Mentre la mania per le OPA e le scalate sembra ormai inarrestabile, gli avvenimenti degli ultimi giorni proiettano pesanti ombre sull’operato e la credibilità della Banca d’Italia. Il tutto avviene mentre sono in corso operazioni che richiedono investimenti e finanziamenti per miliardi di euro che stanno creando posizioni fortemente rischiose a fronte delle quali paradossalmente ci sono basse probabilità di guadagno.

“Con la pelle d’oca” è una delle frasi che sembra abbia pronunciato Giampiero Fiorani per ringraziare il governatore Antonio Fazio per il via libera all’offerta di scambio su Antonveneta. È la stessa sensazione, anche se per motivi alquanto differenti, che dovremo avere nel ripercorrere le vicende degli ultimi mesi che hanno interessato il mercato azionario italiano. Ed è sempre quella stessa sensazione che dovremo avere quando pensiamo agli sviluppi futuri legati alle operazioni in corso e a quelle che si preannunciano già per il prossimo futuro.
Ogniqualvolta che nei mercati si realizzano operazioni che hanno poco senso economico dovremo sempre essere preoccupati. Purtroppo negli ultimi tempi di operazioni di questo tipo ve ne sono diverse in corso e altre sono attese. Il pericolo in questi casi che si creino posizioni estremamente speculative e rischiose, determinando così i presupposti perché qualcuno possa subire nel futuro forti perdite a vantaggio di qualcun altro, che, sfruttando la situazione, si crea un bel guadagno immediato. Ogni riferimento a fatti e persone (vicenda Unipol/BNL/immobiliaristi) non è casuale. Con questo naturalmente non vogliamo dire che ci sia necessariamente qualcosa di male nel voler acquisire una società, ma quando l’acquirente è una società molto più piccola, con poche risorse a disposizione, può diventare un problema. Alle stesso modo non c’è nulla di male a rastrellare titoli sul mercato ma diventa patologico se si acquistano con premi altissimi. Quello che possa ad esempio aver spinto Stefano Ricucci a rastrellare azioni RCS a quei prezzi, non ha certo nulla a che fare con la ricerca di un investimento industriale profittevole.
Questi problemi non riguardano solamente coloro che risultano coinvolti direttamente in queste operazioni. È infatti interesse di tutta la collettività che queste operazioni non determino delle condizioni eccessivamente rischiose o violino i principi di concorrenza. Anche perché, in particolare nel caso delle banche, è l’intera collettività che poi alla fine, in un modo o nell’altro, è chiamata a coprire eventuali situazioni deficitarie. Non bisogna poi dimenticare che è interesse di tutti che i mercati allochino nel modo più efficiente possibile le risorse.
Per cercare di prevenire e limitare questi problemi esistono delle regole da rispettare e delle autorità di controllo in grado di condizionare e indirizzare anche fortemente certe operazioni. E qui purtroppo arriviamo al punto più sconfortante, che concerne proprio il controllo, in particolare sulle operazioni su Antonveneta e BNL, che si presenta sempre di più come un concentrato di paradossi e omissioni. Siamo stati dell’opinione, (a questo punto crediamo sia del tutto evidente) che la condotta di Banca d’Italia, oltre a non essere stata imparziale, è andata contro quasi ogni buona regola economica e prudenziale conosciuta. Il fatto che questa possa essere stata formalmente rispettosa delle normative in materia (vedi sentenza del TAR), non può e non deve riportare in secondo piano quegli elementi di sostanza, che sono talmente evidenti, che non possono e non devono essere taciuti. Le imprese falliscono senza che necessariamente i propri amministratori facciano qualcosa di illegale; ma questo non elimina le responsabilità degli amministratori nei confronti dei propri finanziatori. L’aggravante è stato poi che su queste vicende la politica è stata, almeno fino a questo momento, praticamente assente; a destra come a sinistra, il che può anche essere condivisibile, a patto che tutto proceda nella correttezza e nel rispetto, sostanziale oltre che formale, delle norme previste. E alla fine, come spesso accade in questo paese, ad intervenire sono stati i giudici. La cronaca è ormai nota e a questo punto è inutile farne un nuovo resoconto. Vale solamente la pena ricordare la situazione incredibile che si è creata nel caso di Antonveneta dove si è dato il via all’OPS lanciata da Popolare Italiana (ex Popolare di Lodi) nonostante il parere contrario dei tecnici di Banca d’Italia. Questo per sottolineare che evidentemente anche in Banca d’Italia erano giunti alle medesime conclusioni a cui erano arrivati praticamente tutti, ovvero che i coefficienti patrimoniali della Popolare Italiana erano compromessi e che tutta l’operazione era ed è altamente rischiosa per una banca in queste condizioni. Francamente non abbiamo mai dubitato che i tecnici di Banca d’Italia, che godono da sempre, e giustamente, di una reputazione di alta professionalità, non vedessero di buon occhio questa situazione.
Quali siano le ragioni che possano aver spinto Banca d’Italia, o meglio il suo governatore, ad una simile condotta è e rimane un mistero. Ragioni economiche non riusciamo a vederle; l’italianità delle banche, la costituzioni di gruppi bancari radicati sul territorio, possono essere forse dei bei slogan per qualcuno, ma certamente hanno una scarsa consistenza economica. Il nostro sistema bancario è costituito quasi esclusivamente di banche ben radicate solo sul proprio territorio; che tale caratteristica diventi addirittura una priorità e un vanto ci sembra veramente troppo. È stato lo stesso governatore del resto che nella sua relazione annuale a maggio ha evidenziato le principali lacune del nostro sistema bancario, quando ha affermato come tutta una serie di attività bancarie in Italia, assolutamente strategiche, siano gestite da banche estere, come in particolare il collocamento di titoli (il 70% è collocato da banche estere), servizi di finanza aziendale, gestione di patrimoni mobiliari e altre attività all’ingrosso. Non bisogna essere certo degli esperti per capire che per svolgere questo tipo di attività non c’è bisogno di un maggiore localismo ma di una maggiore apertura e internazionalizzazione. Sul fatto poi che le OPA di Popolare Italiana e Unipol non rappresentino potenzialmente un buon investimento lo dicono le cifre che gli stessi autori delle OPA hanno fornito al mercato. Ci riferiamo alle famose sinergie di 300 milioni nel caso di BPI/Antonveneta e 500 milioni nel caso Unipol/BNL. Infatti se a tali valori vengono dedotti i costi dell’integrazione, quelli del finanziamento delle operazioni (interessi passivi, etc.), le parcelle dei consulenti e naturalmente le tasse, e si considera un adeguato costo opportunità del capitale e un certo numero di anni per andare a regime, ne ricaviamo che la presunta creazione di valore delle sinergie potrà a stento coprire i costi legati ai cospicui premi pagati per le acquisizioni. Di vantaggi per gli azionisti chiamati a sopportare l’onere ed il rischio finanziario di tali operazioni non se ne vedono. Insomma si stanno prendendo dei grossi rischi a fronte di basse probabilità di guadagno; agli azionisti non rimane che sperare che il proprio management abbia sottostimato le possibili sinergie delle fusioni. Date le poste in gioco, tutto questo ci sembra veramente incredibile e incomprensibile.
Se poi qualcuno ha ancora qualche dubbio sulla contraddittorietà di questi progetti provi a districarsi sulla serie infinita di operazioni, alcune molto complesse, richieste per finalizzarli. Tra le altre cose, molte di queste operazioni implicano l’utilizzo di derivati; purtroppo a tanti ancora sembra sfuggire che l’utilizzo di questi strumenti crea di per se posizioni rischiose e costose.
Se qualcuno infine pensa che comunque alla fine tutto si sistemerà, ricordiamo che la storia ci insegna che le fusioni e le acquisizioni alla prova dei fatti risultano spesso un modo per distruggere ricchezza più che per crearla. Moeller, Schlingemann e Stulz in un recente articolo pubblicato su Journal of Finance, hanno stimato, per un campione di società quotate, che tra il 1998 e il 2001 i processi di acquisizione hanno determinato una distruzione di valore netta per circa 134 miliardi di dollari. È singolare come da questo punto di vita la stessa Banca Popolare Italiana rappresenti un tipico esempio. Se guardiamo infatti alla sua storia recente vediamo che questa è fatta di numerose acquisizioni (a prezzi sempre elevati), aumenti di capitale, forte ricorso al debito; con il risultato finale di aver perso un terzo del suo valore negli ultimi cinque anni. È difficile al momento prevedere gli sviluppi futuri di queste vicende. Se accantoniamo per un momento le beghe giudiziarie e amministrative, l’unica certezza che rimane è che queste operazioni stanno richiedendo investimenti e relativi finanziamenti per miliardi di euro. Investimenti, come abbiamo visto, dall’esito molto incerto e con basse potenzialità di guadagno. Ci auguriamo che in futuro, chi si fa promotore di certe iniziative, abbia quantomeno l’accortezza di presentarsi al mercato con maggiore trasparenza e con progetti che almeno sulla carta risultino credibili e sostenibili. Perché è veramente paradossale che le cifre fornite dagli stessi promotori siano in palese contraddizione con gli ambiziosi progetti annunciati a parole.

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