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Un’occasione mancata

I decreti attuativi della legge delega eliminano le barriere alla concorrenza fra diverse forme previdenziali. Ma non assicurano adeguata tutela agli aderenti. Inoltre, introducono una discriminazione a danno della tassazione delle pensioni pubbliche, utilizzano gli incentivi fiscali a favore dei redditi più elevati, moltiplicano le aliquote. In più si indebolisce il legame essenziale fra adesione alla previdenza complementare e rendita in età non lavorativa. Invece di favorirlo, si rischia così di compromettere lo sviluppo della previdenza complementare.

Gli schemi di attuazione della legge delega 243, varata nel settembre del 2004, sono così ambiziosi da configurarsi come un vero e proprio “Testo unico della previdenza complementare” volto a plasmarne il futuro sviluppo. Lascio ai giuristi il compito di stabilire se ciò rappresenti una forzatura, mascherata, ma non risolta, dalla recente estensione parlamentare della delega per la previdenza complementare che non ne specifica i nuovi principi. Mi astengo inoltre dal giudicare se sia socialmente accettabile che il previsto “confronto” fra Governo e “organizzazioni sindacali (…) dei datori e dei prestatori di lavoro” avvenga in parallelo alla discussione dei decreti attuativi presso le commissioni parlamentari. Non entro infine nel merito delle incongruenze che potrebbero derivare, nel caso di “silenzio-assenso”, dalla mancata definizione di una gerarchia fra fondi pensione ad adesione collettiva e dalla sua sostituzione con un non meglio specificato “accordo fra le parti” o con un ancor più ambiguo principio di adesione aziendale (attiva?) del “maggior numero di lavoratori”.
Cerco invece di rispondere a tre domande di carattere più strettamente economico: (1) lo schema di “Testo unico” accresce davvero la concorrenza nel mercato previdenziale? (2) fornisce appropriati incentivi fiscali? (3) offre un efficace raccordo fra fase della capitalizzazione e fase dell’erogazione dei benefici? Le risposte negative che fornirò per ciascuno di questi tre interrogativi, mi portano a sostenere che gli schemi di attuazione in discussione rappresentano una grande “occasione mancata” e rischiano di compromettere lo sviluppo della previdenza complementare.

L’apertura alla concorrenza

Sia la legge delega che i decreti attuativi eliminano le preesistenti barriere fra le diverse forme previdenziali (fondi pensioni contrattuali, fondi pensione aperti e piani individuali di previdenza), nel caso di adesione attiva, e istituiscono un’alternativa fra fondi contrattuali e fondi aperti ad adesione collettiva nel caso di “silenzio-assenso”. Il servizio di previdenza complementare è, però, un “bene pubblico” e, dunque, la concorrenza non si può solo basare sulla mancanza di barriere all’entrata. Come riconosce in parte la stessa legge 243, è anche necessario assicurare adeguate forme di tutela agli aderenti a prescindere dalla forma previdenziale prescelta. La legge delega identifica, perciò, i responsabili dei fondi pensione in figure “particolarmente qualificate e indipendenti” e prevede “organismi di sorveglianza” per i fondi aperti ad adesione collettiva. Inoltre, richiede “regole comuni” anche in termini di trasparenza per le diverse forme previdenziali e impone “l’unitarietà e l’omogeneità del sistema di vigilanza sull’intero settore della previdenza complementare”.
Quanto detto già implica che la legge 243 crea un’ingiustificata asimmetria fra la governance dei fondi pensione e quella dei piani individuali di previdenza. I decreti attuativi peggiorano, però, il quadro. Innanzitutto, pur estendendo la figura del responsabile ai piani individuali di previdenza, non ne prevedono alcuna indipendenza rispetto alla “casa madre” dei fondi aperti e degli stessi piani individuali di previdenza. Per giunta, nel caso dei fondi contrattuali, creano un’implicita sovrapposizione di funzioni (e di ruoli) fra il nuovo responsabile e il consiglio di amministrazione. Inoltre, pur estendendo l’organismo di sorveglianza a tutti i fondi aperti (e non solo a quelli ad adesione collettiva), ne svuotano a tal punto la composizione e le funzioni da renderlo inutile: questo organismo non soddisfa alcun principio di rappresentanza degli aderenti, non è in grado di acquisire informazioni che per il tramite del responsabile (non indipendente) del fondo, si limita a denunciare (come qualsiasi aderente) al consiglio di amministrazione e all’autorità di vigilanza le irregolarità riscontrate nella gestione del fondo aperto. A tutela degli aderenti non resterebbero, così, che le regole comuni in termini di trasparenza e l’unitarietà della vigilanza. Tuttavia, i decreti attuativi non offrono specificazioni apprezzabili rispetto al primo punto; e, pur disegnando un’unificazione solo parziale della vigilanza sotto la Covip, sul secondo punto entrano in contraddizione con altre leggi in discussione al Parlamento.

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Due ulteriori problemi

Quanto detto già basterebbe a compromettere l’equilibrato sviluppo della previdenza complementare. È però necessario accennare ad almeno altri due elementi di contraddizione inerenti alla fiscalità e all’erogazione dei benefici. Gli incentivi fiscali comportano, quasi sempre, distorsioni nel funzionamento dei mercati; sono, quindi, giustificabili solo se ne correggono di ancora più gravi o se hanno effetti redistributivi favorevoli. Forzando il passo della legge delega in cui si prevede una riduzione nella “tassazione dei rendimenti”, i decreti attuativi non intervengono sulla tassazione, ma introducono aliquote di favore riguardo all’imposizione delle prestazioni erogate in forma di rendita: da un massimo del 15 per cento a un minimo del 9 per cento (con riduzione dello 0,3 per cento per ogni anno di adesione alla previdenza complementare eccedente il quindicesimo). In termini di “cucina politica”, la ratio dell’intervento è intuibile: risulta più agevole largheggiare con gli impegni lontani che con quelli immediati. Questa scelta determina, però, almeno tre effetti paradossali: introduce una discriminazione a danno della tassazione delle pensioni pubbliche; utilizza l’incentivazione fiscale a favore dei redditi più elevati; moltiplica le aliquote (più di venti) a fronte di un programma governativo che – a livello di sistema – persegue obiettivi opposti.
A ciò si aggiunga che, ricalcando un principio della legge delega, ma contraddicendo l’incentivo fiscale, i decreti attuativi eliminano i preesistenti disincentivi alla liquidazione della quota di montante capitalizzato compresa fra il 50 e il 66 per cento. Indeboliscono, così, il legame essenziale che dovrebbe intercorrere fra adesione alla previdenza complementare e percepimento di una rendita in età non lavorativa.
Fino a oggi sono stato uno dei più convinti assertori della necessità di accelerare lo sviluppo della previdenza complementare e, dunque, di rafforzare le fonti di finanziamento dei fondi pensione mediante il trasferimento del Tfr e il meccanismo del “silenzio-assenso”. Alla luce delle considerazioni fatte e delle molte altre critiche che si potrebbero muovere allo schema di “Testo unico della previdenza complementare”, devo riconoscere con amarezza il mio errore: meglio fermare tutto.

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Cosa ha detto la stampa (2004-2005)

  1. Alessandro Di Nola

    L’analisi del prof. Messori è in gran parte condivisibile;
    Tuttavia non è chiaro perchè il governo non dovrebbe differenziare il regime fiscale tra pensione pubblica e pensione privata a beneficio di quest’ultima: se l’obiettivo è incentivare la tanto attesa previdenza integrativa… si tratta di una distorsione a fin di bene… Il problema sarà piuttosto di renderla più equa, ma non di rendere il sistema neutrale.

    • La redazione

      Vi sono almeno una ragione economica e una ragione giuridica che rendono distorsivo offrire incentivi fiscali alle rendite complementari e non alle pensioni pubbliche. La ragione giuridica risiede nel fatto che, secondo la
      Corte costituzionale, il primo e il secondo pilastro previdenziali
      dovrebbero essere strettamente legati cosi’ da consentire al lavoratore italiano di mantenere un’invarianza nel suo tenore di vita durante l’età pensionistica; e, d’altro canto, il pilastro pubblico dovrebbe, di per sé, garantire uno standard dignitoso di vita durante quella stessa età. Da ciò
      deriva che il primo pilastro e’ chiamato a soddisfare un bisogno previdenziale che non e’ certamente meno essenziale o rilevante rispetto a quello coperto dal secondo pilastro; pertanto, se la giustificazione della riduzione fiscale risiede nell’incentivare il soddisfacimento di un bisogno previdenziale, non appare legittimo applicare tale riduzione al complemento
      invece che al pilastro di base. La ragione economica risiede invece nel fatto che, abbattendo l’aliquota sui benefici della previdenza complementare e tassando con aliquota marginale le pensioni pubbliche, si introduce un elemento di regressivita’ nel sistema fiscale. Nel caso dello schema previsto dai decreti attuativi, tale regressivita’ e’ tanto piu’ marcata in quanto l’aliquota prevista per la tassazione dei benefici di secondo
      pilastro non e’ differenziata per ammontare del beneficio ottenuto e ha un tetto massimo (15%) molto basso rispetto alle aliquote sul reddito.
      Tralascio poi altre considerazioni di sistema gia’ accennate nel miointervento su “la Voce”. Aggiungo solo che, in sintonia con quanto sostenuto da Silvia Giannini e da Cecilia Guerra, non penso che il problema della previdenza complementare risieda in insufficienti agevolazioni fiscali; quindi, introdurre distorsioni così marcate e inique nel sistema economico
      mi sembra veramente inappropriato.
      Buon lavoro e a presto
      Marcello Messori

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