, in un mercato del lavoro che è insieme flessibile e poco dinamico. Se il reddito da lavoro non è sicuro, e non si ha accesso ad ammortizzatori sociali adeguati, non si può rischiare di stipulare un contratto di affitto e di avviare una vita autonoma, da soli o in coppia. Tanto più che i redditi da lavoro “in ingresso” in Italia sono mediamente più bassi che in altri paesi. (3)
Infine vi è la questione dell’accesso all’abitazione. Il forte orientamento alla proprietà – e le politiche di sostegno alla casa di proprietà – unite al fallimento dell’equo canone, hanno prodotto un mercato dell’affitto insieme asfittico e costoso. Ne sono svantaggiati soprattutto i più giovani, gli immigrati e coloro che per qualche motivo (ad esempio, una separazione) devono lasciare l’abitazione in cui vivevano. Nel caso dei giovani li rende dipendenti dalla disponibilità dei genitori vuoi a fornire loro una abitazione, vuoi ad aiutarli a comprarla. Una nuova indagine longitudinale – Idea – promossa da un gruppo interuniversitario di demografi, ha rilevato che vi è un fenomeno di ritorno nella casa genitoriale da parte di poco meno della metà di coloro che ne erano usciti per lavoro (il 46 per cento tra gli uomini, il 40 per cento delle donne). (4)
Segnala come la combinazione di precarietà del lavoro, unita al costo della abitazione, può interrompere il percorso di autonomia in assenza di alternative alla solidarietà familiare. Del resto, questa solidarietà è necessaria anche per uscire, e per continuare a stare fuori dalla famiglia di origine. La stessa indagine mostra che tra i giovani di 33-37 anni che vivono fuori dalla casa di famiglia, l’aiuto economico regolare o occasionale dei genitori è molto frequente. D’altra parte, chi esce prima dalla famiglia di origine appartiene di solito alle famiglie a reddito più basso e più numerose, che perciò hanno meno risorse da investire sui singoli figli. Ma uscire relativamente presto in una società senza rete, e che dà viceversa per scontata la rete familiare, rende chi lo fa più vulnerabile all’insuccesso e alla povertà di chi invece può contare su una casa accogliente senza vincoli di tempo. Anche nell’indagine Istat, le ragioni di tipo economico addotte dai giovani per motivare la loro permanenza nella famiglia di origine sono consistenti (41 per cento) e in aumento in tutte le regioni italiane rispetto a solo cinque anni prima. Significativamente, è aumentata (più tra le donne che tra gli uomini) contestualmente anche la percentuale di coloro che non sono soddisfatti di questa situazione e che preferirebbero rendersi autonomi. Potrebbe essere un indizio dell’incrinarsi del consenso culturale su un modello di “autonomia dentro la famiglia“, piuttosto che fuori di essa.

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E i modelli culturali

Le motivazioni economiche, infatti, non sono sufficienti da sole a spiegare la più lunga permanenza dei giovani italiani nella famiglia d’origine. Vi concorrono anche modelli culturali che considerano la dipendenza dai genitori meno, o affatto, socialmente condannabile che il ricorso al sostegno pubblico, e che considerano poco accettabile che i giovani nella prima fase della loro vita autonoma abbiano un tenore di vita inferiore a quello che avevano come figli. Tuttavia, proprio la loro combinazione con circostanze economiche e di sicurezza sociale particolarmente sfavorevoli, induce a riflettere sui possibili effetti perversi di un modello sociale che si affida così esclusivamente alla solidarietà familiare nella fase cruciale di ingresso nella vita adulta. Tra questi, vi è certamente una cristallizzazione della riproduzione intergenerazionale della disuguaglianza. Ma non va neppure sottovalutato il fatto che, specie per gli uomini, viene spostato sempre più avanti il momento in cui si trovano a dover imparare a stare sulle proprie gambe e a fronteggiare i bisogni della vita quotidiana. Ed entrano in rapporti di coppia in cui le donne, che hanno utilizzato la permanenza in famiglia per investire nella propria formazione e per stabilizzarsi nel mercato del lavoro, hanno aspettative di parità e reciprocità.

(1) Cfr. European Quality of Life Survey. Un primo rapporto di sintesi si trova in http://www.eurofound.ie/publications/EF04105.htm.

(2) Cfr. Istat, Rapporto Annuale 2004, cap. 4, “Le trasformazioni della famiglia”, Roma, maggio 2005.

(3) Cfr. Smeeding e Phillips, “Cross national differences in employment and economic sufficiency”, in F, Furstenberg Jr. (ed.), Early Adulthood in Cross National Perspective, Annals of AAPSS, n. 580, pp. 103-133.

(4) Essi sono stati oggetto di un convegno organizzato alla Accademia dei Lincei alla fine dell’aprile scorso, su “Famiglie, nascite e politiche sociali”.

Foto (sempre più sfocata) dei giovani fuori dalla famiglia, un commento di Alessandro Rosina

Nel suo intervento su Lavoce.Info (1) Chiara Saraceno, rileggendo alcuni risultati dell’indagine Idea che abbiamo presentato qualche settimana fa all’Accademia dei Lincei, alla luce anche della pubblicazione in questi giorni di alcuni dati dell’indagine Istat Famiglia e soggetti sociali (2) , ha proposto alcune considerazioni sulla condizione giovanile italiana, sempre più caratterizzata da una particolarmente lunga permanenza nella famiglia di origine. E’ forse però il caso di tornare su questo tema per arricchire il quadro con ulteriori elementi che possono aiutare a meglio delineare i cambiamenti in atto sul rapporto tra giovani, mercato del lavoro e percorso di transizione alla vita adulta.
La progressiva posticipazione dei giovani del momento di uscita dalla casa dei genitori è un fenomeno in corso da vari decenni, che però sta attualmente toccando livelli inediti e che vede in ogni caso l’Italia, come giustamente sottolineato da Chiara Saraceno, su posizioni tra le più estreme nel mondo occidentale (come del resto vale anche per la bassa fecondità e per l’invecchiamento della popolazione). Le più recenti indagini forniscono però il ritratto di un processo di transizione alla vita adulta che, oltre ad essere sempre più ritardato, sta diventando anche sempre più flessibile. E questo è forse il maggiore cambiamento che sta investendo le più giovani generazioni rispetto a quelle precedenti.
In particolare, quello che si osserva è una notevole diminuzione della sincronizzazione tra il momento di uscita dalla casa dei genitori ed il matrimonio. Ovvero aumentano le uscite per motivi diversi dalla diretta formazione di un’unione coniugale. Andare a vivere come single e andare a convivere con un/una partner sono scelte sempre più comuni, soprattutto nell’Italia centro-settentrionale. Tali scelte sembrano essere legate ad un aumento di un senso di insicurezza nelle giovani generazioni, conseguenza, su un piano generale, della sempre maggiore complessità della società della modernità avanzata, per dirla alla Giddens, e su un piano più specifico, di un mercato del lavoro che fornisce sempre meno stabilità e certezze. Diventa allora sempre meno praticabile il tipico tradizionale percorso che prevedeva prima la conclusione degli studi, successivamente la ricerca di un lavoro stabile e definitivo, l’accumulo di risparmio per l’acquisto della casa, ed infine, realizzati tali prerequisiti, l’uscita dalla famiglia di origine per matrimonio. Flessibilità e mobilità occupazionale se da un lato consentono forse di anticipare l’entrata nel mercato del lavoro, dall’altro offrono meno garanzie di continuità di occupazione e reddito. I dati ci dicono del resto che è aumentata notevolmente negli ultimi anni la quota di giovani meridionali che escono dalla famiglia di origine per lavoro, e di giovani uomini e donne dell’Italia centro-settentrionale che cominciano una vita autonoma come single o convivendo, prima ancora di realizzare le condizioni per arrivare al matrimonio. Il disporre di un lavoro, per quanto flessibile e precario (che per le fasce sociali più basse e meno istruite corrisponde a stipendi d’ingresso molto bassi e per le fasce sociali più alte e più istruite impone spesso una mobilità territoriale per inseguire le migliori opportunità) può incentivare un distacco dalla famiglia di origine, ma espone anche ad elevati rischi di fallimento e quindi di rientro nella casa dei genitori.
L’indagine Idea ha cercato di misurare tale fenomeno, ed i risultati ottenuti sono di particolare rilievo. (3)
Più di due giovani su cinque tra quelli che escono dalla famiglia di origine per lavoro, sono poi costretti a rientrarvi. Tali difficoltà e fallimenti non possono che contribuire a rinforzare il senso di incertezza percepito dai giovani. Secondo la nostra indagine, oltre la metà dei giovani è preoccupato per il proprio futuro, e lo vede pieno di rischi ed incognite. Fino agli anni ’90 del secolo appena concluso tale insicurezza ha portato a posticipare sempre più le le tappe di transizione alla vita adulta, ed in particolare le scelte percepite come particolarmente vincolanti ed irreversibili, come il matrimonio ed il mettere al mondo dei figli. (4)
Ora la risposta non agisce più solo sui tempi, ma anche sui modi del diventare adulti. Flessibilità e mobilità del mercato del lavoro, favorendo l’uscita dalla casa dei genitori prima ancora che le condizioni per il matrimonio siano realizzate, agiscono verso una flessibilizzazione del percorso di transizione alla vita adulta. Il processo è sempre meno unidirezionale. Insicurezza e flessibilità comportano anche una reversibilità delle scelte, ed un esempio sintomatico è proprio il rientro nella casa dei genitori. Quella che abbiamo definito come “sindrome del figliol prodigo”. Fenomeno che oltre ad avere cause strutturali ed economiche (precarietà lavorativa, affitti costosi, assenza di adeguati ammortizzatori sociali) si coniuga anche con specificità culturali italiane. La relazione tra genitori e figli è infatti molto più forte e solida rispetto ai paesi dell’Europa nord-occidentale. Anche dopo l’uscita dalla casa dei genitori, la famiglia di origine rimane il punto di riferimento fondamentale per i giovani single e le giovani coppie. Quando non possono contare più sulle proprie forze, ed in assenza di adeguati sostegni sociali, risulta naturale per i giovani-adulti rivolgersi ai genitori. Questi ultimi del resto sono spesso i primi ad incentivare un rientro dei giovani quando vedono che la qualità della vita dei loro amati figli rischia di diminuire significativamente. Sono spesso non solo ben disposti a riaccoglierli, ma anche a festeggiare il loro rientro ammazzando il vitello grasso.
L’uscita ed il rientro nella famiglia di origine può quindi essere vista come un fenomeno fisiologico nel contesto di una società che cambia, che diventa sempre più complessa, e nella quale vincoli ed opportunità si intrecciano in modo sempre meno prevedibile. Il problema vero è però quello dell’equità sociale. Chi ha una famiglia solida e benestante su cui contare ha comunque una rete di protezione pronta ad attivarsi nei momenti di necessità. Cosa accade invece ai giovani che trovandosi in difficoltà nel proprio percorso di vita e lavorativo non hanno una famiglia di origine in grado, per vari motivi, di accoglierli e sostenerli? Come ne escono in un sistema nel quale l’unico vero armonizzatore sociale per i giovani è la famiglia? Non solo. Il prossimo futuro sarà sempre più caratterizzato da uno schiacciamento delle generazioni di mezzo italiane sotto un doppio peso, quello dei figli giovani-adulti non ancora pienamente autonomi, e quello dei genitori anziani non più autosufficienti. (5)
Tale doppio peso già si sta facendo sentire, ma soprattutto è destinato a diventare notevolmente più rilevante nei prossimi anni. Riuscirà la famiglia italiana a resistere (da sola) a tale sfida?

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(1) Chiara Saraceno, “Foto di giovani in famiglia”, Lavoce.info, 06.06.2005

(2) Istat, Rapporto Annuale 2004, cap. 4, “Le trasformazioni della famiglia”, Roma, maggio 2005.

(3) Letizia Mencarini, Rosella Rettaroli, Alessandro Rosina, “Primi risultati dell’indagine Idea”, documento presentato al Convegno su “Famiglie, nascite e politiche sociali”, Accademia dei Lincei, 28-29 Aprile 2005.

(4) Giuseppe A. Micheli (1999), Effetto generazione. Cinquant’anni di trasformazioni demografiche in Italia dal dopoguerra ad oggi, Carocci, Roma.

(5) Alessandro Rosina, Giuseppe A. Micheli (2005), “Un aggiornamento del quadro demografico e degli scenari futuri a dieci anni dalla riforma delle pensioni Dini-Treu”, Previdenza e assistenza pubblica e privata. Il diritto della sicurezza sociale, n. 1/2005, anno II, Giuffré editore.

La controreplica dell’autore

Grazie per aver ulteriormente integrato le mie riflessioni con altri dati, relativi a che cosa succede ai giovani che escono dalla famiglia di origine un po’ prima dei loro coetanei. Non condivido però del tutto l’interpretazione in chiave di “crisi” del fenomeno della de-sincronizzazione (tra uscita da casa e matrimonio). E’ un fenomeno ampiamente presente in società meno “familistiche” (dal punto di vista del welfare) della nostra e con più garanzie. Ed avviene a età più giovani. Uscire da casa prima di sposarsi fa parte del processo di diventare adulto. E convivere senza sposarsi non è necessariamente frutto di incertezza sul futuro, ma un modo diverso di vivere la relazione di coppia: più negoziale, più esplicitamente intenzionato, meno affidato all’automatismo delle norme istituzionali. In ogni caso, non possiamo osservare criticamente che i giovani in Italia escono di casa per lo più solo quando si sposano e poi vedere nella uscita senza matrimonio un segnale di crisi e vulnerabilità. Il che non toglie che i dati sui “ritorni” a casa siano importanti. Confermano come in Italia la famiglia continui ad essere l’unico ammortizzatore sociale per i giovani, con conseguenze per la loro autonomia.

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  1. sempreilsolito

    Mi sembra un’interpretazione eccessivamente buonista. Il problema del reddito non credo possa giustificare l’età avanzata a cui molti, troppi giovani lasciano Casa. Forse semplicemente l’insieme degli svantaggi, da Lei citati, nell’uscita da casa non sono visti compensati da adeguati vantaggi.
    Per i cinquantenni come me, uscire da Casa rappresentava un obiettivo primario, lasciare una famiglia che non ci comprendeva e che non comprendevamo si pagava allora come ora con molti inconvenienti, anche la riduzione del tenore di vita. Ma questa è una circostanza fisiologica, non riesco a vederla come causa di rinuncia all’emancipazione familiare.

  2. Andrea

    Vorrei segnalare alcuni punti, riferendomi in particolare ai problemi degli studenti universitari e alla mia personale esperienza:
    -le borse di studio, almeno quelle erogate dal FriuliVG, sfavoriscono nettamente chi decide di mantenersi negli studi universitari tramite dei requisiti che, per scoraggiare gli evasori, colpiscono tutti gli altri;
    -mantenersi e studiare una facolta’ impegnativa e’ pressoche’ impossibile, dato che le nuove lauree prevedono corsi intensivi (stupidi anche per una cascata di altri motivi). Per me, scegliere di mantenermi significherebbe scegliere di rinunciare all’universita’ (ovvero di laurearmi in un numero spropositato di anni);
    -pur abitando fuori casa sento la necessita’ di farci ritorno spesso, dal momento che la mancanza di servizi (soprattutto trasporti) da un lato, e di reali attrative culturali (almeno qui a Trieste) dall’altro, mi spinge a ritornare a casa ad esempio per sfruttare (e uso questo verbo non casualmente) la possibilita’ di spostarsi in automobile, condizione indispensabile da queste parti per partecipare a una qualsiasi sorta di attivita’, culturale e non;
    -a mio avviso ha grande importanza anche il fatto che nelle citta’ la qualita’ della vita e’ nettamente piu’ bassa rispetto ai centri minori (traffico, rumore, inquinamento, difficolta’ e durata degli spostamenti, cattive condizioni delle abitazioni, costo della vita elevato).
    Quello che voglio evidenziare in definitiva e’ che l’aspetto economico e’ importante ma non e’ a mio avviso il solo determinante: non va dimenticato che i grossi centri e le universita’ italiane non rappresentano piu’ un polo di reale attrazione per chi, come me, si trova a vent’anni in questa schifezza di paese. La societa’ italiana non appare ai nostri occhi un luogo dove possiamo fiorire e dove lasceremo un segno, e la famiglia resta per molti (me compreso) un modo comodo per sopravvivere noiosamente.
    I commenti al commento sono molto graditi.

  3. barbara

    Un ammortizzatore sociale è uno strumento per attutire l’impatto economico di eventi traumatici, che ha quindi riflessi indiretti su altri bisogni primari ( affettivi, di riconoscimento sociale ecc. ). La famiglia d’origine, oltre ad una funzione economica di sostegno risponde a tutta una serie di bisogni che non hanno natura economica ma che non sono meno importanti. Il fatto che giovani adulti (non mi sembra corretto chiamare semplicemente giovani coloro che stanno nella fascia d’età fra i 25 ed i 35), anzichè spiccare il volo e cercare di costruire qualcosa di proprio si ripieghino nella famiglia d’origine è una “novità” di questi ultimi anni; sicuramente dipende dal fatto che oggi le famiglie d’origine (spesso con un solo figlio) sono molto più accoglienti (e vischiose) di quelle delle generazioni precedenti, ma non vanno sottovalutate le variabili non economiche…
    Siamo una generazione emotivamente stanca in una società emotivamente stanca: meno male che almeno, finchè resiste c’è un “ammortizzatore affettivo” ed ideale che si chiama famiglia; sicuramente sarebbe meglio vedere dei giovani adulti creare un loro originale percorso, ma fuori di casa, al di là della carenza di prospettive economiche ed alla grande incertezza, c’è un vuoto emotivo e relazionale spaventoso che cresce di giorno in giorno ( e basta accendere la televisione per rendersene conto ). Forse il fatto che in Italia non siano mai stati coltivati più di tanto dei valori civici e sociali condivisi come patrimonio comune peggiora la situazione, ma spesso, al di là della presenza o meno di un lavoro decoroso, la famiglia rimane l’unica cosa veramente “bella” e coinvolgente a cui una parte di noi partecipa. Ci sono stati periodi con incertezze conomiche molto più pesanti, con difficoltà economiche più forti, ma i giovani uscivano di casa per costruire la loro strada, anche se le famiglie erano più autoritarie e possessive di quelle di oggi…
    Le variabili economiche non bastano a spiegare un ripiegamento verso il privato così forte.

  4. Simona

    Mi rendo conto che il mio è un commento banale, ma vorrei sottolineare che le motivazioni economiche sono di per sé sufficienti a giustificare i giovani che restano in famiglia, posto che siamo la prima generazione che non solo ha poche possibilità di “salire” nella “scala sociale” (come accadeva ai nostri nonni) , ma che decisamente “torna indietro” rispetto a quella che l’ho preceduta.

  5. Hank

    Voglio sinceramente ringraziarvi per l’indagine. Era ora di mettere a fuoco il problema andando oltre lo stereotipo dell’italiano “mammone”. Che la famiglia in Italia sia l’unico ammortizzatore sociale mi sembra un dato di fatto. Chi ha avuto esperienze in paesi dove il welfare esiste lo evince con chiarezza. E’ altresì condivisibile l’ipotesi per cui chi non ha una famiglia ricca vive quotidianamente il pericolo di un fallimento di cui sarebbe interessante studiarne gli effetti.Vi porto un esempio personale. Ho trovato un lavoro pertinente alla mia onerosa formazione fuori dalla regione di nascita. Mi sono quindi trasferito con mia moglie e mia figlia neonata li dove lavoro. In assenza di strutture pubbliche che accogliessero mia figlia (il mio reddito e’ ironicamente troppo alto)il costo di una struttura privata e gli orari che rendevano comunque necessario l’assunzione di una terza persona hanno spinto alla dolorosa decisione di fare abbandonare il lavoro a mia moglie per dedicarsi alla famiglia. Improvvisamente i costi fissi di affitto della casa (casa impossibile da comprare per me; il 25-30% di liquidita’ necessaria corrisponde ad una cifra iperbolica, oltre il fatto che non capisco perche’ dovrei pagare 400mila euro quello che l’altro giorno costava 400 milioni di lire) e condominio hanno iniziato ad assorbire almeno il 75% del mio stipendio (considerato ripeto ironicamente alto dallo Stato). Cio’ ha fatto si che negli ultimi due anni siano state completamente azzerati i risparmi.
    Non avendo alle spalle una famiglia benestante sto imparando a convivere con lo spettro di quel fallimento di cui parlavamo.

  6. Giuseppe Gaggero

    Io penso che che i genitori di oggi con figli al di sotto dei venti/venticinque anni abbiano una grande responsabilità: quella di trasmettere e far accettare ai loro figli l’idea che, in linea di massima, non sarà facile fare “progressi” se non a costo di grandi sacrifici, economici e personali. Occorre trasmettere il preziosissimo insegnamento di farsi una cultura, fine a se stessa, ma indispensabile per capire i repentini cambiamenti del mondo in cui vivremo e vivranno, quello di fare dei sacrifici, economici (qui il nostro compito è determinante) e personali, senza i quali, oggi meno che mai, si potranno ottenere risultati, e quello di fare una scelta di vita scevra da stereotipi ed orientata a soddisfare in primis le proprie propensioni e secondariamente la dignità di una vita non improntata alla continua ricerca di un inutile mondo virtuale che qualcuno dovrebbe avere il coraggio di oscurare.
    La famiglia spesso non è un ammortizzatore sociale dei giovani ma un narcotizzatore sociale degli stessi che diventano irrimediabilmente incapaci di affrontare i problemi e le pur minime asperità della vita.
    Nei prossimi decenni i giovani cinesi, i giovani dell’est, dell’Africa meno povera, ed altri ancora si metteranno sotto l’ascella i nostri giovani ai quali avremo impedito di imparare a combattere anche solo per ottenere una piccola soddisfazione che oggi ritengono (l’averla) un sacrosanto diritto.
    Giuseppe Gaggero

  7. baohlina

    I giovani-adulti-in-cerca-di-autonomia provenienti da famiglie non ricche corrono il rischio di fallire nel loro tentativo di indipendenza e di retrocedere nella scala sociale alle soglie del livello di poverta’.
    Vorrei inoltre aggiungere che, in molti casi, proprio i genitori approfittano di questa situazione di potenziale precarieta’ ed insicurezza per trattenere il giovene-adulto nel caldo nido materno e sotto il loro controllo quanto piu’ a lungo possibile e con tutte le loro forze. Tutto cio’ utilizzando due “subdoli” metodi: la comodita’ (del tipo: delisiosi pranzi e cenette sempre pronti, camice stirate e auto del papa’ a disposizione) e la minaccia (del tipo far pesare l’impossibilita’ di accedere a qualsiasi mutuo senza un cospicuo anticipo che sara’ impossibile accumulare se non rimanendo nel nido fino almeno a 30 anni). Parlo sinceramente, per esperienza personale: 26 anni, laureata, uscita di casa due anni fa subito dopo la laurea per lavorare all’estero, stipendio medio di un giovane italiano laureato, senza auto, appartamento in condivisione, vacanze in campeggio e niente spese pazze. Pur soddisfatta e, in un certo senso, anche orgogliosa della vita che faccio, non ho purtroppo messo via molto in questi 2 anni di autonomia… Mi ritrovo pero’ dei genitori pronti a a prospettarmi scenari di poverta’ sicura e a definire le mie scelte come “immature e ingenue” rispetto a quelle dei miei amici giovani-laureati-lavoratori ancora nella casa paterna e con un conto in banca decisamente piu’ consistente del mio. “Loro si’ che sono stati furbi!” – e’ il commento di mia madre…
    Insomma, forse una certa “colpa” in questa situazione ce l’hanno anche i nostri cari papa’ e mamme che tentano di imporre la loro visione di come dovrebbero essere i loro pargoli: belli, ricchi, super-accessoriati, sempre lindi, sempre al sicuro, sempre cauti, sempre sotto le loro ali, cioe’ sempre i loro adorati bambini. O bambocci…

  8. Michele

    Salve a tutti. Io faccio parte di quella schiera di ‘orgogliosi’ che è uscita di casa non appena le condizioni economiche l’hanno reso possibile.
    Premetto che sono laureato ‘massiccio’ (ingegneria al Politecnico di Milano -VECCHIO- ordinamento).
    Ebbene, vi posso dire, senza timore di sbagliarmi, che, differentemente dalla generazione che mi ha preceduto:
    1) Con i miei soldi, non potrò MAI comprarmi una casa
    2) Per comprarmi una automobile, dovrei gettare tutti i miei risparmi
    3) Sono seriamente in dubbio se avere o meno un figlio (non per le rinuce che dovrò fare, ma per quelle che costringeri lui a fare)
    Insomma, mi ritengo una persona con un buon lavoro e una solida preparazione: tuttavia per me è quasi impossibile, a 30 anni, pensare a traguardi quali un matrimonio o un figlio, traguardi che furono abbastanza ‘normali’ per i miei genitori, senza chiedere l’aiuto economico di questi ultimi.
    Dopo c’è chi si lamenta perchè in Italia non si fanno figli…..

  9. Romina

    Invito gli appartenenti alle generazioni precedenti la nostra (ho ventisei anni) ad astenersi da giudizi moraleggianti. Voglio ricordare che questa mia generazione ha a che fare con una situazione anomala: da una parte, una crisi economica e sociale che spegne ogni speranza, dall’altra, la totale mancanza di strumenti per superarla con pragmatismo e senso della realtà. In altre parole, abbiamo trascorso l’infanzia e l’adolescenza accontentati in tutto (parlo anche delle famiglie a reddito medio), illudendoci che tutto fosse possibile, e poi, quasi di colpo, sbattiamo la faccia contro la realtà: precariato, svalutazione dei titoli di studio, inadeguatezza della formazione ricevuta. I miei genitori, cresciuti nelle difficoltà, si sono ritrovati con lavoro fisso, casa di proprietà e pensione. Io, cresciuta nell’abbondanza, rischio di non avere nulla di queste cose. E’ qui che nasce il dramma, l’angoscia per il futuro: nell’alienante scollamento tra l’aspettativa e la realtà.

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