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Decentramento contrattuale? No, grazie

Il sistema contrattuale nato dagli accordi del 1993 ha molti limiti, ma la sua sostituzione non sarà facile. La contrattazione decentrata potrebbe tramutarsi in un aumento del costo del lavoro. Mentre allungare la durata dei contratti sarebbe un grave errore. Meglio intervenire sul contratto nazionale, che dovrebbe riguardare solo il salario minimo di base comune a tutti i lavoratori. Ma non sembra ci siano le condizioni per farlo. Né la misura è la più urgente per ridare competitività al sistema produttivo italiano. Il rischio è di ripetere la vicenda dell’articolo 18.

Il sistema contrattuale nato dagli accordi del 1993 ha molti limiti, ma la sua sostituzione con uno nuovo non sarà agevole. Se non si farà attenzione ai molti trabocchetti, l’eventuale avvio di una nuova negoziazione potrebbe portare più tensioni e inconvenienti che vantaggi.

Il contratto e il territorio

Vediamo i suggerimenti e gli obiettivi fin qui proposti da esperti e da parti sociali. Si sostiene che la determinazione del salario debba essere decentrata in modo da distribuire la produttività del lavoro lì dove essa si forma. Così espresso, questo obiettivo presuppone il mantenimento di un sistema di contrattazione salariale centrale, dove venga assicurata la difesa del potere d’acquisto del salario, e l’estensione a tutte le imprese della contrattazione decentrata, per favorire la distribuzione della crescita della produttività.
In questi termini, rappresenta un aggravio di contrattazione e verrebbe a determinare un aumento del costo del lavoro rispetto alla situazione attuale, dove la contrattazione aziendale non è obbligatoria. Pertanto, sarebbe mal digerito dalle imprese, sia che si estenda obbligatoriamente la contrattazione aziendale a tutte le imprese (anche alle piccole), sia che si adottino livelli contrattuali territoriali (regionali o altro). Per altro, è da notare che il contratto territoriale ha tutti i difetti di quello nazionale portati all’ennesima potenza. Infatti, poiché non distingue tra le diverse aziende, distribuisce incrementi di produttività (o quant’altro) che sono una media relativa a imprese presenti su di un territorio limitato. La media, quindi, è ancora meno rappresentativa che nel caso nazionale, tanto più che sul territorio possono esserci casi di competizione reciproca: lo stesso aumento di costo salariale finirebbe per penalizzare l’impresa più debole, ovvero per avvantaggiare notevolmente quella più forte.

Salari per Regione

C’è poi chi afferma che la contrattazione territoriale è necessaria perché risponde all’esigenza di differenziare i salari in base al diverso costo della vita o al diverso livello della produttività nelle Regioni italiane.
In questo caso, la contrattazione del salario dovrebbe essere tutta elaborata a livello territoriale, abolendo di fatto il contratto nazionale. Ammesso che il sindacato lo accetti e ammesso che esistano significative differenze territoriali non ancora espresse dagli specifici livelli attuali del costo del lavoro, c’è da capire come si possa arrivare a un tale risultato. Poiché appare improbabile ridurre l’attuale salario dei lavoratori che si trovano in Regioni a più basso costo della vita o della produttività, una simile proposta, oggi, porta solo ad aumentare il costo del lavoro laddove il costo della vita o la produttività sono più alti. Con il risultato evidente di compromettere la già precaria competitività delle imprese italiane, perché ne discenderebbe un incremento medio del costo del lavoro superiore alla produttività media per alcuni anni, almeno fino a che si formi il “necessario” divario territoriale. Quando ciò avverrà, forse non ci sarà più l’industria italiana. In effetti, il contratto territoriale si addice solo a realtà veramente locali (piccoli artigiani, botteghe commerciali, lavori agricoli), dove di fatto simula un contratto nazionale su scala ridotta, perché l’economia di riferimento è effettivamente locale.

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Cambiare il contratto nazionale

La sola via sensata per favorire uno spostamento della contrattazione dove si realizza la produttività senza un aggravio complessivo del costo del lavoro è una modifica sostanziale del livello nazionale: dovrebbe riguardare solo il salario minimo di base comune a tutti i lavoratori e la variazione annuale (per garantire il potere d’acquisto) non dovrebbe aggiungersi, ma dovrebbe essere assorbita dagli eventuali aumenti contrattuali negoziati a livello aziendale, dove si realizzano effettivamente gli incrementi di produttività o di redditività. Ma una tale soluzione appare difficile da far accettare ai sindacati, anche perché contraddice la loro attuale organizzazione, così come quella delle imprese. Personalmente, penso che sarebbe la via migliore da seguire, ma dubito che ci siano oggi le condizioni e che essa sia così urgente da far accettare un periodo di forti tensioni.
C’è poi chi sostiene che si potrebbero allungare le scadenze negoziali (a tre o quattro anni), per ridurre le fasi di conflitto. Questo sarebbe un errore colossale che testimonierebbe l’assenza di memoria storica. I conflitti salariali sono tanto più lunghi e violenti quanto più lungo è il periodo cui si riferisce la contrattazione. L’esperienza dell’Italia prima del 1993 ne è un chiaro esempio. Infatti, se le parti sociali devono impegnarsi per un periodo lungo (tre o quattro anni), ognuna cercherà di ottenere il massimo, dato che non avrà altri modi di recupero, e ricorrerà a tutte le pressioni possibili. Invece, quando si negozia per un periodo breve, si può anche accettare un compromesso, perché presto ci sarà la possibilità di correggersi. Inoltre, se il periodo di riferimento è lungo, nasce immediatamente la necessità di una “garanzia” contro le variazioni non previste dell’inflazione. Ossia si ritornerebbe di fatto alle indicizzazioni che tanti danni hanno procurato all’economia italiana, senza alcuna certezza di ridurre tempi della negoziazione. Infatti, sempre come l’esperienza italiana ha mostrato, l’indicizzazione dei salari, rendendo meno urgente la conclusione degli accordi, ne prolunga i tempi.
In realtà, se l’Italia fosse un paese come tutti gli altri, dovremmo portare a un solo anno la scadenza dei contratti: avrebbe l’effetto di sdrammatizzare le scadenze e rendere più agevoli gli accordi, perché nessuna parte si giocherebbe troppo della sua credibilità. Così avviene negli altri paesi, ma, anche in questo caso, dubito che il nostro sia pronto ad affrontare un simile cambiamento.
In definitiva, una modifica del sistema contrattuale italiano potrebbe essere utile, ma mi domando se oggi sia il momento migliore per farlo, se ci siano le condizioni per arrivare a un accordo positivo e se questa sia la cosa più urgente per ridare competitività al sistema produttivo. Se così non fosse e si volesse comunque avviare una stagione negoziale, occorre ben valutare il rischio di creare tensioni di cui non si sente veramente il bisogno. Basti ricordare quello che è avvenuto con il tentativo di modifica dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Una modifica che poteva anche avere qualche giustificazione, ma che è stata avanzata quando non c’era l’urgenza né le basi minime per un’intesa, con il risultato di creare una forte tensione che non ha condotto a nulla.
Meglio pensare agli interventi che sono realmente urgenti per la competitività delle imprese e per la difesa dei posti di lavoro: come la riduzione del cuneo fiscale e contributivo, il sostegno all’innovazione e la modifica degli ammortizzatori sociali per favorire l’adeguamento delle imprese italiane insieme a una migliore formazione dei lavoratori.

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Sommario 6 giugno 2005

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Il metrò a Parma: un piccolo ponte sullo Stretto?

  1. Mario Giaccone

    Le argomentazioni di Cipolletta, come sempre, sono molto chiare, ed è un bene.
    Per me è un buon segnale che una figura così autorevole, che in un precendent contributo aveva dato un valore contingente alla concertazione, dia invece un valore strutturale al modello contrattuale: segno che funziona e che serve, ed è importante che emerga dal mondo imprenditoriale.
    Ritengo però le argomentazioni a favore di una posizione corretta un po’ conservatrici: ad esempio, nella contrattazione territoriale ci sono esperienze poco apprezzabili (penso al secondo livello artigiano) ma altre molto interessanti sia di contrattazione salariale (Legno-mobile a Pordenone) sia di servizi di welfare (commercio in alcune provincie venete) proprio perchè, se ben disegnata, stimola l’innovazione, di cui abbiamo bisongo come il pane, e l’innovazione un qualche costo ce l’ha sempre.
    Il modello contrattuale richiede una “manutenzione straordinaria. Non fare manutenzione a livello nazionale ha un prezzo: si mantiene un equilibrio di appiattimento retributivo sull’inflazione (più programmata che reale) e quella bruttura del biennio economico, che si riduce, in caso di disaccordo, a uno sterile e pericolosissimo braccio di ferro. Allora o il contratto nazionale è biennale o riportiamolo ai vecchi tre anni, con meccanismi sanzionatori più pesanti.
    Niente di drammatico o di urgente: in questo condivido la posizione di Cipolletta. Ma bisogna discutere di questo con altri due problemi: il riconoscimento professionale fondato sull’esperienza in un mondo di lavoro mobile – oggi mal tutelato dai scatti di anzianità, che ci stanno solo con mercati interni del lavoro – e la frammentazione contrattuale. E l’esperienza di questi 12 anni insegna che ci sono state fusioni fra ccnl laddove si è previsto il secondo livello negoziale, allegerendo il ccnl. Non è una buona strada?
    Il rischio della mancata manutenzione è che le associazioni di rappresentanza di imprese e lavoratori perdano definitivamente la funzione di autorità salariale. Professor Cipolletta, vuole questo?

    • La redazione

      Le esperienze di contrattazione territoriale menzionate sono tutte relative ad attività che hanno un mercato prevalentemente locale (specifici artigiani, commercianti, ecc.). In casi come questi, come ho avuto a dire,
      la contrattazione territoriale si giustifica perchè di fatto simula una contrattazione nazionale, nel senso che concerne un gruppo relativamente chiuso che esaurisce la sua concorrenza nel gruppo di riferimento. Non escludo affatto che casi di questo genere possano esistere, ma sono
      piuttosto l’eccezione che la regola. Sono invece del tutto d’accordo sulla necessità di manutenzione dei sistemi
      contrattuali che servono ad affrontare per tempo le novità e possono dare luogo ad interessanti sperimentazioni. In questo senso, lamento da entrambe le parti una assenza di dialogo e di frequentazione assidua che rappresenta la via per operare una manutenzione continua e non polemica dei sistemi
      contrattuali. Questo può avvenire a livello nazionale o aziendale e, nei casi limitati ove ciò abbia senso, sul territorio.

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